NEL 1971 JORGE LUIS BORGES FU INVITATO A TENERE UN CICLO DI SEMINARI SULLA SCRITTURA, ALLA COLUMBIA UNIVERSITY, A NEW YORK. GLI INCONTRI FURONO DIVISI IN TRE SEZIONI; UNA SULLA NARRATIVA, UN'ALTRA SULLA POESIA E UNA TERZA SULLA TRADUZIONE. QUESTA, SULLA NARRATIVA, CHE ORA PRESENTIAMO IN ANTEPRIMA IN ITALIA PER LA RIVISTA SAGARANA, SI È SVOLTA A PARTIRE DALLA LETTURA PREVIA DEL SUO RACCONTO "LA FINE DEL DUELLO", CHE FA DA INTRODUZIONE.



LA FINE DEL DUELLO



Sono già passati molti anni da quando Carlos Reyles, figlio del romanziere uruguayano, mi raccontò in una sera d'estate in Adrogué una storia. Nella mia memoria, dopo tutti questi anni, la lunga cronaca di un odio implacabile e la sua fine brutale si sono ormai confuse col profumo medicinale degli Eucalipti e col chiacchiericcio di uccellini.
Ci sedemmo a parlare, come al solito, sulla caotica storia dei nostri paesi, Uruguay e Argentina. Reyles mi chiese se avessi già sentito raccontare di Juan Patricio Nolan, che si guadagnò la magnifica reputazione di temerario, giocatore d'azzardo e gran farabutto. Mentendo, ho risposto di sì. Nonostante che Nolan sia morto negli anni novanta dell'Ottocento, la gente ancora parlava di lui come di un amico. Ma come sempre accade, ebbe anche lui i suoi nemici. Reyles mi raccontò di uno dei tanti imbrogli di Nolan. La cosa accadde poco prima della battaglia di Manatiales: due gauchos di Cerro Largo: protagonisti Manuel Cardoso e Carmen Silveira.
Come mai cominciarono ad odiarsi? Perché, dopo un secolo, qualcuno ancora riesuma una storia dimenticata di due uomini la cui sola ragione per essere ricordati è il loro ultimo duello? Uno sgherro del padre di Reyles, chiamato Laderecha, e che "aveva le basette di una tigre" raccolse da quelle vecchie storie che si tramandano, qualche particolare che ora trascrivo con diffidenza, poiché tanto l'oblio quanto la memoria tendono ad essere inventivi.

Manuel Cardoso e Carmen Silveira possedevano qualche ettaro di terra confinante. Così come le radici di altre passioni, anche quelle dell'odio sono misteriose, ma si vociferava di un bisticcio per qualche bestia non marchiata o di una corsa a cavallo in pubblico nella quale Silveira, il più forte dei due, spinse il cavallo di Cardoso fuori pista. Mesi dopo, si svolse tra loro due, nel salone locale, una lunga partita di trenta punti barata. Ad ogni mano, Silveira faceva i complimenti al suo avversario per la bravura, ma alla fine lo ripulì per benino. Quando gli portò via il denaro nel suo cinturone di cuoio, Silveira ringraziò Cardoso per la lezione che gli aveva appena dato. Lì furono davvero, credo, sul punto di litigare. Il gioco aveva avuto i suoi alti e bassi. In quel sudicio posto quel giorno, non esitarono a minacciarsi anche coi loro coltelli.
Ma i clienti, che erano pochi, li separarono. Una variante curiosa della storia è quella che afferma che Manuel Cardoso e Carmen Silveira si sono incrociati sulle colline in più di un'occasione, al tramonto o all'alba, ma il fatto curioso è che non si affrontarono mai veramente fino all'ultimo giorno. Forse la loro esistenza povera e monotona non portava con sé nient'altro che quell'odio, ed è per questo che lo coltivarono così a lungo. Lentamente, senza sospettarne, si resero l'uno schiavo dell'altro.

Ora non saprei dire se gli eventi che sto per raccontare sono una causa o l'effetto. Cardoso, più per noia che per amore, prese con sé una ragazza del vicinato, La Serviliana. Questo bastò a Silveira: a modo suo cominciò a far la corte alla ragazza, e la portò nella sua capanna. Qualche mese dopo, ormai stufo di averla per casa, la cacciò. Per fargli dispetto, la donna cercò riparo a casa di Cardoso. Egli passò la notte con lei, ma la mattina seguente anche lui la cacciò via . Non voleva gli avanzi dell'altro.
È stato più o meno a quel tempo, un po' prima o un po' dopo La Serviliana, che accadde l'incidente del cane pastore di Silveira. Silveira andava molto fiero del suo animale, e lo aveva nominato Trenta y Tres, in omaggio ai trentatré padri fondatori dell'Uruguay. Quando il cane fu trovato morto dentro un fosso, Silveira non ebbe dubbi su chi potesse averlo avvelenato.
Ad un certo momento nell'inverno del 1870, scoppiò una guerra civile tra i Colorados, i Rossi, che erano al potere, e i Blancos di Aparicio, i Bianchi.
La rivoluzioni trovò Silveira e Cardoso nello stesso salone dove in passato giocarono a carte. Un mulatto brasiliano, comandante di un distaccamento delle milizie gauchos, fece una requisitoria ai presenti dicendo che il paese aveva bisogno di loro e che l'oppressione del governo si era fatta ormai intollerabile. Distribuì in giro contrassegni bianchi, per distinguerli come Blancos, e alla fine del discorso, che nessuno aveva capito, erano stati tutti arruolati. Non furono autorizzati nemmeno a congedarsi dalle loro famiglie.

Manuel Cardoso e Carmen Silveira si rassegnarono al loro destino, la vita di un soldato non poteva essere più dura di quella di un gaucho. Dormire all'aperto sulla pelle di montone che portavano sotto la sella era qualcosa che in passato avevano già fatto innumerevoli volte, e quanto ad ammazzare uomini, non avrebbero avuto alcuna difficoltà poiché avevano mani abituate ad ammazzare bestie. Il rumore metallico delle staffe e delle armi è qualcosa che accompagna sempre l'entrata in azione della cavalleria. Chiunque non venga colpito subito all'inizio si crede invulnerabile. La mancanza di fantasia liberava Cardoso e Silveira dalla paura e dalla compassione, nonostante a volte, quando si ritrovavano in prima linea, fossero sfiorati dal terrore. Non sentirono mai nostalgia di casa. Il patriottismo era loro estraneo, e, nonostante i contrassegni che portavano ai cappelli, un fronte per loro valeva l'altro. Durante l'addestramento, impararono cosa un uomo può fare con una lancia, e conclusero allora che l'essere divenuti compagni li aveva autorizzati a diventare nemici. Lottarono gomito a gomito e, per quanto so io, tutto questo senza scambiarsi nemmeno una parola.

È stato nel torrido autunno del 1871 che trovarono la fine. Il conflitto, che non sarebbe durato neanche un'ora, si svolse in un punto con un nome che non avrebbero mai saputo. (Questi posti vengono sempre battezzati dagli storici a posteriori). La sera prima della battaglia, Cardoso, entrò quatto* nella tenda del suo ufficiale per chiedergli umilmente se, nel caso i Bianchi avessero vinto l'indomani, poteva risparmiargli uno dei Rossi, perché fino ad allora non aveva ancora scannato nessuno, per sentire che cosa si prova. Il suo superiore garantì che se si fosse comportato da uomo, glielo avrebbe concesso.

I Bianchi erano più numerosi, ma i Rossi meglio equipaggiati e avrebbero assalito dalla cima di una collina. Dopo due cariche fallite che non raggiunsero la sommità, il comandante dei Bianchi, gravemente ferito, si arrese. Chiese allora, di potersi togliere la vita da solo col suo coltello.

Gli uomini deposero le armi. Il capitano Juan Patricio Nolan, che comandava i Rossi, preparò l'attesa esecuzione dei prigionieri nei minimi particolari.

Lui stesso veniva da Cerro Largo, e sapeva tutto sull'antica rivalità tra Silveira e Cardoso. Fece venire entrambi e disse: "So già che non potete sopportare la vista l'uno dell'altro, e che da tempo state cercando un'opportunità per farvi fuori. Belle notizie per voi. Prima del tramonto, avrete la possibilità di dimostrare chi di voi è il più bravo. Vi metterò in piedi e vi farò tagliare la gola, poi voi comincerete a correre. Solo Dio sa chi vincerà...". E il soldato che li aveva condotti li portò via.

Subito la notizia si sparse per il campo. Nolan era convinto che la storia della corsa avrebbe messo il punto finale alle disposizioni, ma i prigionieri chiesero tramite dei rappresentanti di poter assistere alla corsa per puntare sul risultato. Nolan, che era un uomo ragionevole, si lasciò convincere. Le scommesse si chiusero - denaro, cavezze, staffe, sciabole e cavalli. Al tempo debito i premi sarebbero stati consegnati alle vedove o ai loro parenti prossimi. Faceva un caldo insolito. Per non saltare la siesta, si rimandò il tutto alle quattro di pomeriggio. Nolan, in stile Sudamericano, si fece attendere ancora un'ora. Probabilmente discuteva la strategia militare con gli ufficiali. Gli aiutanti entravano e uscivano con i bollitori di mate.

Su entrambi i lati della strada di fronte alle tende si erano affollati i prigionieri, che, per semplificare le cose, si accovacciarono con le mani ancora legate dietro le spalle. Alcuni davano l'ultimo libero sfogo all’emozione in una fiumana di parolacce, un tipo ripeteva incessantemente il Padre Nostro, quasi tutti erano storditi. Ovviamente non potevano fumare.

