IL DOMÍNIO DEL DISUMANO

Armando Gnisci



Sostengo una tesi estremamente semplice e feroce, come sono le tesi che abitano e lavorano dentro una poetica e non nel corpo ingessato di una teoria, che operano nel flusso di una prassi critica e di rivolta e non nel sarcofago di una filosofia accademica e libresca. Con l’aggettivo feroce intendo designare la qualità di una presa di posizione concettuale e operativa che può provocare eccessivamente la persona che ne viene percossa e che la obbliga, nel migliore dei casi, a pensarci su, nel peggiore - il più prevedibile - a reagire respingendola.
Adesso basta con le istruzioni per l’uso. Veniamo al punto: lo stato di mondo, l’epoca, in cui viviamo ha finalmente il suo nome, preciso ed inequivocabile, dopo che per decenni ci hanno fatto usare denominazioni approssimative, come “secondo dopoguerra”, “società post-industriale”, “società capitalistica avanzata”, o addirittura finte e cialtrone come “età post-moderna”. La nostra epoca viene giustamente chiamata: della mondializzazione e/o della globalizzazione. I giovani Marx ed Engels l’avevano annunciata nel Manifesto del Partito Comunista nel 1848.

Sostengo che l’attuale globalizzazione neoliberista che governa il pianeta dei viventi è la stabilizzazione e il compimento del plurisecolare movimento di colonizzazione militare, culturale, politica ed economica di tutti i siti del pianeta Gaia da parte delle nazioni imperiali dell’Europa occidentale, e poi anche della Russia e degli Stati Uniti d’America, con qualche partecipazione, anche se limitata, del Giappone. L’epoca della espansione mondiale della civiltà euro-cristiana è iniziata nel XVI secolo dopo Cristo (una etichetta cronografica apparentemente “naturale”, ma - anch’essa, per l’appunto - eurocentrica e colonialista). La colonizzazione dei mondi è proseguita fino al loro esaurimento con la “scoperta”, l’esplorazione e la conquista totale di quelli “Nuovi” (e cioè, non conosciuti dalle così dette civiltà “classiche”), così come ci è testimoniato in maniera esemplare da James Cook nei suoi diari. Ogni nazione europea colonialista si è, quindi, autoproclamata testa-metropoli di un impero, sotto il nome-vessillo comune della missione dell’ incivilimento universale: quello che Kipling chiamò “il fardello dell’uomo bianco”. La civiltà euro-cristiana si è autoinvestita della legittimità ad esercitare un domìnio planetario attraverso l’autoriconoscimento della propria superiore universalità. Superiorità alla quale era stata educata dalla filosofia greca e poi dalla teologia cristiana.
La conquista e la distruzione delle varie civiltà autoctone dei mondi da parte del colonialismo euroccidentale e poi nordamericano, lo sfruttamento e l’amministrazione diretta dei territori, delle popolazioni e delle ricchezze sono finite solo apparentemente - uso il plurale al femminile, perché si tratta di un gruppo formato da tre sostantivi femminili, nella lingua italiana, e di uno maschile - nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale del XX secolo dopo Cristo, con il grande movimento della de-colonizzazione politica, a volte, giustamente, cruenta. Lo smantellamento del sistema dell’occupazione coloniale dei territori e delle culture non vale, però, ancora per la Russia che continua a identificarsi in un domìnio eurasiatico “mostruoso” che va da SanPietroburgo sul Baltico alla punta dello Stretto di Bering di fronte all’Alaska. Ma nessuno sembra farci caso, anche dopo la caduta del così detto impero sovietico. I nomadi siberiani devono ancora trovare la via che li porti a concepire l’idea della liberazione de-coloniale, così come la loro sudditanza coatta sembra restare invisibile anche alle stesse avanguardie dei movimenti di contestazione libertaria mondiale.La globalizzazione sembra, quindi, portare al giusto compimento il processo di domìnio del disumano che l’Europa ha inventato ed imposto a tutte le “nazioni” (in senso vichiano) del mondo, scrivendone quella che potremmo chiamare la Storia alla maniera perversa. Oppure, come dice il poeta martinicano Aimé Césaire nel suo capitale Discours sur le colonialisme, un libriccino del 1955, la storia dell’incontro che l’Europa ha voluto che fosse sventurato e violento tra la propria civiltà e le altre. La globalizzazione è ciò che Colombo, Vasco da Gama, Cortés e tutti gli altri volevano fare da grandi, senza saperlo allora. Come ha scritto ne I dannati della terra Frantz Fanon, l’Europa “non la finisce di parlare dell’uomo, pur massacrandolo dovunque lo incontra, in tutti gli angoli delle sue stesse strade, in tutti gli angoli del mondo. Sono secoli che l’Europa ha arrestato la progressione degli altri uomini e li ha asserviti ai suoi disegni e alla sua gloria; secoli che in nome di una pretesa “avventura spirituale” soffoca la quasi totalità dell’umanità”.
Il processo di sopraffazione coloniale è ora cotto a puntino, raffinato, distillato, stabilizzato, preciso, pulito e totale: efferato - ecco anche perché ho usato il termine “feroce” per la mia poetica: ferus cum feris, ci hanno insegnato ad essere i nostri padri latini - esiziale, ingiusto, squilibrato, perverso, disumano e infernale.

