A PORTE CHIUSE

Anna Vezzoni

                                                                      I

Il telefono squilla mentre la chiave gira nella serratura. Elsa entra, lascia cadere la borsa sulla poltrona, sfila i guanti correndo.
"Pronto? Sì, lo so che è tardi."
Si scioglie i capelli,, comincia a passarli con le dita, la faccia si è abbuiata.
"Non ho potuto chiamarti, possibile che non lo capisci, è sempre la stessa storia…lo so che hai dolori alle gambe…sì, e non hai digerito neanche oggi. Andiamo da uno specialista! No, eh?, l'esame non lo vuoi fare, allora?…"
Elsa è seduta sul divanetto, slaccia le scarpe, fa sì con la testa. Intanto il gatto le si avvicina, a piccoli passi, miagolando piano, finché inizia a carezzarlo.
"Non posso venire adesso, mamma, ti rendi conto…no, non posso venire neanche domani…sì, sono impegnata anche il pomeriggio…come, 'dove?'? Ora ti devo dire dove vado, quando…va bene, lasciamo perdere, sì, ci sentiamo domani, sì, il cellulare lo tengo acceso, ma non chiamare se non è un'urgenza. Ciao. Ciao."
Elsa riattacca, sbuffando, dà uno sguardo alla sveglia appesa alla parete, sorride perché le piace proprio, sì, le piace proprio, la forma quadrata, la cornice in stile vagamente neoclassico…sì, un buon acquisto.

Prima che Marco chiami c'è ancora tempo, posso farmi un bagno. Il gatto, seduto, la guarda ronfando. Elsa si spoglia e intanto sistema sulle grucce i vestiti da stirare, nel cesto quelli da lavare. Il bianco l'ho fatto ieri, i colorati sono ancora pochi per la lavatrice, questo però lo lavo a mano, all'altro reggiseno si è rovinato il pizzo in lavatrice. La vasca da bagno fuma, odore di fiori, lo specchio appannato, musica in sottofondo: Bach, Goldbergvariationen. Respiro profondo, sciogliere, sciogliere, tutto il giorno di corsa, tutti chiedono qualcosa, tutti vogliono qualcosa, qui sono sola, finalmente respiro profondo, ah Bach, equilibrio, matematica fatta suono, la musica delle sfere celesti doveva essere Bach, anche a te piace, ti vedo da come socchiudi gli occhi, Filippo.
Elsa indossa una vestaglia cinese sul corpo forte, si guarda il viso spalmando la crema, ravvia i capelli, che scendono lisci sulle spalle.

"E ora Filippo, a cena!"
Il gatto è un certosino dai grandi occhi che si chiudono e si aprono lenti mentre aspetta il piattino con il suo cibo e accarezza le gambe di Elsa con la coda.
"Mangerò…mangerò una omelette"
e si muove nella cucina piccola, ordinata, prendendo dalla mensola il barattolo del sale, il terzo, in ordine decrescente, dopo i biscotti e il caffè. E' piacevole toccare la superficie liscia, che trasmette un leggero senso di freddo, forse perché è così bianca, a parte il fregio…
Mangia con Filippo sulle ginocchia, ascoltando il telegiornale, quando squilla il telefono…
"Già le otto!"
Racconta a Marco della sua giornata: il traffico in città, il freddo, la mattina a scuola, cinque ore, una supplenza in una classe, una classe tremenda, non sono mica ragazzi quelli lì, ho pranzato con Luisa, sì, l'hai conosciuta, poi la riunione, ora sto proprio bene, e tu? Anche Marco racconta della sua giornata e lei guarda la sua foto nella cornice di legno e argento, sfiorandone con le dita le incisioni. La voce di Marco la rasserena, si passa le dita tra i capelli, lentamente.
"Anch'io ti voglio bene. Vieni sabato? Sì, domani tocca a me chiamare, alle otto! Ciao Marco, buonanotte."