A questo punto la corsa già non li interessava assolutamente, ma la guardarono tutti.
"Ma fra poco taglieranno anche la mia gola..." disse uno, invidioso.
"Sì, ma assieme alle altre...", disse il più vicino.
"Come la tua...", replicò il primo.

Con la sciabola un sergente marcò sulla polvere una linea che attraversava la strada. Slegarono i fianchi di Cardoso e di Silveira perché potessero correre più liberamente. Li separava uno spazio di neanche cinque iarde. Posarono il piede sulla linea di partenza. Un paio di ufficiali allora chiesero che non deludessero tutta quella povera gente che contava su di loro, e che aveva scommesso cifre da capogiro.
Silveira scelse come boia il mulatto Nolan, i cui avi senz'altro furono schiavi della famiglia del capitano, ed è per questo che portava il suo nome. Cardoso, invece delegò l'ufficiale Rosso ad aguzzino, un uomo di Corrientes già anziano, che per consolarlo gli dette una pacca sulla spalla dicendo "coraggio, figliolo, le donne sopportano cose ben peggiori quando partoriscono..."
Con le schiene ricurve, i due uomini ansiosi non si guardavano. Nolan dette il segnale.
Il mulatto, gonfio d’orgoglio per tante attenzioni, esagerò in quello che doveva fare aprendo un taglio profondo che correva da orecchio a orecchio; l'uomo di Corrientes invece fece una fessura sottile. Sottili spruzzi di sangue sgorgarono dalle gole degli uomini. Avanzarono solo pochi passi prima di cadere faccia in giù. Cardoso, cadendo, allungò le braccia in avanti.
Senza accorgersene forse, ma ha vinto lui.


INTERVISTA:


Norman Thomas Di Giovanni -Tutti voi avete in mano delle copie de “La fine del duello”, ma Borges non sente questa storia da quando è stata tradotta, più di un anno fa. Voglio cominciare quindi dalla lettura del testo per ravvivare la sua memoria, Borges mi fermerà qua e là quando vorrà fare qualche commento.
“La fine del duello”: Sono già passati molti anni da quando Carlos Reyles, figlio del romanziere uruguayano, mi raccontò in una sera d'estate in Adrogué una storia.

Borges - Sì, questo è proprio il racconto di quanto è davvero successo. A dir la verità, questa storia l’ho sentita raccontare anche da un’altra persona, ma siccome era comodo citare due nomi e portarsi dietro così entrambi i personaggi, ho lasciato perdere l’altro amico. Adrogué significa molto per me perché rappresenta la mia infanzia e la mia gioventù. È stato l’ultimo posto che mio padre ha visitato prima di morire, e anche per me conserva ricordi molto piacevoli. Un tempo era un grazioso paesino, a Sud di Buenos Aires, in seguito è stato rovinato dagli appartamenti, i garage e le televisioni. Quando era pieno di quintas, con ampi giardini, era senza dubbio il posto ideale per perdersi. Adrogué costituiva una sorta di labirinto, non c’erano strade parallele. Reyles era il figlio di un famoso romanziere uruguayano.

Di Giovanni - Nella mia memoria, dopo tutti questi anni, la lunga cronaca di un odio implacabile e la sua fine brutale si sono ormai confuse col profumo medicinale degli Eucalipti e col chiacchiericcio di uccellini.

Borges - Non credo valga la pena commentare questo. È piuttosto ovvio.

Di Giovanni - Ci sedemmo a parlare, come al solito, sulla caotica storia dei nostri paesi, Uruguay e Argentina.

Borges - Sì, perché la storia della Repubblica Orientale dell’Uruguay e la storia del nostro paese sono senza dubbio intrecciate. Mio nonno Borges difatti è nato a Montevidèo. Quando ha combattuto Rosas nella battaglia di Caseros, aveva forse quindici anni.

Di Giovanni - Reyles mi chiese se avessi già sentito raccontare di Juan Patricio Nolan...

Borges - A dir la verità, l’avevo già sentito... No, non è vero, l’ho creato io perché avevo bisogno di un terzo personaggio, e siccome gli altri nomi erano tutti brasiliani o spagnoli -non volendo che la vicenda eccedesse nei colori locali- l’ho chiamato come un Irlandese, Patricio Nolan. Patrick Nolan è abbastanza irlandese, suppongo.

Di Giovanni - Reyles mi chiese se avessi già sentito raccontare di Juan Patricio Nolan, che si guadagnò la magnifica reputazione di temerario, giocatore d'azzardo e gran farabutto.

Borges - Qui, in un certo senso, faccio il profetico, voglio far capire subito di che genere fossero i suoi scherzi. Inoltre la frase trasmette anche l’idea di un paese sinistro, dove una storia tragica come questa può essere considerata veramente solo uno scherzo.

Di Giovanni - Mentendo, ho risposto di sì. Nonostante che Nolan sia morto negli anni novanta dell'Ottocento, la gente ancora parlava di lui come di un amico. Ma come sempre accade, ebbe anche lui i suoi nemici. Reyles mi raccontò di uno dei tanti imbrogli di Nolan.

Borges - Lo chiama imbroglio per sorprendervi alla fine quando si scopre qual è questa sua trovata, perché si tratta di qualcosa di più di un imbroglio.

Di Giovanni - La cosa accadde poco prima della battaglia di Manatiales. 

Borges - La battaglia di Manatiales è quella rivolta che in Uruguay è chiamata “La Guerra d’Aparicio”.

Di Giovanni - ... due gauchos di Cerro Largo: protagonisti Manuel Cardoso e Carmen Silveira...

Borges - Carmen è un nome di donna, ma è molto comune per i gauchos avere nomi di donna se non finiscono con la a. Quindi un gaucho si può anche chiamare Carmen Silveira. Ma visto che entrambi sono dei bruti, ho pensato che era giusto che almeno uno di loro avesse un nome da uomo. È ovvio che i loro veri nomi siano andati perduti essendo stati solo due miseri gauchos.

Di Giovanni - ...protagonisti Manuel Cardoso e Carmen Silveira

Borges - Così abbiamo due nomi portoghesi, o meglio brasiliani. Questo genere di nome è molto comune in Uruguay, un po’ meno in Argentina. Volevo, allo stesso tempo, cercare di aggiungere colore locale e verosimiglianza.

Di Giovanni - A questo punto voglio farti una domanda. Questa storia è successa davvero? Carlos Reyles te l’ha raccontata veramente?

Borges - Sì, me ne parlò. Ma sono io che ho inventato le circostanze e i nomi dei personaggi. Lui parlava solo di “due gauchos” ma questo era troppo vago, allora ho scelto i nomi che mi sembravano più appropriati - Cardoso e Silveira.

Di Giovanni - E Nolan lo hai inventato per fare da catalizzatore?

Borges - Come puoi vedere, ci ho messo un po’ d’inventiva, ma la storia è vera, l’ho sentita addirittura due volte.

Di Giovanni - Come mai cominciarono ad odiarsi? Perché, dopo un secolo, qualcuno ancora riesuma una storia dimenticata di due uomini la cui sola ragione per essere ricordati è il loro ultimo duello?

Borges - Qui ricorro ad un vecchio trucco letterario - quello di far finta d’ignorare alcuni particolari per far sì che il lettore creda poi nei successivi. In questo caso, ad ogni modo, è vero. Effettivamente non sapevo del loro antagonismo.

Di Giovanni - Uno sgherro del padre di Reyles, chiamato Laderecha…

Borges - Quello sgherro è realmente vissuto. Reyles mi parlò di lui ed il nome mi rimase impresso perché era molto strano. “La derecha” significa “la mano destra”.

Di Giovanni - …e che "aveva le basette di una tigre"…

Borges - Anche questo me l’ha detto Reyles.

Di Giovanni - ...raccolse da quelle vecchie storie che si tramandano, qualche particolare che ora trascrivo con diffidenza, poiché tanto l'oblio quanto la memoria tendono ad essere inventivi.

Borges - Questo è attendibile, suppongo. Nel testo mi prendo la libertà di fare piccole osservazioni come questa, per evitare che venga fuori una storia troppo spoglia o arida.

Di Giovanni - Questo, quando traduciamo una storia, è ciò che chiamiamo un “marchio registrato”.

Borges - È vero, ripeto sempre le solite vecchie trovate.

Di Giovanni - La seconda frase di un altro racconto, “Pedro Salvadores”, dice: Intromettersi il meno possibile nella narrazione, e l’unica maniera per riuscirvi è, secondo me, evitare dettagli pittoreschi o congetture personali”.

Borges - Ma suppongo che ogni scrittore abbia i suoi trucchi, no?

Di Giovanni - Altri marchi registrati.

Borges - Sì, ciascuno ha il proprio marchio registrato, o quello di un altro, visto che ci scopiazziamo in continuazione.

Di Giovanni - Manuel Cardoso e Carmen Silveira possedevano qualche ettaro di terra confinante. Così come le radici di altre passioni, anche quelle dell'odio sono misteriose, ma si vociferava di un bisticcio per qualche bestia non marchiata o di una corsa a cavallo in pubblico nella quale Silveira, il più forte dei due, spinse il cavallo di Cardoso fuori pista.

Borges - Questo genere di cose accade tuttora, non ho inventato niente di straordinario. Per quello che so, racconto la verità. Per quanto riguarda l’odio tra quei due uomini dovevo considerare - dopotutto è questa la storia - il fatto che si tratta di due gauchos che si odiano in maniera solenne. I gauchos non sono di molte parole.

Di Giovanni - Mesi dopo, si svolse tra loro due, nel salone locale, una lunga partita di trenta punti barata.

