NOTIZIE DALL'ALDILA': IL CASO MACHADO DE ASSIS

Susan Sontag



Un Critico In Libertà

Immaginate uno scrittore che, nel corso della sua lunga vita, non si allontani mai più di cento chilometri dalla città natia, che crei un enorme corpus di lavoro - uno scrittore del XIX secolo, direte subito voi, e a ragione. È l’autore di innumerevoli romanzi, novelle, racconti, opere teatrali, saggi, poesie, recensioni, cronache politiche, ed è anche reporter, cronista, burocrate governativo, candidato a incarichi pubblici, fondatore e presidente dell’Accademia delle Lettere del suo paese; un ingegno prodigioso che ha superato difficoltà sociali e fisiche (mulatto in una terra dove la schiavitù era stata abolita quando lui aveva già cinquant’anni; e per giunta epilettico). Durante la sua più che prolifica carriera in patria, riuscì a scrivere un numero considerevole di romanzi e racconti che meriterebbero un posto permanente nella letteratura mondiale. I suoi capolavori sono poco conosciuti e appena menzionati al di fuori del suo paese, dove invece è venerato come il più grande scrittore.

Immaginate un simile scrittore. È esistito veramente, e i suoi libri, più che originali, continuano a essere riscoperti ad oltre ottant’anni dalla sua morte. Di norma il setaccio del tempo è equo: confuta gli autori di successo, recupera quelli dimenticati, promuove coloro che sono stati sottovalutati. È dopo la morte di un grande scrittore che si tirano le fila misteriose che stabiliscono la sua importanza e la sua immortalità. Forse è opportuno che questo autore, il quale nel periodo dopo la morte non ha avuto il riconoscimento che merita, abbia avuto egli stesso un senso così acuto, ironico e affettuoso del postumo.
Ciò che è vero di una reputazione è vero - o almeno lo dovrebbe essere - della vita. Poiché è soltanto una vita ormai già vissuta a rivelare la sua forma e i suoi potenziali significati, una biografia, per essere definitiva, deve attendere la morte del suo soggetto. Sfortunatamente, le autobiografie non possono essere compilate in queste circostanze ideali. In pratica, tutte le autobiografie romanzate più illustri hanno rispettato i limiti di quelle reali, mentre tentano di evocare qualcosa di simile a una conoscenza che è possibile solo dopo la morte. Le autobiografie romanzate tendono a essere, anche più spesso di quelle vere, imprese autunnali: un narratore anziano ( o almeno ben stagionato) si mette a scrivere la sua autobiografia quando si ritira dalla vita pubblica. Ma anche se la vecchiaia può portare l’autobiografia romanzata verso un punto di vista ideale, lei o lui si troveranno pur sempre a scrivere dalla parte sbagliata della frontiera, al di là della quale una vita, la storia di una vita, acquista un senso definitivo.

Conosco un solo esempio di autobiografia immaginaria, un genere affascinante che conferisce al progetto autobiografico una completezza ideale che, a conti fatti, è anche comica: il capolavoro dello scrittore brasiliano Machado de Assis Memorie dell’aldilà (1880). Nel primo paragrafo del Capitolo I, “Morte dell’autore”, il narratore Biagio Cubas annuncia allegramente, “Io non sono veramente un autore defunto, ma un defunto autore”. Questa è la battuta che fa da cornice alla composizione del romanzo ed essa si riferisce alla libertà dello scrittore. Il lettore è invitato a partecipare al gioco secondo cui il libro in questione è una prodezza letteraria senza precedenti: memorie postume scritte in prima persona.

Naturalmente, neppure un solo giorno, tantomeno una vita, può
essere narrato nella sua interezza. La vita non è un intreccio romanzesco. E una concezione molto diversa dello stile si applica a un resoconto costruito in prima persona oppure a uno in terza persona. Rallentare, accelerare, saltare interi periodi; commentare a lungo, non commentare, fare tutto ciò come io narrante conferisce un peso e un’atmosfera diversi rispetto a quando si raccontano le vicende di un’altra persona o al suo posto. Molto di quello che appare commovente o giustificabile o insopportabile in prima persona acquisterebbe il significato opposto in terza persona, e viceversa: un’osservazione facilmente confermata se si legge ad alta voce qualsiasi pagina di questo libro prima com’è, e poi mettendo “egli” al posto di “io” (per saggiare la spietata differenza all’interno dei codici che regolano la terza persona, provate poi a sostituire “lei” al posto di “lui”). Vi sono registri di emozioni come l’ansia, che possono essere captati soltanto da un io narrante. Questo vale anche per molti aspetti della resa narrativa: la digressione, per esempio, sembra naturale in un testo scritto in prima persona, ma dilettantesca se usata da una voce impersonale in terza persona. Pertanto, ogni genere di scrittura che presuppone una consapevolezza dei suoi stessi espedienti e dei suoi stessi metodi dovrebbe essere intesa in prima persona, a prescindere dal fatto che il pronome principale sia “io”.