Possiamo figurarci la forma stabilizzata del movimento coloniale compiutosi, almeno per ora, come globalizzazione neoliberista e mercantile con l’immagine della frazione. Sopra c’è il mondonord che rappresenta, come ci ha ricordato recentemente Riccardo Petrella su “Carta” dell’agosto scorso, il 12 per cento della popolazione mondiale: questo numeratore detiene, però, l’86 per cento della ricchezza planetaria e perpetra l’88 per cento dei consumi mondiali. Esso è formato proprio dalle nazioni coloniali-imperiali. Sotto la linea di frazione ci sono tutti gli altri, the Rest of the World: i mondisud, portatori della pluralità e della speranza, oltre che della sofferenza; sottoposti.
Questo è lo stato di mondo che la malattia colonialista occidentale ha generato: una stabile e sicura fortezza frazionante del domìnio e del benessere, propri; governati attraverso gli strumenti propri del potere della globalizzazione: il FMI, la Banca Mondiale, l’OCSE, l’OMC/WTO, i G7, e quando è il caso G8 con la Russia, la NATO.I pensatori della così detta sinistra occidentale, dopo essersi sollazzati nei decenni finali del XX secolo con trastulli accademici come il “pensierodebole”, il “post-modernismo”, il “decostruzionismo” e simili, oggi non hanno più nulla da dire. Al massimo, “rosicano” - o, all’opposto, inneggiano - perché il papa romano raduna 2 milioni di giovani per il ferragosto giubilare in una spianata sul raccordo anulare dell’Urbe, chiamata “campus”.
Contro la globalizzazione i filosofi e gli intellettuali cartacei dell’ultimo trentennio sono poco utilizzabili. Sono corpi scarichi, irrimediabilmente scordati, spesso venduti. A muoversi, invece, hanno le nuove compagnie di ventura del dissenso anticoloniale: pezzi della così detta società civile, le ONG, ATTAC, l’Azione Globale dei Popoli, Marcos e i maya dai quali dipende, i Sem Terra, Alex Zanotelli, la Rete di Lilliput, Porto Franco...
Questa opposizione mondiale e globale si è schierata dalla parte dei mondisud, anche quando viva e operi nel mondonord; così come c’è del mondonord marcio nei mondisud; così come ci sono pezzisud dentro le periferie e gli interstizi del mondonord. Con la stessa logica del contrasto.