Borges - Non credo che riuscirei ad insegnarvi il truco, visto che non ho qui con me delle carte spagnole. Inoltre, a dir la verità, sono un pessimo giocatore. Ma mi arrogherei il diritto di farlo, considerato che ho giocato già innumerevoli volte.

Di Giovanni - Ad ogni mano, Silveira faceva i complimenti al suo avversario per la bravura, ma alla fine lo ripulì per benino.

Borges - Una cosa del genere l’ho vista coi miei occhi a Buenos Aires tra un porteño - uno di Buenos Aires - Nicolás Paredes, e un altro venuto da una provincia dell’interno, vicino alle Ande, La Rioja. Paredes continuava a congratularsi con l’uomo, diceva che essendo porteño non conosceva quel gioco e che stava ricevendo una bella lezione. Alla fine però, gli portò via quasi cento pesos e divertito gli disse grazie. Ho voluto dare ai miei gauchos gli stessi tratti. Un giocatore che vince e prende in giro l’altro congratulandosi: “Grazie, amico, per la lezione che mi hai dato, ma ora scusami tanto, devo proprio accettare i tuoi cento pesos”.

Di Giovanni - Quando gli portò via il denaro nel suo cinturone di cuoio...

Borges - È dove i gauchos tengono i loro soldi - in un cinturone di cuoio.

Di Giovanni - Silveira ringraziò Cardoso per la lezione che gli aveva appena dato. Lì furono davvero, credo, sul punto di litigare. Il gioco aveva avuto i suoi alti e bassi. In quel sudicio posto quel giorno, non esitarono a minacciarsi anche coi loro coltelli.

Borges - Questo succedeva anche ai payadores. Due uomini stavano seduti a suonare la chitarra in una competizione, uno di loro andava via all’improvviso senza dire una parola. Subito anche l’altro si alzava per cercare l’avversario, lontano avrebbero sguainato i loro coltelli. Passavano da un duello all’altro, dalle chitarre alle lame, i loro strumenti.

Di Giovanni - Ma i clienti, che erano in pochi, li separarono. Una variante curiosa della storia è quella che dice che Manuel Cardoso e Carmen Silveira si sono incrociati sulle colline in più di un'occasione, al tramonto o all'alba.

Borges - Ho dovuto inventare questa scena perché altrimenti come potevo giustificare che i due fossero così bravi coi coltelli, se non li avevano mai usati prima? Allora ho escogitato una circostanza che fosse allo stesso tempo una spiegazione.

Di Giovanni - ...ma il fatto curioso è che non si affrontarono mai veramente fino all'ultimo giorno. Forse la loro esistenza povera e monotona non portava con sé nient'altro che quell'odio...

Borges - Questa è una mia invenzione.

Di Giovanni - ...ed è per questo che lo coltivarono così a lungo...

Borges - Sì, quando uno pensa a un gaucho o ad un cowboy pensa sempre ad una vita romantica, ma queste vite non sono tali per chi le vive. Per quanto ne so, le trascorrono come una giornata di lavoro o una d’indolenza.

Di Giovanni - Lentamente, senza sospettarne, si resero l'uno schiavo dell'altro.

Borges - Perché quando odi veramente qualcuno, pensi a lui tutto il tempo, e in questo senso diventi suo schiavo. La stessa cosa accade quando c’innamoriamo.

Di Giovanni - Ora non saprei dire se gli eventi che sto per raccontare sono una causa o l'effetto. Cardoso, più per noia che per amore, prese con sé una ragazza del vicinato, La Serviliana.

Borges - La Serviliana non è un nome comune, tranne tra i gauchos.

Di Giovanni - Questo bastò a Silveira, a modo suo cominciò a far la corte alla ragazza, e la portò nella sua capanna. Qualche mese dopo, ormai stufo di averla per casa, la cacciò.

Borges - Questo accadeva spesso.

Di Giovanni - Per fargli dispetto, la donna cercò riparo a casa di Cardoso. Egli passò la notte con lei, ma la mattina seguente anche lui la cacciò via.

Borges - Passò la notte con lei perché era un uomo, ma dopo non volle più saperne essendo stata l’amante del suo nemico.

Di Giovanni - Non voleva gli avanzi dell'altro.

Borges - Credo che questo non sia difficile da capire.

Di Giovanni - È stato più o meno a quel tempo, un po' prima o un po' dopo La Serviliana, che accadde l'incidente del cane pastore di Silveira.

Borges - Ho dovuto inventare la faccenda del cane e l’incidente, per far andare avanti la storia.

Di Giovanni - Silveira andava molto fiero del suo animale, e lo aveva nominato Trenta y Tres.

Borges - Trenta y tres era in onore dei trentatré eroi della storia dell’Uruguay, che tentarono di liberare il paese dal dominio brasiliano, e che vi riuscirono. Oltrepassarono il fiume Uruguay solamente in trentatré verso la loro terra madre, e ora l’Uruguay è un paese indipendente. Io conosco molti dei loro discendenti.

Di Giovanni - ...in omaggio ai trentatré padri fondatori dell'Uruguay. Quando il cane fu trovato morto dentro un fosso, Silveira non ebbe dubbi su chi potesse averlo avvelenato.
Ad un certo momento nell'inverno del 1870, scoppiò una guerra civile tra i Colorados, i Rossi, che erano al potere, e i Blancos di Aparicio, i Bianchi.

Borges - Questi sono i due partiti tradizionali dell’Uruguay. I Colorados rappresentano quelli che a Buenos Aires chiamiamo Unitari; e cioè quelli che difendono la civiltà. I Blancos non erano il partito dei gauchos - perché i gauchos non avevano niente a che vedere con la politica - ma della popolazione rurale. Blancos y Colorados. Quelli di voi che parlano spagnolo probabilmente conoscono queste due frasi: “Colorado como sangre de toro” - rosso come il sangue di un toro; e “Blanco como hueso de bagual” - bianco come le ossa di un cavallo. Sono ancora usate in Uruguay.

Di Giovanni - La rivoluzioni trovò Silveira e Cardoso nello stesso salone dove in passato giocarono a carte.

Borges - Una volta che avevo già un salone a mia disposizione, perché non usarlo?

Di Giovanni - Un mulatto brasiliano, comandante di un distaccamento delle milizie gauchos, fece una requisitoria ai presenti dicendo che il paese aveva bisogno di loro

Borges - Facci caso, il comandante non era veramente un “orientale”, un uruguayano; l’ho voluto brasiliano perché mi sembrava più giusto così. L’uomo non doveva essere un uruguayano, ma doveva spiegare agli uruguayani i loro doveri verso la patria e tutto il resto. Inoltre, realmente ci sono molti brasiliani in Uruguay.

Di Giovanni - ...dicendo che il paese aveva bisogno di loro e che l'oppressione del governo si era fatta ormai intollerabile.

Borges - È chiaro che loro non sapevano assolutamente niente dell’oppressione del governo nei confronti del paese. Tutte queste cose non li riguardavano minimamente; erano solo gente semplice, bifolchi...

Di Giovanni - Distribuì in giro contrassegni bianchi, per distinguerli come Blancos.

Borges - Non sapevano veramente niente di niente. Diventarono Blancos, ma potevano benissimo essere diventati Colorados. La storia, naturalmente, era fuori delle loro competenze - e così pure la politica. Se ne strafregavano in definitiva, di tutte queste cose.

Di Giovanni - ...e alla fine del discorso, che nessuno aveva capito, erano stati tutti arruolati. Non furono autorizzati nemmeno a congedarsi dalle loro famiglie.

Borges - Nel Martin Fierro, il nostro poema nazionale - come lo chiama la gente - Martin Fierro è autorizzato a congedarsi dalla moglie. Ora nella nostra storia, questo non accade perché altrimenti sarebbero potuti scappare. Per questo motivo il brasiliano li ha prima “impacchettati” perbene e subito dopo spediti alla guerra.

Di Giovanni - Manuel Cardoso e Carmen Silveira si rassegnarono al loro destino, la vita di un soldato non poteva essere più dura di quella di un gaucho. Dormire all'aperto sulla pelle di montone...

Borges - Sì, il recado, che era anche usato come guanciale e come coperta. I gauchos adoperavano un tipo complesso di sella: molti stracci o pelli di montone, uno sopra l’altro. Io, so cavalcare poco, e quel poco l’ho imparato proprio su un recado.

Di Giovanni - ...era qualcosa che in passato avevano già fatto innumerevoli volte, e quanto ad ammazzare uomini, non avrebbero avuto alcuna difficoltà poiché avevano mani abituate ad ammazzare bestie. Il rumore metallico delle staffe e delle armi è qualcosa che accompagna sempre l'entrata in azione della cavalleria.

Borges - Questo me lo ha insegnato mio nonno Acevedo. Era un civile, ma aveva partecipato a due o tre battaglie, e ormai sapeva tutto. Mi raccontava che all’inizio gli uomini hanno sempre paura. Dovreste conoscere queste righe di Kipling, da una poesia sulla guerra in Sudafrica: “Vide tutti quei tristi volti bianchi fare brutte smorfie / e allora sentì le sue viscere addolorate e i suoi intestini distendersi” e così via. Questo è il genere di cose che accade, e poi magari uno diventa un eroe.

Di Giovanni - Chiunque non venga colpito subito all'inizio si crede invulnerabile.

Borges - Questo me l’ha raccontato un esponente politico nella provincia argentina di Palermo. Diceva che se dopo i primi spari uno si accorge di non essere stato ferito o ucciso, allora pensa, “questo magari va avanti per sempre”...

Di Giovanni - La mancanza di fantasia liberava Cardoso e Silveira dalla paura e dalla compassione.