Il televisore è acceso, a volume bassissimo, sullo schermo scorrono le immagini di "Ufficiale gentiluomo" ed Elsa rannicchiata sul divano finisce di correggere i compiti della terza. Sul tavolinetto lì a fianco fuma una tazza dai disegni cinesi, il tè verde ondeggia ancora dopo l'ultima sorsata. Intorno alla tazza i piccoli gatti di porcellana, di marmo, di legno, acquistati durante i suoi viaggi: questo acciambellato in Spagna, questo dagli occhi verdi a Stoccolma, e questo, questo di bronzo a Firenze, con Marco. Per fortuna Filippo ha imparato che non li deve toccare, e Filippo cammina lì in mezzo, sfiorando quei piccoli gatti perfetti senza farli cadere, i suoi passi mostrano i polpastrelli morbidi di un gatto d'appartamento. Come sei bravo, Filippo, mi perdoni se ti lascio tanto da solo? E domani dovrà anche andare al centro, per la lezione di italiano. Insegnare a queste donne non è facile. Vengono da vite diverse, vivono vite diverse. Ma capire l'italiano, parlare l'italiano è un primo passo per liberarsi dallo sfruttamento, dalla violenza, dall'ingiustizia. C'è così tanta ingiustizia, nel mondo, ognuno di noi deve fare la sua parte, deve essere responsabile. La lezione di domani è sul futuro. Possono avere un futuro, se le aiutiamo. Mentre pensa così, sfogliando la dispensa per preparare la lezione, squilla di nuovo il telefono. Elsa allunga la mano, il gatto che dorme ai suoi piedi mugola:
"Ciao, Luisa… Sì, penso di sì, un quarto d'ora prima va bene. Ma di che si tratta? Ochei, me lo dici domani, ciao…"
Rimane pensierosa: perché Luisa vuole vederla un quarto d'ora prima? Ci sarà qualche problema al centro? Non ha sentito dire niente, l'associazione lavora da anni in città, i volontari non hanno sollevato problemi. E' curiosa, ma Luisa non ha voluto anticiparle niente.

Elsa guarda l'orologio, decide che è ora di dormire, ma prima deve ancora fare una cosa. Davanti alla finestra del salotto le sue piante hanno bisogno d'acqua. Il piccolo innaffiatoio in metallo sembra fatto apposta per non gocciolare sul tappeto e lei può dare poche gocce d'acqua anche alle piante grasse. Ora sì, può dormire.
Il suo letto ha una trapunta a fiori dai colori tenui, gli stessi delle tende e del tappeto. Sul cassettone piccole cornici d'argento con piccole foto di lei nelle diverse età: da bambina con i collettini bianchi e le codine, da ragazzina con le magliette attillate ed i capelli corti, da ragazza con i tacchi ed il caschetto, e da ventenne e da trentenne; l'ultima foto è dello scorso anno, con il tubino nero ed i capelli sciolti. Il sorriso è sempre lo stesso: io sono una bambina, una ragazza, una donna serena, soddisfatta, contenta della mia vita. La luce è già spenta. Elsa è rannicchiata sotto la trapunta a fiori, sta per dormire, il gatto cammina leggero sul letto, fino all'incavo delle sue ginocchia.
Silenzio. Le luci le ho spente, la porta l'ho chiusa, la sveglia l'ho caricata…Chissà cosa è successo al centro…