Un tempo, scrivere di sé, raccontare la verità, cioè la propria storia privata, era ritenuto presuntuoso e andava giustificato, I Saggi di Montaigne, Le confessioni di Rousseau, Walden di Thoreau e molte delle altre autobiografie classiche, cariche di implicazioni spirituali, hanno un prologo dove l’autore si rivolge direttamente al lettore per sottolineare l’audacia dell’impresa, per evocare scrupoli o inibizioni (modestia, ansia), che hanno dovuto essere superati per ribadire una spontaneità o un candore esemplari, per asserire di fronte agli altri l’utilità di una scrittura così egocentrica. Alla stregua delle vere autobiografie, la maggior parte di quelle romanzate, qualunque stile e complessità esse abbiano, comincia con una spiegazione, di natura difensiva o provocatoria, sulla decisione di scrivere il libro che il lettore ha appena iniziato oppure comincia almeno con un tono di deprecazione che attribuisce l’egoismo a una sensibilità seducente. Non si tratta di un esordio di circostanza, di frasi gentili per dare al lettore il tempo di mettersi a suo agio. È il primo colpo sparato in una battaglia rivolta a sedurre il lettore, attraverso cui colui che scrive ammette implicitamente il fatto che vi sia qualcosa di sconveniente, di sfrontato nella volontà di scrivere profusamente di sé, nell’esporsi a un pubblico ignoto senza la giustificazione di una grande carriera o di un grave delitto, o senza alcun artificio di tipo documentario, come quello di fingere che il libro sia solo la compilazione di carteggi privati, come diari o lettere, le indiscrezioni in origine destinate a pochi intimi. Volendo offrirsi di getto in prima persona un gran numero di lettori (a un “pubblico”), chi racconta deve almeno chiedere con accortezza e gentilezza il permesso di iniziare. Il magnifico artifizio del volume di Machado de Assis, il fatto che si tratta delle memorie scritte da un defunto, dà un altro giro di vite con il proposito di regolare meglio i pensieri del lettore. In questo modo lo scrittore può dichiarare il suo distacco.

Comunque, scrivere dall’aldilà non ha impedito all’io narrante di mostrare una dose cospicua d’interesse per la ricezione della sua opera. La sua ansia simulata è incorporata nella forma stessa e nell’agilità caratteristica del libro. Essa si trova nel modo in cui il racconto è strutturato e montato, con ritmo irregolare: centosessanta capitoli, molti dei quali composti da appena due frasi, alcuni non più lunghi di due pagine; è insita nelle indicazioni giocose, di solito situate all’inizio o alla fine dei capitoli, che permettono l’uso migliore del testo. “Conviene intercalare questo capitolo tra la prima frase e la seconda del capitolo CXXIX”; “Ma questo capitolo non è serio”; “Non ci facciamo coinvolgere dalla psicologia” e così via. Essa si trova nell’attenzione ironica che scandisce gli espedienti e i metodi del libro, nel rifiuto insistente di coinvolgere le emozioni del lettore: “Amo i capitoli allegri”. Chiedere al lettore di condividere il vezzo del narratore per i suoi atteggiamenti frivoli è una tattica altrettanto seducente della promessa di fornirgli forti emozioni e nuove conoscenze. Le soavi smancerie dello scrittore sulla precisione dei suoi procedimenti narrativi fanno il verso al suo smisurato egocentrismo.
La digressione è l’espediente tecnico principale che controlla il flusso emotivo del libro. Il narratore, che ha la testa piena di letteratura, si mostra competente nelle descrizioni, secondo i canoni esaltati dal realismo, che registrano il modo in cui i sentimenti intensi perdurano, cambiano, si evolvono, si trasmettono. Inoltre, egli si mostra anche ovviamente lontano da tali preoccupazioni a causa delle proporzioni della narrazione: “taglia” l’autobiografia in brevi episodi, guarda dall’alto con ironia e didatticismo. Questa voce stranamente crudele, apertamente disincantata (d’altronde come dovrebbe essere la voce di un narratore defunto?), non riferisce mai un evento senza trarne un insegnamento. Il Capitolo CXXXIII inizia, “...e qui correggo io il principio di Helvetius - o, meglio, lo spiego”. Mentre chiede indulgenza al lettore, mentre si preoccupa della sua concentrazione (Ha capito il lettore? Si è divertito? Non si annoia?), lo scrittore si allontana continuamente dall’autobiografia per sostenere una teoria, per formulare la sua opinione su di essa come se questi espedienti fossero necessari per rendere il racconto più interessante. L’esistenza socialmente privilegiata, piena di sé, di Biagio Cubas è, come lo è spesso una vita del genere, monotona e grigia; gli avvenimenti principali sono quelli che non sono accaduti o che sono stati giudicati deludenti. L’abbondanza di opinioni argute smaschera la povertà emotiva della sua vita esibendo un narratore che si mostra schivo nel trarre conclusioni che sarebbero logiche. L’uso metodico delle digressioni genera anche gran parte della comicità del libro, a partire dalla stessa discrepanza tra la vita descritta, povera di avvenimenti, ma articolata con sottigliezza, e le teorie evocate, che sono straordinarie, audaci.