Borges - Qui dovrei citare un poeta inglese: “I codardi muoiono molte volte prima di morire / i valorosi una volta sola ”. I miei due gauchos però non hanno immaginazione, per questo non desideravano né temevano la battaglia.

Di Giovanni - ...nonostante a volte, quando si ritrovavano in prima linea, fossero sfiorati dal terrore.

Borges - Sì, perché la guerra si svolgeva unicamente tra soldati a cavallo. La fanteria non partecipava a queste guerre civili. Tutti lottavano dalle loro selle usando lance e arpioni.

Di Giovanni - Non sentirono mai nostalgia di casa. Il patriottismo era loro estraneo, e, nonostante i contrassegni che portavano ai cappelli, un fronte per loro valeva l'altro.

Borges - Naturalmente, la politica, a loro non interessava.

Di Giovanni - Durante l'addestramento, impararono cosa un uomo può fare con una lancia, e conclusero allora che l'essere divenuti compagni li aveva autorizzati a diventare nemici.

Borges -Così potevano conservare il loro odio privato.

Di Giovanni - Lottarono gomito a gomito e, per quanto so io, tutto questo senza scambiarsi nemmeno una parola.
È stato nel torrido autunno del 1871 che trovarono la fine.

Borges - Quanto al fatto che l’autunno fosse torrido, l’ho messo per farlo apparire reale. Mi domando se fosse davvero così. Generalmente lo è.

Di Giovanni - Il conflitto, che non sarebbe durato neanche un'ora, si svolse in un punto con un nome che non avrebbero mai saputo.

Borges - Questo accade sempre nelle battaglie. Degli uomini sono morti nella battaglia di Waterloo, ma nessuno aveva mai sentito parlare di quel posto prima.

Di Giovanni - Questi posti vengono sempre battezzati dagli storici a posteriori. La sera prima della battaglia, Cardoso, entrò quatto nella tenda del suo ufficiale per chiedergli umilmente se, nel caso i Bianchi avessero vinto l'indomani, poteva risparmiargli uno dei Rossi, perché fino ad allora non aveva ancora scannato nessuno, per sentire che cosa si prova.

Borges - Questo è successo molte volte per il fatto che a nessuno sconfitto veniva risparmiata la vita, ma, in ogni modo, nessuno lo avrebbe chiesto. Ai prigionieri veniva tagliata la gola subito dopo la battaglia, e, visto che era la pratica, non causava ormai nessuna sorpresa. Per quello che riguarda l’entrare quatto nella tenda del proprio ufficiale, so che accadeva. Era considerata una specie di ricompensa dopo una battaglia, avere il permesso di tagliare la gola a qualcuno.

Di Giovanni - Il suo superiore garantì che se si fosse comportato da uomo, glielo avrebbe concesso. I Bianchi erano più numerosi, ma i Rossi meglio equipaggiati e avrebbero assalito dalla cima di una collina.

Borges - Questo è accaduto quando mio nonno è stato ammazzato. I ribelli erano molto più numerosi, ma quelli del Governo - per la prima volta nella storia dell’Argentina - avevano carabine Remington, e sterminarono gli avversari. Accadde nel 1874, circa tre o quattro anni dopo quell’incidente.

Di Giovanni - Dopo due cariche fallite che non raggiunsero la sommità.

Borges - Dopo che considerarono che loro avevano le lance, mentre gli altri le carabine, si resero conto che non avrebbero potuto far niente, e furono annientati.

Di Giovanni - ...il comandante dei Bianchi, gravemente ferito, si arrese. Chiese allora, di potersi togliere la vita da solo col suo coltello.

Borges - Mi permetto di raccontare in proposito un aneddoto, non solo di gauchos, ma di gauchos e indiani. C’è stata una piccola battaglia sul confine ovest di Buenos Aires in cui gli indiani furono sconfitti. Sapevano che le loro gole sarebbero state tagliate, e il loro cacique, il capo, era gravemente ferito. Nonostante tutto, egli trovò il modo di avvicinarsi ai nemici - le forze del Governo - e disse in un cattivo spagnolo: “Ammazzate. Capitano Payén sa come morire bene”. Poi offrì la sua gola alla lama e fu debitamente ammazzato.

Di Giovanni - Gli uomini deposero le armi. Il capitano Juan Patricio Nolan, che comandava i Rossi, preparò l'attesa esecuzione dei prigionieri nei minimi particolari.
Lui stesso veniva da Cerro Largo, e sapeva tutto sull'antica rivalità tra Silveira e Cardoso.

Borges - È ovvio che dovevo farlo venire da Cerro Largo, altrimenti non poteva sapere che i due gauchos erano nemici.

Di Giovanni - Fece venire entrambi e disse: so già che non potete sopportare la vista l'uno dell'altro, e che da tempo state cercando un'opportunità per farvi fuori. Belle notizie per voi.

Borges - Belle notizie! E la pensava veramente così.

Di Giovanni - Prima del tramonto, avrete la possibilità di dimostrare chi di voi è il più bravo. Vi metterò in piedi e vi farò tagliare la gola...

Borges - Questo in spagnolo si sarebbe chiamato “degollar de parado”. Era fatto di rado, me ne parlò mio padre.

Di Giovanni - ...poi voi comincerete a correre. Solo Dio sa chi vincerà...". E il soldato che li aveva condotti li portò via.
Subito la notizia si sparse per il campo. Nolan era convinto che la storia della corsa avrebbe messo il punto finale alle disposizioni, ma i prigionieri chiesero tramite dei rappresentanti di poter assistere alla corsa per puntare sul risultato.

Borges - Tutti erano molto curiosi ed interessati alla corsa tra i due condannati.

Di Giovanni - Nolan, che era un uomo ragionevole, si lasciò convincere. Le scommesse si chiusero - denaro, cavezze, staffe, sciabole e cavalli. Al tempo debito i premi sarebbero stati consegnati alle vedove o ai loro parenti prossimi. Faceva un caldo insolito. Per non saltare la siesta, si rimandò il tutto alle quattro di pomeriggio.

Borges - Questi uomini, a cui avrebbero tagliato la gola, volevano dormire un po’ prima del gran sonno finale.

Di Giovanni - Nolan, in stile Sudamericano, si fece attendere ancora un'ora.

Borges - Questo si fa sempre - negli aeroporti come nei campi di battaglia.

Di Giovanni - Probabilmente discuteva la strategia militare con gli ufficiali. Gli aiutanti entravano e uscivano con i bollitori di mate.
Borges - Il mate è un tipo di caffè che si prende in una maniera molto divertente.

Di Giovanni - Su entrambi i lati della strada di fronte alle tende si erano affollati i prigionieri, che, per semplificare le cose, si accovacciarono con le mani ancora legate dietro le spalle.

Borges - I gauchos non si siedono quasi mai, tranne su teschi di bue. Si accovacciano direttamente per terra, lo trovano comodo.

Di Giovanni - Alcuni davano l'ultimo libero sfogo all’emozione in una fiumana di parolacce, un tipo ripeteva incessantemente il Padre Nostro, quasi tutti erano storditi. Ovviamente non potevano fumare.

Borges - Sì, perché le loro mani erano legate. Così era più pratico per il rituale taglio della gola.

Di Giovanni - A questo punto la corsa già non li interessava assolutamente, ma la guardarono tutti.
"Ma fra poco taglieranno anche la mia gola..." disse uno, invidioso.
"Sì, ma assieme alle altre...", disse il più vicino.
"Come la tua...", replicò il primo.

Borges - Questa è una storia abbastanza crudele.

Di Giovanni - Barzellette da patibolo.
Con la sciabola un sergente marcò sulla polvere una linea che attraversava la strada. Slegarono i fianchi di Cardoso e di Silveira perché potessero correre più liberamente.

Borges - Così non sarebbero stati intralciati.

Di Giovanni - Li separava uno spazio di neanche cinque iarde. Posarono il piede sulla linea di partenza. Un paio di ufficiali allora chiese che non deludessero tutta quella povera gente che contava su di loro, e che aveva scommesso cifre da capogiro.

Borges - Questo è successo davvero. Bene, questa è storia, ma per loro una storia un po’ triste.

Di Giovanni - Silveira scelse come boia il mulatto Nolan, i cui avi senz'altro furono schiavi della famiglia del capitano, ed è per questo che portava il suo nome.

Borges - Gli schiavi portavano i nomi dei loro proprietari. Mi ricordo di un vecchio nero che veniva spesso a casa nostra. Si chiamava Acevedo, che era il cognome di mia madre. La sua famiglia era stata schiava dei miei nonni, e manteneva in quel modo quella relazione.

Di Giovanni - Cardoso, invece delegò l'ufficiale Rosso ad aguzzino un uomo di Corrientes già anziano...

Borges - La gente di Corrientes e dell’Uruguay è considerata la più spietata. I gauchos di Buenos Aires raramente tagliavano le gole, ma gli altri avevano più sangue indiano e a quelli sembra che piaccia questo genere di cose - o per lo meno le fanno.

Di Giovanni - ...che per consolarlo gli dette una pacca sulla spalla dicendo "coraggio, figliolo, le donne sopportano cose ben peggiori quando partoriscono...

Borges - Questo l’ho sentito dire da mio padre, che a sua volta l’aveva sentito da un vecchio tagliatore di gole: “Animo, amigo; más sufren las mujeres cuando paren.”

Di Giovanni - Con le schiene ricurve, i due uomini ansiosi non si guardavano. Nolan dette il segnale.
Il mulatto, gonfio d’orgoglio per tante attenzioni, esagerò in quello che doveva fare aprendo un taglio profondo che correva da orecchio a orecchio...