II

Le sei meno un quarto. Elsa entra nel corridoio e cammina tra due ali di foglietti colorati appesi alle bacheche: informazioni, numeri di telefono, richieste di aiuto, un fiorire confuso di voci variopinte e diverse. In fondo al corridoio, seduto a quella che era una cattedra, Roberto la guarda avanzare: capelli raccolti, perle sul vestito blu, cartella, tacco basso.
"Signorina Elsa, Luisa mi ha chiesto di dirle che sarà libera tra un momento."
"Grazie, Roberto. Tutto bene?"
Lui annuisce: come fa a raccontarle dell'affitto che aumenta, del latte in polvere che costa troppo, dell'auto da revisionare, e poi e poi…
Dietro la porta a vetri Elsa vede le sagome che si muovono, sente voci: quella calda, morbida di Luisa, parole rassicuranti, devi andare in questo ufficio, qui, vedi?, chiedere il certificato, no, non ti possono mandare via, stai tranquilla – e i suoni gutturali di due ragazze, agitate, spaventate…Le sagome si avvicinano alla porta, mentre Elsa controlla l'orologio; la porta si apre, due ragazze del corso di italiano stringono le mani di Luisa:
"Grazie che aiuti noi", vedono Elsa, abbassano gli occhi:
"Buonasera, signorina"
"Buonasera, vi raggiungo tra poco" e intanto Luisa le fa cenno di entrare
"Ti ho fatto aspettare, mi dispiace, siediti, vengono sempre a raccontarmi i loro problemi, come si fa a non ascoltarle…"
"Volevi parlarmi…?"
"Sì, non so proprio a chi rivolgermi, una situazione imprevista, complicata…"
"Dimmi"
"Sai la ragazza che faceva il corso con me, che poi si è sposata…"
"Mah, non so, non mi ricordo, Luisa. Cosa le è successo?"
"Oh, lei per fortuna sta bene, lavora…è una sua cugina che ha avuto problemi. E' entrata
clandestinamente, l'hanno messa sul marciapiede…sette mesi, c'è stata, nella zona di
Bologna…ora è scappata, è venuta qui, ma se la trovano rischia grosso…insomma, la
dovevo ospitare io per un po'"
"Ma Luisa, è clandestina!"
"Ci penseremo dopo, ora la dobbiamo nascondere. Io però non posso più, mio suocero è
stato ricoverato, mia suocera è da me, con le bambine e tutto io non ho più posto…"
Elsa non parla, gioca con le perle, guarda l'orologio.
"Elsa, l'unica sei tu"
"Io? Ma non la conosco neanche"
"Che c'entra, vuoi che la trovino?"
"Ma la polizia…"
"Non si può, ora non si può, lei scappa, chissà dove va, magari la picchiano, la
ammazzano. Elsa, una settimana, due al massimo. Non c'è nessun altro…"
Elsa sospira, è nervosa, non sa, non sa proprio che fare.
"Elsa, ha sedici anni, potrebbe quasi essere tua figlia…"
"E' tardi, devo far lezione, te lo dico dopo".
Luisa l'accompagna fin sulla porta della classe, continuando a pregarla, le afferra il polso,
la sua voce trema quasi ed Elsa sente un'ondata di emozione, nodo alla gola, desiderio di
fare una cosa buona, accetta. L'abbraccio di Luisa la imbarazza, irrigidisce le spalle,
entra in classe.

Le dà sempre una sensazione di fastidio, all'inizio, vedere i colori dei vestiti delle ragazze
africane. Anche oggi c'è Manti con i pantaloni rossi e la camicia a quadri verdi e gialli. E'
in piedi, vicina alla sua amica –Elsa non ricorda il nome – e stanno parlando sotto voce,
con le risatine delle ragazze, e intanto toccano l'una il viso dell'altra, le sue braccia, i
suoi seni. E' proprio Manti che la saluta per prima:
"Buonasera, signorina Elsa, come sta?"
"Bene, grazie. E tu? Per piacere, vuoi distribuire queste fotocopie?"
Manti si avvicina ed Elsa non può fare a meno di pensare che quei seni sono troppo alti,
troppo grandi, troppo…come si fa, ed anche quel sedere, come possono queste ragazze
portare in giro un sedere così prepotente, così eccessivo, così provocatorio? Ma,
insomma, il futuro.