Naturalmente La vita e le opinioni di Tristram Shandy è il modello principale alla base dei procedimenti saporiti che danno consapevolezza al fruitore. La scelta di capitoli minuscoli e anche alcune delle trovate tipografiche, come nel Capitolo LV (“L’antico dialogo di Adamo ed Eva”) e nel Capitolo CXXXIX (“Come non diventai Ministro”) richiamano i ritmi narrativi bizzarri e le arguzie pittografiche di Tristran Shandy. Anche il fatto che Biagio Cubas cominci la sua storia dopo essere morto (come Tristran Shandy, che inizia splendidamente con la storia della sua consapevolezza prima di nascere, nel momento del concepimento), sembra un omaggio di Machado de Assis a Sterne. Non dovrebbe sorprenderci l’autorità che Tristran Shandy, pubblicato a puntate tra il 1759 e il 1767, esercitò su uno scrittore nato in Brasile nel XIX secolo. Mentre i romanzi di Sterne, così celebrati nel corso della sua vita e subito dopo la sua morte, venivano riconsiderati in Inghilterra stravaganti, talvolta indecenti, e in definitiva noiosi, essi continuarono a godere di grande ammirazione sul continente europeo. Nelle culture di lingua inglese, dove Sterne, in questo secolo, è di nuovo in auge, egli viene ancora reputato un genio super eccentrico, marginale (come Blake), famoso per essere “moderno” in modo incredibile e in anticipo sui tempi. Tuttavia, quando lo si esamina nella prospettiva della letteratura mondiale, può essere considerato lo scrittore di lingua inglese più influente dopo Shakespeare e Dickens. Che Nietzsche abbia affermato che il suo romanzo preferito fosse Tristran Sandy non è un giudizio originale quanto sembra. Sterne è stato una presenza assai forte nelle letterature slave, come si vede dalla centralità dell’esempio di Tristran Shandy nelle teorie di Šklovsky e di altri formalisti russi, a partire dal 1920 in poi. Forse il motivo per cui tanta letteratura autorevole in prosa viene pubblicata da decenni nell’Europa centrale e orientale come nell’America Latina, non dipende solo dal fatto che questi scrittori hanno sopportato tirannie mostruose e perciò è stata loro attribuita importanza, serietà, argomenti e grande ironia (come è stato constatato, non senza invidia, da molti scrittori dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti), ma anche perché queste sono le parti del mondo dove da più di un secolo l’autore di Tristran Shandy è il più ammirato.