Borges - Era la prima volta che lo faceva...

Di Giovanni - ...l'uomo di Corrientes invece fece una fessura sottile.

Borges - Naturalmente, sapeva che un taglio profondo non era necessario.

Di Giovanni - Sottili spruzzi di sangue sgorgarono dalle gole degli uomini. Avanzarono solo pochi passi prima di cadere faccia in giù. Cardoso, cadendo, allungò le braccia in avanti.
Senza accorgersene forse, ma ha vinto lui.

Borges - Questo è quello che accade sempre; non possiamo sapere se siamo stati dei vincitori o degli sconfitti. Ho paura di aver speso troppo tempo in dettagli di colore locale e cose del genere; mi domando se a qualcuno piacerebbe parlare di questo racconto in maniera più tecnica o letteraria. Temo di essermi divertito troppo a sentire questa storia e, anche se può sembrare strano, essermi dimenticato i miei obblighi di professore e conferenziere. Ma se non avete nessun’obbiezione alla storia, è ancora meglio.

Di Giovanni - Borges, quanto tempo hai conservato questa storia nella mente prima di trascriverla?

Borges - Credo d’averla portata con me per venticinque o trent’anni, forse. Quando la sentii per la prima volta, la trovai straordinaria. L’uomo che me la raccontò l’aveva pubblicata ne La Nación con il titolo Crepuscolo Rojo - “Crepuscolo Rosso” - ma dal momento che la scrisse in uno stile pieno di macchie rosse, sentivo che duramente avrei potuto competere con lui. Dopo la sua morte tentai di scriverla nel modo il più diretto possibile. Nel frattempo, l’ho portata dentro la memoria per anni, usandola per annoiare gli amici.

Di Giovanni - (dopo qualche secondo di silenzio) -Vedi, hai scritto un racconto perfetto a tal punto da non provocare nessun commento o domanda.

Borges - O forse, a questo punto, si sono tutti addormentati. (A Frank MacShane) Perché non dici qualcosa? Quali sono le tue principali obiezioni al racconto?

MacShane - La mia domanda su questa storia e sulle altre che si basano su fatti reali è, quanto vengano amplificati certi dettagli...

Borges - Vuoi dire che magari avrei dovuto fare questi due personaggi molto diversi tra loro, ma io non credo che i miei due gauchos sarebbero potuti essere molto differenti. Sono solo bifolchi. Non potevo farli più complessi perché avrei rovinato la storia. Loro devono essere più o meno la stessa persona.

Di Giovanni - Ma non credo che questo sia quello che Frank voleva dire.

Borges - Bhè, questa era la mia supposizione, il mio timore, la mia speranza.

MacShane - Ero interessato all’uso che fai dell’immaginazione in un argomento come
questo.

Borges - Un po’ d’immaginazione si deve usare. Per esempio, dovevo prendere in considerazione il fatto che i due uomini si detestavano a tal punto, e dovevo dar loro un nome. Sarebbe stata una seccatura andare avanti e indietro dicendo “uno”, “l’altro”, o chiamandoli “il primo” e “il secondo”. Ho reso la questione più pratica chiamandoli “Cardoso” e “Silveira”, due cognomi brasiliani comuni.

MacShane - Alla fine ciò che risulta non è un aneddoto, ma un racconto vero e proprio. C’è qualche differenza tra quello che ti hanno raccontato e quello che hai scritto?

Borges - Spero che ci sia una differenza. È molto difficile stabilire il confine tra racconto e storiella; io volevo far sembrare vero il mio testo. Questo è il dovere più elementare di uno scrittore. Credi che avrei dovuto scrivere: “Due gauchos si odiavano, e fu permesso loro di battersi in duello solo con le gole tagliate”? Questo sarebbe stato troppo corto e blando, oltre che inefficace.

Di Giovanni - Quello che interessa a Frank, Borges, è precisamente la quantità d’immaginazione che aggiungi e il numero di fatti che elimini. È questo che fa una storia. Qualsiasi persona qui può provare a scrivere una storia a partire dagli elementi che ci hai esposto…

Borges - E farla molto meglio di me.

Di Giovanni - Senz’altro, senz’altro.

Borges - E siete tutti invitati a farlo, considerato che i fatti sono realmente accaduti e quindi non mi appartengono.

Di Giovanni - Ma potresti parlarci di come avviene la selezione del materiale e la scelta di quello che t’interessa? Per esempio, ricordi dei fatti che erano dentro l’aneddoto e che non hai usato?

Borges - No, perché la storia fu raccontata in modo abbastanza sintetico, allora Reyles l’ha riscritta in uno stile raffinato pieno di macchie rosse - un genere di cose che cerco di evitare. Non riesco a scrivere in quel modo; io invece mi sono immerso dentro la storia usando ciò che si potrebbe chiamare invenzione circostanziale. Per esempio, ho voluto far giocare il truco, e inventare l’episodio del cane pastore, a cui ho dato il nome giusto - Treinta y tres - perché questo è il nome che un cane dovrebbe avere, anche se spesso è chiamato “Gelsomino”.

MacShane - Ti capita a volte, di prendere un episodio, mescolarlo con un altro, e costruire qualcosa di nuovo a partire da questa combinazione - una storia nuova a partire da due storie totalmente sconnesse?

Borges - Sì, in questa storia, per esempio. Assistetti al truco non in Uruguay, ma nel vecchio quartiere Nord di Buenos Aires.

Domanda - Mi domando se il Sig. Borges ci potrebbe spiegare cosa intende per “bifolchi”.

Borges - Pongo questa domanda a me stesso. Sono gente semplice, immagino, che non analizza i propri sentimenti. Che non pensa ad una battaglia prima che avvenga, perché per farlo ci vuole in ogni modo, un minimo di fantasia. Sono uomini che vivono nel presente senza guardare al futuro in cerca del destino, e credo che quest’idea sia suggerita alcune volte nel racconto. Furono condotti alla guerra, ma senza dubbio non sapevano cosa fosse; e se ne fregavano di saperlo. E quando dettero loro l’opportunità di fare un pisolino prima di essere scannati, ebbene andarono a dormire. Gli altri prigionieri furono molto curiosi del duello, vollero vederlo. Non gliene importava di aspettare questi cinque minuti, prima che le loro gole venissero tagliate. Qualcuno era impaurito, provò a dire il Padre Nostro, anche se non riuscì a finirlo perché non ricordava le parole.

Domanda - La selezione che si fa, deve rendere la narrativa meno improbabile della realtà.

Borges - Sì, perché come ha detto Boileau, “ La realité n’est pas toujour vraisemblable”. La realtà non è sempre verosimile. Ma quando scrivi una storia, devi renderla il più verosimile possibile, perché altrimenti l’immaginazione del lettore la rigetta.

Di Giovanni - So che questa è una tua gran preoccupazione, perché mi ripeti sempre, “Questo è come realmente i fatti sono accaduti, ma non posso usarli in questo modo perché suona falso”. So che cerchi sempre di attutire certe cose.

Borges - Credo che tutti gli scrittori lo debbano fare, perché quando racconti una storia in maniera improbabile, inevitabilmente ti precludi ogni via di salvezza.

Domanda - Una caratteristica che ho trovato in questa storia e in altre che lei ha scritto è che lascia sempre intuire che ci sono altri elementi, altre verità oltre a quella che racconta. Mi domando se c’è qualcosa che lei può stabilire in maniera definitiva, come vero ed esistente - oltre a se stesso?

Borges - Ma io non m’includerei... Penso che nell’elaborazione di una storia, si debba trasmettere sempre l’idea di non essere totalmente sicuri delle cose, perché nella realtà è così. Se prima affermi un fatto e poi dici di ignorarne alcuni elementi supplementari, allora sì che questo fatto diventa reale, perché l’incertezza dà alla totalità una consistenza maggiore.

Domanda - Credo che in uno dei suoi saggi lei abbia scritto che un racconto breve può essere centrato tanto sui personaggi quanto sulle situazioni. In questa storia, la caratterizzazione è minima...

Borges - Ho dovuto fare così perché i due personaggi sono più o meno la stessa persona. Sono due gauchos, ma potrebbero essere due centinaia o due migliaia. Non sono Hamlet né Raskolnikovs né Lord Jims. Sono solo gauchos.

Domanda - Allora quello che conta è la situazione?

Borges - In questo caso, sì. In generale per un racconto breve, ciò che reputo più importante è la trama o la situazione, mentre per un romanzo sono i personaggi. Puoi pensare, ad esempio, che Don Chisciotte sia stato scritto partendo dagli incidenti, ma ciò che è davvero importante sono i due personaggi. Don Chisciotte e Sancho Pancia. Nella saga di Sherlock Holmes è lo stesso, ciò che è importante è l’amicizia tra un uomo molto intelligente e un altro abbastanza stupido, Watson. Di conseguenza - se mi permetti un’affermazione piuttosto radicale - in un romanzo devi sapere tutto sui personaggi, e allora qualunque trama funzionerà, mentre in un racconto breve ciò che conta è la situazione. Questo è vero, ad esempio, per Henry James o per Chesterton.

Domanda - Trae una visione particolare della vita dalle storie che racconta?

Borges - Traggo la maggior parte delle mie storie da storielle che ascolto, anche se dopo le modifico e le distorco. Qualcuna, è chiaro, nasce da personaggi e persone che conosco. Nel racconto breve, penso che un aneddoto, una barzelletta, possa servire come punto di partenza.

Domanda - Crede che i cambiamenti che fa siano inerenti alla storiella?