"Sulle fotocopie ci sono disegni per lavorare sul tempo futuro del verbo. Frasi con il
tempo futuro. Avete capito?"
Risponde un coro di sì/oui, voci troppo roche o troppo sguaiate
"Per piacere, non usate il francese, ne parlé pas français, va bene?"
Ma impareranno, impareranno a parlare italiano e potranno cambiare la loro vita,
educheranno le loro voci e il loro gusto. E le avrò aiutate io.
Dalla classe giunge nel corridoio il rumore delle voci che ripetono le frasi sul futuro:
"Questa estate io andrò a Londra"
"Cosa farai domenica prossima?"
"Tra due mesi Maria si sposerà"…
"Manti, non gridare così, e chiudi le vocali":
Mancano pochi minuti alla fine della lezione. Elsa si rivolge a Manti:
"Manti, cosa farai domani?"
La ragazza sorride, guarda le sue fotocopie:
"Domani io mi sposerò"
"No, cosa farai tu, davvero…"
Manti scuote la testa e ride
"Oh, signorina Elsa!"
e muove le mani in quel modo strano, con gesti esagerati, come fanno le ragazze
africane.
Escono, a gruppetti, tenendosi abbracciate, toccandosi il viso l'una con l'altra, mentre
parlano con le loro voci troppo roche o troppo squillanti, che abbassano quando passano
davanti ad Elsa.
"Parlate italiano, anche tra voi!"
Le ragazze abbassano quei loro occhi neri e si allontanano, con le maglie dai colori
violenti sui corpi neri, con quei seni e quei sederi troppo alti, così rumorose, così
esagerate. Elsa sospira, sente la voce di Roberto:
"Luisa, vieni, la signorina Elsa sta uscendo".
Si ritrovano l'una di fronte all'altra. Luisa ha il viso accaldato, i capelli un po' in disordine,
sembra uscita di fretta mentre stava facendo le pulizie, abbraccia di nuovo Elsa:
"Allora…allora…come possiamo fare…te la porto io domani, va bene? Al mattino? No?
Allora alle quattro, vengo io alle quattro. Elsa, fai proprio una bella cosa, vedrai, è una
ragazza sfortunata, la dobbiamo aiutare, poverina".
Elsa si sente un po' tesa, ma le parole di Luisa le entrano nella mente…una ragazza
sfortunata, la dobbiamo aiutare. Stanno camminando insieme, nel corridoio, tra i foglietti
colorati delle bacheche, Elsa con le perle sul vestito blu, Luisa con il maglione fatto a
mano ed il mignolo destro sporco d'inchiostro; passano due ragazze africane, si fermano
ad abbracciarla,
"Sì, vengo subito"
poi di nuovo ad Elsa:
"Pensa, sedici anni, le hanno promesso un lavoro e il lavoro era il marciapiede e le hanno
tolto i documenti, ma è scappata lo stesso, poverina"
Poverina, pensa Elsa, la dobbiamo aiutare. Si sente ancora un po' nervosa, ma è
convinta di far bene.
"E come si chiama?"
"Yousefa".