Il romanzo di Machado de Assis appartiene a quella tradizione di buffonerie narrative - la loquace voce narrante in prima persona che tenta di ingraziarsi i lettori - che parte da Sterne e, nel nostro secolo, arriva a Io sono un gatto di Sõseki Natsume, ai racconti di Robert Walser, a La coscienza di Zeno e Senilità di Svevo, a Tristezza per la bellezza di Hrabal e a molte opere di Beckett. Incontriamo una volta dopo l’altra, in forme diverse, il narratore chiacchierone, tortuoso, ossessivamente speculativo ed eccentrico: solitario (per scelta o per vocazione); incline a ossessioni futili e a teorie fantasiose, a grandi sforzi di volontà con finalità comiche; spesso autodidatta; non proprio un impostore; anche se talvolta spinto dalla libidine e una volta almeno dall’amore, incapace di accoppiarsi; di solito anzianotto; in ogni circostanza un maschio. Non c’è donna che possa riscuotere neppure la simpatia di riflesso che questi narratori rabbiosamente egocentrici pretendono da noi, perché ci si aspetta che le donne siano più comprensive e accondiscendenti degli uomini; una donna con lo stesso grado di acume mentale e di distacco emotivo sarebbe vista solo come un mostro. Il malaticcio Biagio Cubas di Machado de Assis è di gran lunga meno esuberante di quel chiacchierone scavezzacollo di Tristram Shandy. Il personaggio di Sterne non si scosta di molto dal sarcasmo espresso dal narratore di Machado, con la sua amara superiorità verso la storia della sua vita, verso il malessere sull’intreccio caratteristico di molta narrativa recente in forma autobiografica. Ma la mancanza di trama può essere intrinseca al genere - il romanzo come monologo autobiografico; lo stesso vale per l’isolamento della voce narrante. In questo senso un antieroe poststerneiano come Biagio Cubas fa la parodia al protagonista delle grandi autobiografie spirituali, il quale è sempre, e non solo per caso, visceralmente celibe. È quasi una costante dell’ambizione che plasma la narrativa autobiografica: il narratore deve essere o deve essere rimodellato come un individuo solitario, certamente senza consorte, anche quando lei o lui esistono; al centro la vita deve essere spopolata. Così, recenti autobiografie spirituali di successo in veste di romanzo come Sleepless Nights (Notti insonni) di Elisabeth Hardwick e L’enigma dell’arrivo di V.S. Naipaul non menzionano la loro metà effettivamente esistente. Quindi, nello stesso modo in cui l’isolamento di Biagio Cubas è la parodia di una solitudine scelta o emblematica, così la sua liberazione attraverso la comprensione di sé è, nonostante la riflessione interiore e l’arguzia, una parodia di quel trionfo.

La seduzione di una narrativa del genere è complessa: il narratore dichiara di preoccuparsi del lettore: il lettore ci arriva? Intanto, il lettore si interroga sul narratore: il narratore comprende tutte le implicazioni di quanto viene raccontato? Uno sfoggio di agilità mentale e di capacità inventiva, finalizzato a dilettare il lettore e che riflette di proposito la mente fervida del narratore, misura invece l’isolamento e il senso di abbandono emotivo del narratore. Il romanzo di Machado è esplicitamente il libro di una vita. Tuttavia, nonostante il talento del narratore nel fornire un ritratto sociale e psicologico, esso rimane un viaggio all’interno di una mente. Un altro modello di Machado è stato un libro straordinario di Xavier de Maistre, un aristocratico francese esule che trascorse gran parte della sua lunga vita in Russia. De Maistre è l’inventore del microviaggio letterario con il suo Viaggio intorno alla mia camera, scritto nel 1794, quando egli era in prigione dopo un duello, in cui narra le sue visite in diagonale e a zigzag verso luoghi così diversi come la poltrona, lo scrittoio e il letto. Una reclusione, mentale o fisica, che non viene percepita come tale, può diventare una storia molto divertente oppure un racconto carico di pathos.
All’inizio del libro, in uno sfoggio di autocoscienza autoriale che si degna di includere il lettore, Machado de Assis fa elencare al suo autore il nome dei modelli letterari del XVIII secolo, che hanno influenzato la sua scrittura, con il seguente cupo avviso:
Si tratta, invero, di un’opera estesa, nella quale io, Biagio Cubas, pur adottando la forma libera di uno Sterne o di uno Xavier de Maistre, ho forse aggiunto un umore pessimistico. Può darsi. Opera di un morto: l’ho scritto con la penna della facezia e l’inchiostro della malinconia, e non è difficile prevedere il risultato di questo connubio.