Borges - Mah, questa è una domanda difficile. Non saprei dire se sono inerenti alla storiella o no, ma so che ne ho bisogno. Se raccontassi una storia in maniera veloce e secca, essa non sarebbe efficace. Devo farla diventare efficace rallentandone il ritmo. Non potevo iniziare dicendo: “Due gauchos si odiano”, perché nessuno ci avrebbe creduto. Ho dovuto far sembrare l’odio reale.

Domanda - Quando ha scritto “La fine del duello”?

Borges - Credo un anno fa. No. Sì. (a Giovanni) Tu lo sai molto meglio di me, perché hai presente le date mentre io non ne so nulla.

Di Giovanni - Circa quattordici mesi fa.

Borges - Bravo. Lo prendo per buono.

Domanda - Vorrei sapere che cosa c’è nell’episodio dei due gauchos che lo ha
affascinato e ossessionato per trent’anni.

Borges - È un’altra domanda molto difficile. Non lo so - è come chiedermi perché mi piace il caffè, il tè, o l’acqua.

Domanda - È l’umorismo della situazione?

Borges - No, non l’umorismo. Per me è una storia macabra, e l’ho scritta con umorismo per renderla ancora più macabra. Invento persone che raccontano la storia in modo
divertente per farla più amara e spietata.

Di Giovanni - Ma è la storia di per se, che deve essere la risposta a quello che uno ha
colto nell’aneddoto, no?

Borges -Dovrebbe, ma forse io ho fallito e in tal caso ci vorrebbe una spiegazione o un postscriptum. E tu, trovi questa storia troppo banale o superficiale?
Domanda - No, la trovo sconvolgente.

Borges - Ebbene, doveva essere proprio sconvolgente o quello che di solito chiamiamo “concreta”, e per farla sconvolgente ho lasciato l’orrore alla fantasia del lettore. Non potrei mai dire, “guarda che cosa orrenda è accaduta”, o “questo racconto è molto sinistro” perché così farei la figura dello scemo. Questo tipo di considerazione dev’essere lasciata ai lettori, non detta dagli scrittori. Altrimenti, crolla tutto.

Di Giovanni - Questa storia è molto più sconvolgente per noi che per Borges o per un altro argentino.

Borges - No! Non sono così crudele.

Di Giovanni - Lo so, ma quello che volevo dire è che questo è in pratica una vostra tradizione. Scannare è qualcosa con cui gli argentini hanno una certa dimestichezza.

Domanda - Non è la brutalità, bensì il fatto che i due uomini abbiano vissuto la loro vita solo per morire.

Di Giovanni - Ma, in che modo sono diversi da noialtri a questo proposito?

Borges - C’era una cosa che forse doveva essere aggiunta e che invece io non ho inserito perché mi sembrava implicita. I due uomini erano grati per l’opportunità che la morte offriva loro - la grande chance della loro vita - di verificare, dopo tanti anni di odio, chi dei due fosse il migliore. Era questo il duello.

Domanda - Ma è stato questo ciò che ti ha attirato?

Borges - Forse

Domanda - Era questo che volevo sentirti dire.

Borges - In questo caso mi stai svelando qualcosa di vero qua a New York, e non a Buenos Aires, dove ho scritto la storia. Quello che mi ha attirato era che quei due uomini non si consideravano vittime. Gli è stata concessa l’opportunità della loro vita.

Di Giovanni - C’è un’altra cosa che non è venuta fuori ancora fino a adesso. Borges ha scritto questa storia subito dopo aver scritto un’altra chiamata “Il duello”, che era una storia completamente diversa.

Borges - Una storia molto tranquilla alla Henry James.

Di Giovanni - Essendo diametralmente opposta fu chiamata in origine “L’altro duello”, o “Un altro duello”. Non abbiamo potuto usare questi titoli in Inglese quando abbiamo pubblicato la storia separatamente nella rivista The New Yorker perché questo avrebbe avuto senso solo se pubblicata insieme a “Il duello”.

Borges - Quell’altra storia è su due dame della società che sono amiche intime e rivali. Dopo quella storia alla Jane Austin, abbiamo questo macabro realismo della Banda Oriental dell’Uruguay.

Di Giovanni - Le dame sono due pittrici, che dipingono una contro l’altra.
Domanda - Mi sembra che ci sia un considerevole elemento in comune tra “La fine del duello” e “Il Sud”. Entrambi sembrano avere la stessa amarezza e assurdità. Potrebbe commentare questo?

Borges - Difficilmente concorderei, perché “Il Sud” è una storia ottimista. Quando penso a mio nonno, morto in combattimento, al mio bisnonno che ha dovuto lottare contro i propri parenti nelle rivolte del dittatore Rosas, quando penso a gente della mia famiglia scannata o fucilata, mi accorgo di vivere una vita molto mite. Ma forse no, perché dopotutto loro possono aver vissuto quelle cose senza sentirle, mentre io vivo che una vita reclusa le sento fortemente, e questo è un altro modo di viverle - forse un modo più profondo ancora, per quando ne sappia. In ogni caso, non posso lamentarmi di essere uno scrittore. Ci sono destini peggiori. Ma in “Il Sud” la vera trama è... Mah... In verità, ci sono diverse trame. Una potrà essere quella dell’uomo che è morto sul tavolo operatorio, e tutta la storia era un sogno, nel quale si sforzava di avere la morte che desiderava. Voglio dire, voleva morire con un coltello in mano nella pampa; lottando come i suoi antenati avevano fatto prima di lui. Ma in “La fine del duello” non credo che quest’elemento positivo sia presente. Infatti, non vorrei essere uno di quei due gauchos. Io credo che avrei cercato di scappare da quella situazione - non avrei disputato la corsa, sarei piuttosto caduto con la faccia a terra.

Domanda - Ti ho sentito dire che non eri molto interessato alla questione del tempo nella storia, ma in un certo modo i due disputano il loro duello da morti, quando si trovano ormai fuori dal tempo.

Borges - È una bella osservazione. Mi dimostra che non riesco a liberarmi dalla mia ossessione per il Tempo.

Domanda - Cosa pensi dell’idea che la narrativa dev’essere impegnata nelle questioni
politiche e sociali del proprio tempo?

Borges - Penso che sia sempre impegnata. Non bisogna preoccuparsene. Essere contemporaneo, significa per forza scrivere secondo lo stile e i costumi del proprio tempo. Se scrivo una storia - anche se racconta di un uomo sulla luna - sarà sempre una storia argentina, perché io sono argentino; e ripiegherebbe nella civiltà occidentale perché io appartengo a quella civiltà. Non credo che dobbiamo esserne coscienti tutto il tempo. Prendi un romanzo come Salambô, di Flaubert. L’ha chiamato romanzo cartaginese, ma chiunque vede che quello è un romanzo del realismo francese dell’Ottocento. Non credo che un vero cartaginese l’avrebbe apprezzato; secondo me lo troverebbe uno scherzo di cattivo gusto. Non penso che ti debba sforzare troppo d’essere leale verso il tuo secolo e le tue opinioni, perché lo sarai in ogni modo. Tu hai una certa voce, una certa faccia, un certo modo di scrivere, e non potresti liberartene anche se volessi. Allora perché preoccuparsi d’essere moderno o contemporaneo, visto che non puoi essere nient’altro che questo?
MacShane - Credo che chi ha fatto la domanda aveva in mente anche gli eventi politici e sociali. Credi che si debbano trattare questi argomenti nella narrativa?

Borges - In questa storia, non c’era niente di simile.

Di Giovanni - Ma c’è.

Borges - Forse, ma non era questo che mi preoccupava. Ero impegnato piuttosto con due uomini che disputavano una corsa con la gola tagliata davanti a persone che lo consideravano un gioco, un divertimento. È chiaro che questa storia è legata alla storia dell’Argentina e a quella dell’Uruguay e dei suoi gauchos. È legata a tutta la storia dell’America latina, le guerre di liberazione, e così via. Ma non m’interessava. Cercavo solo di raccontare la mia storia in modo coinvolgente. Ero interessato solo a questo, anche se poi tu la potrai vincolare a qualunque cosa.

Di Giovanni - E nonostante i tuoi obiettivi, essa mantiene una forte considerazione sulla politica di quel tempo e in quel luogo. Dovrebbe soddisfare tutti allora.

Borges - O forse è sulla politica di qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo, non so. È ovvio che questo tipo di politica diventa un po’ pittoresco...

Domanda - Come credi che dovrebbe essere il rapporto tra l’artista e suo tempo?

Borges - Oscar Wilde diceva che la modernità di stile e d’argomento dovrebbe essere evitata a tutti i costi dall’artista moderno. Chiaro che era solo una battuta intelligente, ma quello che ha detto si basa su una verità piuttosto palese. Omero, ad esempio, ha scritto molti secoli dopo la guerra di Troia. L’idea che lo scrittore dev’essere contemporaneo è essa stessa un’idea moderna, ma devo dire che essa appartiene più al giornalismo che alla letteratura. Nessuno scrittore vero ha mai provato ad essere contemporaneo.

Domanda - Lei fa diverse citazioni nei suoi scritti, tratte da testi in lingue di tutto il mondo. La mia domanda è, e spero che non sia poco delicata, se queste citazioni sono vere o inventate.

Borges - Alcune di loro, purtroppo, sono vere. Ma non tutte. Nella presente storia, però, ho fatto il possibile per essere diretto, ho imparato questo trucco dal Plain Tales from the Hill di Kipling, la sua prima opera. Non voglio però dar mostra d’erudizione, o di falsa erudizione. Tento solo di scrivere storie semplici e dirette...

Domanda - C’è un racconto su un’enciclopedia...