III

Elsa ha preparato la camera degli ospiti. Al telefono Marco era un po' perplesso:
"Non sai neanche chi ti prendi in casa"
le ha detto, ma poi Elsa gli ha dimostrato che è giusto così, che ognuno deve assumersi le sue responsabilità, e se non le aiutiamo noi queste persone… Ora sta aspettando. E' proprio contenta di aver accettato.
Suonano alla porta. Lei si alza, si liscia la gonna sulle gambe, sistema i capelli con un gesto delle mani, passando davanti allo specchio, apre. Lo sguardo corre subito dal viso sorridente di Luisa a Yousefa. Non sorride, lei. La guarda come se le rimproverasse qualcosa. Che cosa? Luisa parla, abbraccia, bacia:
"Ora devo proprio scappare, ho una fretta, la bambina… l'asilo…ospedale…suocera. Tanto lei se la cava con l'italiano, vero Yousefa?" ed è già sparita giù per le scale.
"Entra, ti faccio vedere la camera."
Sedici anni, ma è già una donna: curve forti, da africana, nei fuseaux fucsia che stridono con la maglia gialla a fiori, seni grandi rotondi, rotondo il sedere che ondeggia sugli zatteroni proprio da…
"Vuoi delle ciabatte?"
Yousefa non parla, si guarda intorno, si muove con paura: non c'entra, lei, con le sue curve, in questa casa, nella borsa ha poche cose, ma sembrano già troppe per questa casa. Guarda Elsa, il suo maglione cammello, le sue mani bianche, Elsa le ha sorriso, ma il sorriso è freddo, sembra un taglio nella corteccia, sembra una crepa nella terra secca. Elsa le fa domande: da dove viene, cosa faceva là, come è fuggita, ma Yousefa risponde a malapena, come quella volta che l'ha beccata la polizia e poi 'Ndogu l'ha ripresa e riportata sulla strada. La strada d'asfalto, i marciapiedi bui, le auto…tutte queste cose le aveva già viste, lei, a Lagos, quando queste cose volevano ancora dire camminare, andarsene, lasciare dietro tutto il brutto. Ora sono dieci passi avanti, dieci indietro, salire scendere, chiedere i soldi e fare e 'Ndogu che si prende tutto…
Elsa le mostra il piccolo bagno degli ospiti:
"Userai questo," dice "c'è la doccia…"
Si sente un po' a disagio perché Yousefa non parla, la guarda senza sorridere, non si mostra contenta di essere al sicuro, con una camera tutta per sé, un bagno tutto per sé. Il silenzio è pesante. Avrebbe voluto sentire un'emozione grande, traboccante, per questa ragazza che se ne sta ferma sulla porta del bagno, blocca il passaggio con le sue rotondità esagerate, fucsia e gialle, e non dice nulla.
"Perché non ti rinfreschi un po', sistemi le tue cose, poi prendiamo un tè, ti va?"
"Va bene":
Elsa sta rientrando dopo la spesa. Mentre apre la porta sente la voce scura di Yousefa.
Con chi sta parlando? Non si rende conto che deve stare nascosta?
"Tua mamma" dice Yousefa, ed Elsa afferra con rabbia il telefono
"Sì sì, è molto cara, hai ragione, ciao"
e riattacca.
"Perché hai risposto al telefono?" la sua voce è dura, anche se controllata.
"Ho pensato Luisa chiamava me."
"Non devi rispondere, non devi parlare con nessuno, hai capito, è pericoloso!"
Yousefa non abbassa lo sguardo, i suoi occhi non sono miti.
"Perché tu non sta con la madre? Lei sola, molto triste, ha detto è molto triste perché
sola."
"Mia madre si lamenta con tutti, è meglio se non stiamo insieme. Litighiamo se stiamo
insieme."
"Lei malata, chi cura, chi fa da mangiare?"
"C'è una donna che se ne occupa, io le do dei soldi per pagarla, tutti i mesi…"
Il tono della sua voce cambia:
"E poi, insomma, non mi devo giustificare con te se ho la mia vita, no?"
Yousefa tace, non abbassa lo sguardo, sta ferma, seduta sul divano, solo con la mano
giocherella con uno dei gatti, quello di vetro.
"Fai attenzione a non romperlo."
Il giorno dopo Elsa esce per andare al lavoro. Yousefa rimane da sola in una casa troppo
silenziosa, troppo chiara, troppo...Il tempo non passa mai, la TV dopo un po' l'annoia,
Yousefa gira per le stanze, gioca con il gatto, lotta contro la voglia di telefonare: a chi?
a qualcuno, una delle amiche di Bologna, oppure Luisa, oppure...qualcuno. Il suo letto ha
lenzuola pulite con fiorellini azzurri...nella casa di Bologna dormiva in un letto
matrimoniale con due ragazze come lei, c'erano odori, rumori parole, pelle calda, Mimì l'ha
aiutata a fuggire ma ora non può chiamarla, la scoprirebbero. Mimì – non le ha mai
chiesto il suo vero nome. Yousefa vede le piante davanti alla finestra che le separa
dall'aria, vede la porta che dà sul terrazzino: una ad una porta le piante a respirare, fuori
fuori, al sole senza vetri senza tende. Poi mangia qualcosa, latte, biscotti; la porta del
terrazzino è aperta, entrano aria sole rumori. Se ci fosse Mimì, ora, potrebbero pettinarsi
i capelli, darsi lo smalto sulle unghie, quello verde magari, scambiarsi i vestiti e
camminare scalze sul tappeto ridendo e cantando e abbracciarsi, abbracciarsi e
raccontarsi le storie, non quelle vere, però, quelle che succederanno un'altra volta...
Nel pomeriggio torna Elsa. Tutto è fuori posto, tutto è dove non dovrebbe stare e la
musica è troppo alta, la televisione accesa e lei dov'è?
"Yousefa, Yousefa, dove sei?"
la sua voce è stridula, lo sente, ma non ci può fare nulla. Yousefa si affaccia dalla sua
camera, indosso solo le mutande.
"Qui non si va in giro mezze nude"
e distoglie lo sguardo da quel corpo nero e lucido, così ingombrante. L'accenno di un
sorriso sparisce dal viso di Yousefa. Elsa va in cucina, con gesti nervosi rimette le cose a
posto: la tazza non sta sulla mensola, sta dentro lo sportello a vetri, il barattolo dei
biscotti deve essere il primo sulla mensola perché è il più grande, ha una gran voglia di
 piangere, la gola strozzata, perché ha messo le piante fuori? chi glielo ha detto? e tutta
quest'acqua...Si butta sul divano, le cose sono troppo diverse da come dovrebbero, e
perché Yousefa la fa stare male, perché la guarda con quegli occhi così neri, invece di
sorridere e dire che sta bene qui, che è contenta...Lo sguardo va alla sveglia, è l'ora
della pappa per Filippo:
"Filippo! Filippo!"
Filippo non arriva ronfando come al solito, la voce di Elsa si fa sempre più nervosa,
mentre lo cerca sopra il letto, dentro l'armadio...la porta, la porta sul terrazzino aperta:
"Yousefa" ed entra con rabbia nella camera, "dov'è Filippo?"
Non grida, ma la sua voce è ghiaccio.
"Cosa è Filippo?"
"Il gatto, il mio gatto, Yousefa, dov'è?"
"Io non so, oggi ha giocato con gatto, dopo non so."
"Tu, tu hai lasciato aperta la porta sul terrazzo, tu hai fatto scappare Filippo, sei venuta
qui e hai fatto scappare il mio Filippo."
Elsa esce perché ora sta per piangere e non vuole piangere davanti a Yousefa, rivuole il
suo Filippo, subito, e però al telefono con Marco piange e poi se ne va sul terrazzo e chiama Filippo, cento volte, ma Filippo non viene.
A cena ha ancora gli occhi rossi e gonfi, rigira tra le dita una ciocca di capelli, non parla a Yousefa, non la guarda, finché Yousefa le dice:
"Quanti anni ha tu?"
Il profilo di Elsa si gira verso quella voce troppo forte.
"Trentaquattro."
"Perché non sposata?"
"Marco vive a Milano."
"Perché tu non va a Milano e sposa?"
"Perché lavoro qui, io, e ho la mia casa qui, io."
Silenzio.
"E bambini? Quando fai bambini? Dopo sei troppo vecchia:"
"C'è ancora tempo per i bambini:"
Silenzio.
"Non sei triste che stai sola?"
"No, non sono triste da sola, io."
Yousefa invece è triste da sola, anche dopo una mezza giornata. Ripensa alla sua casa,
di lamiere e di legno, vuota di mobili e piena di gente che andava e veniva, si fermava a
dormire, portava una tanica per l'acqua, se ne andava con un cesto per il miglio. Le sue
sorelle hanno sempre dormito con lei, tutte strette l'una all'altra, l'una con gli odori
dell'altra. Le loro dita si sfioravano nel prendere il riso dal piatto. Il giorno prima della sua
fuga sono andate al fiume, con le altre ragazze. Camminavano nella polvere e ridevano,
si spogliavano e ridevano, si schizzavano e ridevano, contro tutto e contro tutti, perché
 avevano corpi giovani e sodi, e nell'acqua si massaggiavano per togliere via la polvere.
Hanno fatto il bagno tutte insieme e dopo lei, che prima aveva il vestito verde, si è
messa quello giallo, che prima aveva sua sorella Trudi, e sua sorella Trudi ha preso quello
viola, che prima aveva la sua amica Winnie, e la sua amica Winnie ha preso quello rosso,
che prima...