Una vena di autentica misantropia scorre attraverso il libro, seppure modulata dalla fantasia bizzarra dello scrittore. Se Biagio Cubas non è soltanto l’ennesimo narratore celibe represso, sterile, inutilmente autoconsapevole che esiste esclusivamente per essere indagato dal lettore vigoroso, ciò deriva dalla sua rabbia che alla fine del libro trabocca: dolorosa, amara, sconvolgente.
La giocosità di Sterne è a cuor leggero. Egli stabilisce una forma di amicizia comica, sebbene carica di tensione, con il lettore. Nel XIX secolo la digressione, il chiacchiericcio, l’amore per il ragionamento cavilloso, il piroettare da una forma narrativa all’altra assumono tinte più cupe. Vengono a coincidere con l’ipocondria, con la disillusione erotica, con il malcontento dell’io (l’uomo del sottosuolo di Dostoevskij, patologicamente ciarliero), con un’acuta sofferenza mentale (il narratore isterico, sconvolto dall’ingiustizia, di Multatuli in Max Havelaar). Il parlottio ossessivo e ripetitivo soleva essere una risorsa della commedia (basti pensare ai brontoloni plebei di Shakespeare, come il guardiano in Macbeth; o anche fra le tante invenzioni di Dickens, a Pickwick). L’uso comico della loquacità non scompare. Joyce si servì della loquacità con spirito rabelaisiano, come veicolo di iperbole comica e Gertrud Stein, campionessa di scrittura prolissa, trasformò i tic dell’egoismo e della sentenziosità in una voce comica benevola di grande originalità. Ma la maggior parte dei narratori verbosi in prima persona nella letteratura ambiziosa di questo secolo sono stati dei grandi misantropi. La loquacità si identifica con la ripetitività lamentosa e dolente della senilità (i monologhi in prosa che Beckett definì i suoi romanzi) e con la paranoia e la collera implacabile (i romanzi e i drammi di Thomas Bernhard). Chi non percepisce la disperazione dietro le vivaci e garrule meditazioni di Robert Walser e le voci erudite, strambe e beffarde che appaiono nei racconti di Donald Barthelme ?

I narratori di Beckett di solito cercano di immaginare, senza riuscirvi, di essere morti. Biagio Cubas non ha un problema del genere. Ma d’altra parte Machado de Assis cercava di essere, ed è, divertente. Non vi è nulla di morboso nella consapevolezza del suo narratore postumo; al contrario, la prospettiva della consapevolezza spinta al massimo, che argutamente può rivendicare un narratore postumo, è una prospettiva comica. Biagio Cubas non scrive da un aldilà reale, non ha collocazione, si tratta solo di un altro espediente per ottenere un distacco autoriale. Le spiritosaggini neosterneiane di questi ricordi di un uomo deluso non derivano dall’esuberanza e neppure dall’eccitazione nervosa del linguaggio di Sterne. Esse sono una sorta di antidoto, una controspinta allo sconforto del narratore: un modo per dominare la depressione assai più specifico di “un medicamento sublime, un balsamo antipocondriaco, destinato a recar sollievo alla nostra malinconica umanità” che il narratore fantastica di aver inventato. La vita impartisce dure lezioni. Ma si può scrivere come si vuole: ecco una forma di libertà.

Machado de Assis aveva solo quarantun’anni quando pubblicò le reminiscenze di un uomo che era morto all’età di sessantaquattro anni, come si può apprendere all’inizio del libro. Egli nacque nel 1839; la sua creazione, Biagio Cubas, autore dell’autobiografia postuma, appartiene alla generazione precedente, nasce nel 1805. Il romanzo come esercizio di anticipazione della vecchiaia è un’impresa da cui gli scrittori di temperamento malinconico continuano a essere attratti. Non avevo ancora trent’anni quando scrissi il mio primo romanzo, Il Benefattore, che parla dei ricordi di un uomo sulla sessantina, che vive di rendita, appassionato del bello e artista, che annuncia all’inizio del volume di aver raggiunto il porto della serenità dove, esaurita ogni esperienza, può volgere lo sguardo indietro alla sua vita. I pochi riferimenti letterari consapevoli nella mia mente erano per lo più francesi, soprattutto Candide e le Meditazioni di Cartesio. Mi sembrava di scrivere una satira sull’ottimismo e su certe idee (da me) nutrite sulla vita interiore e su una interiorità alimentata dalla religione. Ciò che mi accadeva inconsapevolmente è, ripensandoci ora, un’altra storia. Dopo che ebbi la fortuna di vedere Il Benefattore accettato dal primo editore a cui lo avevo sottoposto - Farrar, Straus - ebbi l’ulteriore fortuna di essere affidata a Cecil Hamley che, nel 1952, nella sua precedente incarnazione in qualità di capo della Noonday Press (recentemente acquistata dal mio nuovo editore), aveva pubblicato la traduzione del romanzo di Machado (a cura di William L. Grossman), che segnò il lancio del volume in inglese. Durante il nostro primo incontro Hamley mi disse qualcosa di abbastanza plausibile, “Vedo che sei stata influenzata da Memorie dell’aldilà”. Memorie di cosa...? “Sai, il libro di Machado de Assis.” “Chi?” Mi prestò la sua copia e parecchi giorni dopo mi dichiarai influenzata con effetto retroattivo.