Borges - Credo che tu ti stia riferendo “Tlön, Uqbar, Orbis Tertius”, nel quale tutto il mondo è stato cambiato da un’Enciclopedia. L’ho scritto quando ero molto giovane. Non ci riproverei oggi - dopotutto, anch’io voglio cambiare. Voglio scrivere in modo da diventare un altro scrittore, scrivere in maniera diversa, inaspettata.

Domanda - In una delle sue storie ha detto che noi possiamo benissimo essere soltanto dei personaggi dentro il sogno di qualcun altro.

Borges - E’ vero. Il racconto si chiama “Le rovine circolari” e a mio parere può essere reale. Tu mi stai sognando. No, mi sbaglio. Io sto sognando te.

Domanda - Come funziona quest’idea dei sogni?

Borges - È un’idea molto antica, un’idea degli Idealisti, di Berkeley e di Hindus, e anche del Re Rosso di Lewis Carroll, credo.

Domanda - Come mai ha potuto sognare Pierre Menard, l’autore del Chisciotte?

Borges - Avevo subito un’operazione e non sapevo se avrei potuto continuare a scrivere. Allora mi sono detto, se provo a scrivere un piccolo saggio e fallisco, allora saprò che per me non ci sono più speranze. Se provo con una poesia, questo non riuscirà a spiegarmi niente, perché il risultato resta una concessione delle muse o dello Spirito Santo. Allora ho provato qualcosa di nuovo - una storia un po’ impostora - e quando riuscii, mi resi conto che potevo tornare alla letteratura e che potevo anche essere, non direi un uomo felice, perché nessuno è felice, ma almeno uno con una vita giustificabile. Molta gente a Buenos Aires, e due uomini di lettere di mia conoscenza, hanno preso la cosa sul serio. Uno di loro mi disse: “Certo, conosco bene Pierre Menard, credo che fosse veramente fuori testa”. E io risposi: “Sì, lo credo anch’io, ma era un tipo interessante di pazzia, no?”. È stata una delle prime storie che ho scritto, dico sempre che è stata la mia prima storia, ma in verità è stata la seconda o la terza.

Domanda - Come fa a sapere se un aneddoto le sarà utile?

Borges - Quando sento un aneddoto che ritengo interessante, lo racconto ai miei amici. Allora, in qualche modo, sento il bisogno di scriverlo. Questo però accade molti anni dopo. Tu mi racconti un aneddoto oggi, ed esso non sarà pubblicato che fra quattro o cinque anni, perché si tratta di un processo lento. Penso che magari altri scrittori sentono un aneddoto e la storia nasce di colpo, ma nel mio caso devo sedermi e aspettare, e quando arriva il momento, essere molto ricettivo e provare a non mitigarla o stravolgerla.

Domanda - Mi piacerebbe domandarle del racconto “L’uomo all’angolo”.

Borges - Questa è stata veramente la prima storia che ho scritto. La detesto.

Domanda - Dicono che è stata influenzata dai film gangster di Josef von Sternberg.

Borges - Sì, è vero, e anche dai racconti di Chesterton. Ho buttato giù quella storia
come un esperimento letterario. Volevo scriverne una nella quale tutto fosse visivo. Così la storia non è stata scritta assolutamente in modo realistico. La vedo come una sorta di balletto. Più tardi, riscrissi il racconto come doveva essere e gli detti un altro nome “La storia di Rosendo”. Quando ho scritto “L’uomo all’angolo”, sapevo benissimo che era irreale, ma siccome ero in lotta con la realtà, questo non m’importava. Volevo solo scrivere una storia molto intensa e visiva. È venuta fuori con uno stile da operetta, e mi scuso con voi per questo.

Domanda - Nei film di Sternberg c’è un equilibrio tra il visivo e il realistico. Quanto di questo è stato preso in considerazione?

Borges - Pensavo a Josef von Sternberg e a Chesterton tutto il tempo. Sono più grato a Sternberg perché ha raggiunto i suoi scopi con molta efficacia, ma quando si fa un film tutto deve essere per forza visivo, nel mio caso credo che certi effetti non erano di fatto necessari. Puoi raccontare una storia senza per forza essere vivido. In verità, penso che quando lo sei esageratamente, crei irrealtà, perché vedere le cose in questo modo confonde. Sapevo che la mia storia era irreale, ma non ho mai pensato che la gente l’avrebbe presa alla lettera. Nell’introduzione del libro in cui è contenuta, la “Storia universale dell’infamia”, ho addirittura menzionato Stevenson, Chesterton e questi ammirevoli film di Sternberg.

Domanda - È senz’altro una bellissima storia.

Borges - Mi arrischio a discordare da te. È la cosa più brutta che io abbia mai scritto.

Di Giovanni - Tutti a Buenos Aires amano questa storia...

Borges - Perché è sentimentale, perché concede al lettore l’illusione che in passato siamo stati bravi, coraggiosi e romantici.

Domanda - Ma è diventata un racconto importante nella Letteratura Latino-americana. Penso che proponga un approccio originale.

Di Giovanni - Il fatto è che Borges non ha più scritto niente di simile dopo quella storia. Ha scritto cose più belle. “L’uomo all’angolo” è del 1933.

Borges - È chiaro che molti credono che io sia decaduto dopo quel racconto.

Di Giovanni - Il tuo nuovo libro, “Il manoscritto di Brodie”, torna agli stessi argomenti, ma in un modo completamente diverso.

Borges - Sì, in maniera diretta.

Di Giovanni - I personaggi di quella storia sono in piedi su un palcoscenico e urlano agli spettatori. In questo senso aiuta essere italiano come me per apprezzarlo, perché è così operistico.

Domanda - In tante delle sue storie sembra interessato alla questione del tempo.

Borges - Il tempo mostrato dall’orologio è un tempo convenzionale, non è vero? Ma il tempo reale, quando stai lavando i denti, per esempio, è fin troppo reale. O molto diverso, diciamo, dal tempo della paura, quando la sabbia del tempo scivola via. Sì, è vero, sono sempre stato ossessionato dal tempo.

Domanda - Ci sono state delle domande sullo scrittore e la sua responsabilità riguardo al tempo in cui vive, e anche domande sui sogni e sulla realtà. C’è una riga in “Pedro Salvadores” che credo spieghi bene il suo punto di vista.

Borges - Se mi rammenti la riga te ne sarò grato.

Domanda - Dice: “...non aveva nessun pensiero in particolare, nemmeno sul suo odio o sul pericolo. Semplicemente era lì - nella cantina.”

Borges - Ho concepito Pedro Salvadores come un uomo semplice. Non so se t’interessa sapere che ho incontrato suo nipote solo due mesi fa. Lui ha lo stesso nome di Salvadores, e mi ha corretto dicendo che suo nonno aveva passato dodici anni dentro la cantina, e non nove come avevo scritto, e che era stato militare. L’ultimo fatto che ha raccontato non mi aiuterebbe, perché non mi aspettavo che un soldato si nascondesse dentro una cantina per dodici anni, mentre un civile forse lo avrebbe potuto fare. Inoltre, Salvadores non sapeva che avrebbe dovuto aspettare così a lungo. Forse pensava che ogni notte sarebbe stata l’ultima.

Di Giovanni - Non so se questo risponde alla domanda. O no?

Borges - Forse no. Ma ho dimenticato totalmente l’inizio della domanda.

Domanda - Nel suo racconto “L’Aleph” lei ha un personaggio chiamato Borges. Siccome mi sembra chiaro che quello che succede a lui è una finzione e non la realtà, come mai lo ha chiamato con il suo stesso nome?

Borges -Mah, perché pensavo “tutti questi fatti stanno accadendo a me”. Inoltre, io sono stato lasciato da Beatriz Viterbo - uno pseudonimo, ovviamente - e così ho usato il mio nome.

Di Giovanni - Cosa che hai fatto in diverse occasioni.

Borges - Sì, lo faccio spesso; è chiaro che non faccio di me stesso una figura ridicola. È un vecchio trucco letterario - il tipo di cosa che Boswell ha fatto quando ha scritto la vita di Johnson. Si mise nella storia come un personaggio ridicolo, ma non lo era. Boswell era un uomo molto intelligente.
Ora credo di aver sentito la domanda - o forse la sento così spesso che sto immaginando che la sto sentendo in questo preciso momento - sull’impegno dello scrittore per il suo tempo. Penso che il dovere di uno scrittore sia quello di essere uno scrittore, e se riesce ad essere un buon scrittore ha compiuto il suo dovere. Inoltre, ritengo che le mie opinioni personali siano superficiali, per esempio, sono conservatore, odio i Comunisti, odio i Nazisti, odio gli antisemiti, e così via; ma non permetto che queste opinioni compaiano nei miei scritti eccetto quando ero molto esaltato con la Guerra dei Sei Giorni. In generale, cerco di conservarle in compartimenti totalmente stagni. Tutti sanno le mie opinioni, ma per quello che riguarda i miei sogni e le mie storie, questi dovrebbero essere totalmente liberi, penso. Non voglio intromettermi dentro di loro; scrivo racconti, non favole.
Forse dovrei essere più chiaro. Sono un antagonista della littérature engagée perché credo che questa difenda l’idea che uno scrittore non possa scrivere quello che vuole. Per illustrarlo, devo dire - se posso essere un po’ autobiografico - che non scelgo io i miei argomenti, sono loro che scelgono me. Faccio del mio meglio per oppormi a loro, ma continuano ad occuparmi la mente, a tormentarmi, e allora alla fine devo sedermi e scriverli e poi pubblicarli per potermi liberare di loro.
Uno non deve dimenticarsi che c’è sempre una differenza tra quello che uno scrittore dice e quello che fa veramente. Penso ad un écrivain engagée, Rudyard Kipling, che ha cercato di ricordare ai suoi distratti compatrioti britannici che essi avevano in un modo o in un altro costruito un Impero, è chiaro che era preso quasi per uno straniero per il fatto di dire quelle cose. Alla fine scrisse un libro chiamato (e qua abbiamo il tipico understatement britannico) Something of Myself - non tutto, ma soltanto una frazione di se stesso - e alla conclusione dice che secondo lui uno scrittore dovrebbe poter scrivere contro la sua posizione morale. Cita com’esempio il grande scrittore irlandese Swift, che era indignato contro il genere umano, ma che allo stesso tempo, nella prima parte di “I viaggi di Gulliver”, ha scritto brani deliziosi per bambini.