Il giorno dopo Filippo ritorna: arruffato, sporco, un orecchio sbranato, soffia quando Elsa
cerca di medicarlo, si nasconde sotto il divano e non mangia. E' ancora lì quando Elsa
rientra dopo la scuola. Yousefa la raggiunge in cucina per salutarla. Ha indosso la
vestaglia cinese.
"Chi ti ha detto che potevi prenderla? Chi ti ha detto che potevi entrare nella mia
camera?"
Yousefa corre via, a cambiarsi, non sa perché Elsa ha uno sguardo così gelido, lei non si
arrabbierebbe se Elsa mettesse la maglia gialla a fiori...Mangiano lontane, senza parlare.
Dopo Elsa va in bagno, per rinfrescarsi. Gli asciugamani non sono al loro posto, tutti i
vasetti di creme e saponi sono stati girati, spostati, toccati...il flacone con il
bagnoschiuma comprato a Parigi è vuoto, Yousefa ha fatto il bagno qui, ha usato la mia
vasca.
"Yousefa, perché usi il mio bagno? Ti ho detto di usare il tuo, perché non vuoi capire,
non ti basta la doccia, devi proprio lavarti nella mia vasca, Yousefa?"
La ragazza non reagisce davanti ad Elsa, che è ancora più bianca di prima, che ha il viso
duro, i muscoli tesi. Ognuno ha il suo spazio, dove tutto deve stare al suo posto, mentre
ora tutto sembra in frantumi.
Yousefa sa che non può restare. Quando Elsa esce per la lezione di italiano al centro,
prepara la borsa, si veste. Non ha un soldo. Dove va senza un soldo? In un cassetto,
nella camera di Elsa, trova trecentomila lire. Servono a lei, per andare. La porta è già
chiusa alle sue spalle.