Anche se da allora ho letto parecchie opere di Machado in traduzione, questo libro - il primo dei suoi ultimi cinque romanzi (visse altri ventotto anni dopo averlo scritto), quello che di solito viene citato come la massima espressione del suo genio - rimane il mio preferito. Mi è stato detto che Memorie dell’aldilà è il romanzo prediletto dai non brasiliani, sebbene i critici di solito scelgano Don Casmurro (1899). Sono stupita che uno scrittore di siffatta grandezza non occupi ancora il posto che merita. Fino a un certo punto, il parziale oblio di Machado fuori dal Brasile non deve sorprendere più della sorte di un altro scrittore prolifico di genio, Šoseki Natsume. Senza dubbio, Machado sarebbe più noto se non fosse stato brasiliano e se non avesse trascorso tutta la vita a Rio de Janeiro. Se fosse stato, diciamo, italiano o russo o perfino portoghese. Ma la difficoltà non scaturisce soltanto dal fatto che Machado non fu uno scrittore europeo. Ancor più notevole della sua assenza dal panorama della letteratura mondiale è il fatto che egli sia stato molto poco conosciuto e letto nel resto dell’America Latina, come se fosse tuttora difficile da digerire che il maggior autore prodotto dall’America Latina abbia scritto in portoghese e non in spagnolo. Il Brasile è la nazione più estesa del continente (e nel XIX secolo, Rio è la città più grande), ma è sempre stato considerato il paese estraneo, giudicato dal resto dell’America del Sud che parla lo spagnolo, con una buona dose di condiscendenza e perfino di razzismo. Uno scrittore proveniente da uno di questi paesi molto probabilmente conosce ogni letteratura europea o ogni letteratura in lingua inglese più di quella brasiliana, mentre gli scrittori brasiliani non ignorano affatto la letteratura ispano-americana. Pare che Borges, il secondo più grande scrittore prodotto dall’America Latina, non abbia mai letto Machado de Assis. Invero, Machado è ancor meno conosciuto dai lettori di lingua spagnola che da quelli che lo hanno letto in inglese. Memorie dell’aldilà è stato tradotto in spagnolo solo negli anni Sessanta, circa ottant’anni dopo la sua pubblicazione e un decennio dopo la seconda traduzione in inglese.

Un grande libro trova la sua giusta collocazione a tempo debito, dopo un certo periodo dalla morte dell’autore. E forse alcune opere hanno bisogno di essere riscoperte più di una volta. Memorie dell’aldilà è probabilmente uno di quei libri originali ed eccitanti di un radicale scetticismo che lasceranno sempre un’impronta sui lettori con la forza di una scoperta privata. Non sembra davvero un complimento dire che questo romanzo, scritto più di un secolo fa, sembra - ebbene sì - moderno. Non tendiamo forse ad annoverare ogni opera che ci parla con originalità e lucidità tra la letteratura che noi consideriamo moderna? I nostri parametri di modernità sono un sistema di illusione gratificanti, che ci consentono di colonizzare il passato a nostro piacimento. La stessa cosa vale della nostra idea di ciò che è provinciale, che permette a certe parti del mondo di trattare con condiscendenza tutto il resto. In questo caso, il fatto che l’autore sia morto, rappresenta un punto di vista che non può essere accusato di provincialismo. Di sicuro Memorie dall’aldilà è uno dei libri più divertenti e non provinciali che mai sia stato scritto. E amare questo libro significa avere un rapporto meno provinciale con la letteratura.
(traduzione di Oriana Palusci)
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