Domanda - Vorrebbe commentare la sua opposizione al regime di Perón?

Borges - Sì, perché no? La mia opposizione era pubblica, ma non l’ho messa dentro i racconti. Tenevo conferenze a quel tempo; ero il presidente dell’associazione argentina degli scrittori, e ad ogni conferenza, criticavo Perón. Tutti sapevano che ero contro di lui, e la prova di questo è che subito dopo che siamo riusciti a fare la nostra Revolución Libertadora, sono stato nominato il Direttore della Biblioteca Nazionale. Avevano bisogno di un non-peronista, e mi conoscevano. Mia madre, mia sorella e mio nipote sono stati tutti in prigione, io sono stato ferito da un poliziotto che, ironicamente, era anche lui anti-Perón ma doveva fare il suo lavoro. Ma non ho mai inserito queste cose nei miei racconti o nelle poesie. Le ho mantenute separate da tutto questo, e così credo di essere stato sia un bravo argentino sia d’aver fatto del mio meglio come scrittore, non mettendo insieme tutte e due le cose.

Domanda - E cosa dice su quella sua storia sul tenente nazista?

Borges - Deutsches Requiem. Ciò che è successo in quella storia è un’altra cosa. Io, è ovvio, facevo il tifo per gli Alleati - gli Americani. Quando i Tedeschi sono stati sconfitti provai una grande gioia e un grande sollievo, ma allo stesso tempo pensavo alla sconfitta tedesca come ad un evento tragico, perché erano il popolo più educato d’Europa, e avevano una bella letteratura, una raffinata tradizione filosofica e poetica. E nonostante ciò tutta quella gente è stata imbrogliata da un pazzo chiamato Adolf Hitler, e penso che questo sia molto tragico. Allora ho cercato di immaginare cos’era un vero nazista - e cioè, qualcuno che pensa che la violenza sia proprio una cosa lodevole. Allora ho pensato che a quest’archetipo di nazista non gliene importa veramente di essere sconfitto; dopotutto vittoria o sconfitta è soltanto questione di fortuna. Sarebbe stato ancora fiero di tutto quello, anche dopo che gli Americani e gli Inglesi vinsero la guerra. Naturalmente, quando sono insieme a nazisti, quelli non corrispondono per niente all’idea che ho di loro, ma questa non è una posizione politica. Significa solo che immaginavo qualcosa di tragico nel destino di un vero nazista. Dubito che veri nazisti siano mai esistiti. Almeno, in tutte le volte che sono andato in Germania, non ho mai incontrato uno. Tutti si compiangevano e volevano che anch’io lo facessi. Erano sentimentali, davvero sdolcinati.

Domanda - Ho saputo che una volta ha organizzato una collana di gialli. Potrebbe raccontarci qualcosa?

Borges - Credo che le scelte che feci in quell’occasione furono piuttosto ovvie. Iniziai con lo “onlie begetter”, di Edgar Allan Poe, poi ho trovato altre storie - per esempio, “Il mistero del grande inchino” di Israel Zangwill, un bel racconto di Jack London, e poi cose indispensabili di Chesterton, Eden Phillpotts, Ellery Queen, e così via. Personalmente ritengo che sia stato Poe ad inventare questo genere letterario. Il genere giallo nasce con lui, nonostante Wilkie Collins ci ha messo mano in maniera molto diversa. Scrisse lunghi gialli in cui i personaggi sono più importanti della trama - tranne in The Moonstone, in cui il soggetto era straordinario.

Domanda - E Conan Doyle?

Borges - Sì, ricordo che ho tradotto una delle sue storie migliori, “The Redheaded League”. Questo lavoro alla collana è stato realizzato insieme ad un altro grande scrittore argentino, Adolfo Bioy-Casares. Abbiamo selezionato il materiale con molta attenzione, e lasciato fuori appositamente Dorothy Sayers perché non ci piaceva la sua opera.

MacShane - Puoi dirci qualcosa sulla tua collaborazione con Bioy-Casares e quanto questa collaborazione sia risultata differente dal tuo lavoro individuale.

Borges - È stata diversa perché quando lavoriamo insieme, come avrebbero detto i Greci, compare una terza persona. In altre parole, non ci consideriamo più due amici o due scrittori; cerchiamo solo di portare avanti la storia. Quando qualcuno mi domanda: “Quella frase è nata dal tuo lato del tavolo o dall’altro?” sinceramente non riesco a rispondere. Non so dire chi di noi due abbia inventato la trama. Questo è l’unico modo per realizzare un lavoro del genere. Ma perché dobbiamo parlare di Bioy-Casares se ho accanto a me Norman Thomas di Giovanni? Noi due lavoriamo con lo stesso spirito. Quando tentiamo di fare una traduzione, o una ri-creazione, delle mie poesie o della mia prosa in Inglese, non pensiamo a noi due come due uomini. Pensiamo che siamo una sola mente al lavoro. Credo che sia quello che Platone ha fatto nei suoi dialoghi. Quando creava molti personaggi era perché voleva vedere molti angoli dello stesso problema. Forse l’unico modo di arrivare ad una vera collaborazione è questo - due o tre uomini pensando a se stessi come ad uno solo, accantonando le questioni personali e consacrandosi interamente all’opera e alla sua perfezione.

Domanda - Alla fine del suo saggio “Una nuova negazione del tempo”, lei si domanda se sarebbe stato in grado di concepire un nuovo sistema etico. Qual è la risposta?

Borges - Negativa. D’altronde, questo titolo è un’ironia. Se il tempo non esiste, non puoi neppure negarlo. Ma quando l’ho chiamato “Una nuova negazione del tempo”, stavo giocando uno scherzo a me stesso. Io credo nell’argomento logicamente, e penso che se ne accettiamo le premesse, l’argomentazione sta in piedi - benché allo stesso tempo, ahimè, anche il tempo regge. E questo in maniera più evidente e attendibile che qualsiasi mio ragionamento, o addirittura di Hume, Berkeley o Schopenhauer.

Domanda - Mi piacerebbe capire perché ha abbandonato il mondo della Fantasia e quello dell’Enciclopedia per avvicinarsi al mondo della realtà.

Borges - L’ho fatto perché oggi a Buenos Aires c’è più di una penna che scrive al posto mio racconti alla Borges. Su labirinti, specchi, tigri e così via, e lo fanno molto meglio di quanto potrei fare io. Sono giovani, mentre io sono vecchio e stanco. Inoltre, voglio sperimentare altre cose; questo mio ultimo libro, “Il manoscritto di Brodie”, che può sembrare scialbo a molti lettori, per me è una nuova avventura, un esperimento.

Domanda - Ha parlato in maniera molto informale sulla differenza tra racconto e romanzo. E’ già stato tentato dall’idea di scrivere un romanzo?

Borges - No, perché molto raramente sono tentato da quella di leggerne uno. Amo i racconti, e sono realmente troppo pigro per scrivere un romanzo. Mi stanco sempre subito dopo aver scritto dieci o quindici pagine. Ma, a dir la verità, recentemente ho scritto un lungo racconto chiamato “Il Congresso” - forse uno dei miei migliori racconti. Almeno, la penso così, visto che è una delle storie che ho scritto per ultima, e si ha il bisogno di credere in questo per continuare a scrivere.

Domanda - Penso a storie come questa, che parlano di duelli, come a forme stilizzate d’incontro tra due persone, e questo implica che siano contemporanee. Però nel suo “Una nuova negazione del tempo” dimostra che non esistono momenti contemporanei. Non vedo come queste idee si possano conciliare.

Borges - Neanch’io. Sono perfettamente d’accordo con te.
Domanda - E se non possono mai essere contemporanei, significa che sono immortali.
Borges - In questo caso, tu devi scrivere questa storia, perché questa è un’invenzione tua, non mia. Credo che ne verrebbe fuori una storia molto diversa e interessante.

Domanda - Credo che sia stato proprio lei a dire che gli scrittori quando diventano famosi lo è sempre per la ragione sbagliata. Crede che questo sia vero anche per lei ?

Borges - Ne sono sicuro. Credo che la gente di questo paese mi giudichi con affetto perché in loro l’affetto nasce facilmente, ma allo stesso tempo perché mi vedono come uno straniero, e gli stranieri non sono dei rivali. Mi credono anche totalmente cieco, e la cecità muove a simpatia. Questi elementi - essere straniero, vecchio, e cieco - sono una combinazione ben riuscita.

Di Giovanni - È chiaro che la tua notorietà non è legata sempre alla conoscenza dei tuoi racconti.

Borges - La gente mi ammira a scapito delle mie storie, direi.

Domanda - Quando scrive una storia come “Pierre Menard”, prende in giro gli altri, o lei stesso? 

Borges - Credo di fare uno scherzo impersonale. Non sto prendendo in giro nessuno. Lo faccio per il divertimento in sé.

Di Giovanni - Credo che il nostro tempo sia esaurito.

Borges - Ma è ovvio, visto che il Tempo è irreale...
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