La rivolta agisce seguendo due direttrici di attacco:1) dentro il mondonord, per decolonizzarne menti e territori possibilmente sempre più vasti; 2) contro il mondonord, perché risarcisca, interminabilmente, i popoli per cinque secoli di devastazione delle generazioni, delle culture, della memoria, della storia, delle ricchezze, della natura, del destino.
Queste due direttrici di attacco segnano e significano lo scontro e la rivolta contro l’attuale stabilizzazione del disumano che ci opprime senza scampo. Come definire altrimenti, infatti, un regime di domìnio globale che arriva a rendere e a dichiarare “debitori” popoli e persone che ha depredato e sfatto per secoli, attanagliati e schiavizzati per sempre, mentre ne è il vero debitore e assassino: recidivo, renitente, assurdo, impunito, e impunibile? Come definire una civiltà che non riesce ancora a riconoscere il proprio debito interminabile verso tutte le altre della stessa specie? Le parole di Fanon, nonostante siano riferite allo stato di mondo di quarant’anni fa, vanno ripetute in ogni scuola europea, più volte l’anno e tutti gli anni, tirandole fuori dalla polvere teorica dei libri degli specialisti di studi post-coloniali. Esse non sono ancora entrate efficacemente in nessuna filosofia europea. Si vede bene che il loro destino non era la filosofia, ma la poetica-politica di un nuovo umanesimo planetario:
“La ricchezza dei popoli imperialisti è anche la nostra ricchezza. Sul piano dell’universale, questa affermazione, com’è facile capire, non vuole assolutamente significare che noi ci sentiamo oggetto delle creazioni della tecnica e delle arti occidentali. Molto concretamente l’Europa si è gonfiata smisuratamente dell’oro e delle materie prime dei paesi coloniali: America latina, Cina, Africa. Da tutti questi continenti, di fronte ai quali l’Europa oggi erge la sua torre opulenta, partono da secoli in direzione di quella stessa Europa i diamanti e il petrolio, la seta e il cotone, i legnami e i prodotti esotici. L’Europa è letteralmente la creazione del Terzo Mondo. Le ricchezze che la soffocano sono quelle che sono state rubate ai popoli sottosviluppati. I porti dell’Olanda, Liverpool, i docks di Bordeaux e di Liverpool specializzati nella tratta dei negri, devono la loro fama ai milioni di schiavi deportati. E quando noi sentiamo un capo di Stato europeo dichiarare con la mano sul cuore che deve portar soccorso agli sventurati popoli sottosviluppati, noi non palpitiamo di riconoscenza. Anzi ci diciamo: <<è una giusta riparazione che ci verrà fatta>>. Perciò non accetteremo che l’aiuto ai paesi sottosviluppati sia un programma da <<suore di carità>>. Quest’aiuto dev’essere la consacrazione di una duplice presa di coscienza da parte dei colonizzati che ciò è loro dovuto e delle potenze capitalistiche che effettivamente esse devono pagare. “.

Contro l’insopportabile ragione europea della storia, ancora e solo una rivolta è quanto bisogna volere e fare per rispondere e pareggiare la globalizzazione neoliberista che viene da lontano, dal cuore di tenebra del terra del tramonto. Nulla di meno.
Una storia più antica e più lunga di quella dell’Occidente ce lo insegna, è quella che Sartre chiamava: la storia e la coscienza della nostra specie, dentro la Terra alla quale apparteniamo. La Gaia, più antica e più ricca di futuro di tutti gli dèi e di tutti i fantasmi.
Nessuno ha lottato fino ad ora per una posta così totale, valorosa e decisiva, e così arrischiata: il destino della coevoluzione armonica della specie e del pianeta al quale essa appartiene, insieme con la pluralità di tutte le altre specie. Se ci battessimo per qualcosa di meno, saremmo sotto la soglia di quanto ci è stato richiesto da tempo dai poeti.

Da Ungaretti ne “I fiumi”:
..............................
mi sono riconosciuto
una docile fibra
dell’universo
Il mio supplizio
è quando
non mi credo
in armonia

o da Calvino, quando nel dialogo finale tra Kublai Kan e Marco Polo de Le città invisibili fa dire ai due, come se fossero un vecchio intellettuale di sinistra sinceramente disperato ma altrettanto irrimediabilmente cinico di fronte al potere insormontabile della globalizzazione e un agente della nuova rivolta del futuro dei mondi:

Dice: - Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente.
E Polo: - L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”.
Fanon e Sartre ci hanno lasciati prima che il colonialismo apparisse nella sua veste perfetta della globalizzazione. E comunque, la loro opera di decolonizzazione culturale e politica non è stata proseguita e oltrepassata da nessuno in questi decenni. Bisogna riprendere i loro fili - di antillano-algerini-africano l’uno e di parigino-europeo l’altro - e tesserli alle condizioni di oggi: della doppia valenza del nome Seattle: Riunione dei poteri del mondonord
Opposizione delle compagnie dei mondisud.
Niente di meno ci tocca di volere e di fare.
Proprio ora che vogliono convincerci che non ci sono più valori, infatti, finalmente è apparsa anche a noi europei sul filo dell’orizzonte della storia la velatura del liberamente umano.
Sarò ancora una volta feroce nell’interrogarvi: la vedete, o no? e se la vedete, da che parte state?


Armando Gnisci insegna Letteratura comparata all'università  "La Sapienza" di Roma, e attualmente si dedica allo studio della narrativa di "ibridazione"  e dei rapporti tra l'Europa e le sue ex colonie.
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