IV


Hanno girato in macchina per la città, tutto il giorno. Ieri sera, quando è rientrata e Yousefa non c'era più e non c'era nemmeno la sua borsa, Elsa ha subito chiamato Luisa, che non capiva, non capiva, accidenti, perché la voce di Elsa sibilava nel telefono, si spezzava, e Luisa ci ha messo un bel po' per capire che Yousefa era scappata.
"Ma che strano, è proprio strano"
continuava a ripetere, mentre Elsa parlava di carattere invadente, di riconoscenza:
"E io che l'ho ospitata nella mia casa, la lasciavo da sola, le ho dato le chiavi…"
Delle trecentomila lire non ha detto niente, però, non sa perché, è troppo arrabbiata con
Yousefa, anche ladra, e non ha voglia di sentire ripetere da Luisa "ma che strano".
Rubarle anche i soldi, dopotutto. Ladra.
Ieri sera era tardi per andare a cercare Yousefa, ma oggi hanno girato tutta la città, lei Luisa e Roberto. I posti li sanno tutti, i posti dove stanno le ragazze africane. La gente passa, fa finta di non vederle, oppure si ferma a guardarle, gli uomini si fermano a guardarle: rallentano e le guardano, come merce in vetrina, si fermano, scelgono la merce, le altre ragazze rimangono a scaldarsi vicino al fuoco e chiacchierano e ridono anche, fanno vedere i loro corpi lucidi e se non salgono in auto ritornano accanto al fuoco.

"Devono avere freddo, queste ragazze africane, mezze nude nella nebbia del nostro
inverno" dice Luisa, "ho sempre le mani fredde, io, d'inverno."
Chissà di cosa parlano con le loro voci troppo forti, le parole fumano nell'aria. Chissà di
cosa ridono, si chiede Elsa. Due ragazze si sono avvicinate anche alla nostra auto,
hanno guardato dentro con quegli occhi così neri, non riesco mai a capire quanti anni
possono avere, i loro seni sembravano voler entrare dai finestrini. Yousefa però non
c'era.
Hanno cercato quasi ovunque, ed è tardi. Decidono di dividersi. Elsa andrà alla stazione.
Prima di ripartire Roberto la incoraggia:
"La troveremo, stia tranquilla."
Ma Elsa non è tranquilla, è arrabbiata, stringe i pugni contro questa ragazza africana,
una puttana, sì, una puttana, e ladra. Era quasi sicura che l'avrebbero trovata sul viale,
invece no, lei non c'era.
Yousefa dopo essersi chiusa alle spalle la porta ha camminato per la città per qualche
ora: aveva voglia di aria, di gente, di confusione. Un'automobile l'ha seguita per un po',a
passo d'uomo, qualcuno l'ha anche chiamata. Avrebbe potuto salire. Ma voleva godersi la
libertà di continuare a camminare, guardando avanti, e tanto un po' di soldi ce li ha, per
ora. Ha dormito sotto il portico, alla stazione centrale, ascoltando il rumore dei treni. Se
ne va. Scappa. Un'altra volta. Non deve fidarsi più di nessuno. La prima fuga, per trovare
un lavoro, si è fidata di 'Ndogu e 'Ndogu l'ha picchiata, le ha rubato i documenti, l'ha
portata sul marciapiede. La seconda fuga, per lasciare il marciapiede, si è fidata di sua
cugina, che l'ha mandata da Luisa che l'ha mandata da Elsa. Ora ha imparato: deve fare
da sola. Forse qui non c'è posto per lei, forse qui una come lei può stare solo sul
 marciapiede, salire sulle auto dei clienti, scappare quando vengono le auto della polizia.
Se non c'è altro modo, lo farà di nuovo. Ma prima…ha comprato un biglietto, per Mestre. Mimì le ha parlato di un uomo che vende il lavoro dei clandestini, una settimana in un posto, una settimana in un altro, a fare quello che capita, pulire depositi, incollare borse, non importa, basta che la paghino, e che nessuno la picchi.
Elsa ha fatto un giro alla stazione, sui binari c'era un gruppo di ragazze africane, ad
aspettare il locale per Pisa, ma Yousefa non c'era.

Che stupida, sto perdendo il mio tempo, ho perso una giornata per correre dietro a una…
una ladra, che ha approfittato della mia ospitalità e poi se ne è andata senza un grazie e
mi ha pure rubato i soldi che io, da stupida, avevo lasciato lì. E ora è già tardi e invece
di andarmene a casa sono qui a cercarla. E quella chissà dov'è.
Elsa è proprio stanca, ha voglia di sedersi un po'. Entra nel bar e la vede subito, non può non vederla, coi fuseaux fucsia e la maglia gialla. Non c'è nessuno nel bar, solo loro due. Elsa si avvicina, è così arrabbiata che si sente la gola strozzata, vorrebbe dirle diecimila cose, ma le esce solo una parola, sottovoce:
"Ladra".
Yousefa avvicina a sé la borsa
"Non ti do soldi, tu ha altri soldi, questi buoni per me."
Yousefa si è alzata in piedi, stringe la borsa. Non abbassa lo sguardo, anzi, i suoi occhi
neri fissano quelli di Elsa.
"E tu fai questo a me, che ti ho accolto nella mia casa?"
Yousefa fa un passo avanti, ora è vicinissima ad Elsa:
"Tu non vuole in tua casa me, tu vuole ragazza di legno."
Elsa avrebbe diecimila cose da dire, ma la gola si è chiusa. Non sa come, la sua mano si
alza e colpisce Yousefa con forza, sulla guancia. La borsa cade, Elsa trova la forza per
gridare e comincia a picchiare Yousefa, con rabbia, pugni, calci, e Yousefa risponde,
pugni, calci, capelli tirati, graffi, poi arriva il barista:
"Che fai, eh, che fai, chiamo la polizia…"
Yousefa si divincola, riesce a scappare, il barista sorregge Elsa, le offre un bicchier
d'acqua, per lo spavento.
"Non se ne può più, tutti questi negri, dovrebbero rispedirli a casa loro, lo dico sempre,
io." Elsa se ne va, "niente, non è stato niente" rifiuta la polizia, non è come il barista, lei, è stata solo sfortunata, lei, l'ha accolta a casa sua, non voleva mandarla via, ha avuto sfortuna. Torna a casa, allo specchio il suo viso è graffiato, i capelli spettinati, la giacca blu ha uno strappo.Questa la butta via, sì, la butta via, non la vuole vedere più. Per fortuna Filippo dorme sul divano, tutto è tranquillo, Elsa è in bagno, si è spogliata, si strofina le mani con l'alcool, si strofina la pelle con la spugna, fino a diventare rossa, ha avuto sfortuna, aveva ragione Marco, magari farà cambiare la serratura della porta…
Ma non c'è bisogno di cambiare la serratura. Yousefa è sul treno per Mestre, scruta le persone che passano nel corridoio.

Ho il biglietto, non ho documenti. Ho il biglietto, devo avere un posto.
Sul treno da Bologna aveva il biglietto. Nel primo scompartimento c'era un posto, la donna bionda con il vestito rosa ha detto
"no, è occupato" ma lei lo ha visto che ha messo lì la sua borsa, però non poteva litigare, non ha documenti.
Ho il biglietto, ho trovato un posto.
Nello scompartimento c'erano tre uomini, quando lei ha aperto le hanno detto
"entra, entra",
è entrata, nei loro colli il pomo d'Adamo si muoveva. Il più giovane rimetteva a posto la
valigia, ha perso l'equilibrio, le è caduto addosso. Lei lo sa che l'ha fatto apposta, ha
visto come si guardavano tra loro, ma non ha litigato. Ha il biglietto, non ha i documenti.
Deve andare a Mestre. Lì forse c'è un posto per lei. Forse.
E' tardi. Sul treno le luci si sono abbassate. Yousefa chiude gli occhi, finge di dormire. La
porta dello scompartimento è chiusa, il viaggio lungo. Se le chiedono i documenti non
può neanche scappare.


Anna Vezzoni è nata e vive a Pietrasanta (Lucca). Laureata in Lettere classiche, insegna Italiano e Latino in un Liceo Scientifico. Ha pubblicato recentemente un libro di racconti, intitolato "Anime d'ali strappate".
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