IL GIARDINO AUSTRALIANO DI MR. VIRGIN O’ BRIEN


Bozidar Stanisic

  Car nous sommes où nous ne sommes pas
(Pierre-Jean Jouve)

Tu non sai che la via da te a me
Non è uguale alla via
Da me
A te
(Mak Dizdar)

Un lungo corridoio, in alto sulla parete di fondo un luminoso orologio elettronico: undici e undici minuti, undici febbraio millenovecentonovantasette, molte porte su entrambi i lati. Neven O. si ferma davanti a una porta. Pur sicuro che quella sia proprio la porta giusta, ne scruta il numero: undici. Prima di bussare (“né troppo forte né troppo piano”), si girerà alcune volte a destra e a sinistra, chiedendosi perché tutti i visi che passano per il corridoio dell’Auslanderamt[i] siano dello stesso colore: pallido-cartacei. “Se sono tutti così, allora anche il mio viso è così”, conclude (“per nulla preoccupato da questo fatto”). Per un attimo riflette sulla ripetizione (“casuale?”) di quei numeri appena visti: uno, uno, uno… e sulla luce bronzeo-verdastra del neon che (“forse?”) influisce anche su un fenomeno (“non ancora studiato?”): alla luce del neon su nessun viso c’è un sorriso; le labbra: fessure intagliate su maschere, gli occhi: immobili, come occhi di figure di cera.

“Il suo caso… Il suo caso Herr O., il suo caso…” incalza nevroticamente l’impiegato della stanza numero undici, battendo velocemente il suo nome sulla tastiera del computer.

A Neven O. pare che le finestre della stanza comincino bruscamente a rimpicciolirsi, e gli scaffali con i registri colorati ordinatamente disposti a ingrandirsi e, quasi, ad avvicinarsi, e a spingerlo e a stringerlo, mentre una voce gli dice: “Non vede, Herr O., che qui è troppo stretto? Le sembra corretto rubarci spazio prezioso? In caso di generale angustia di spazi lei non si spaventerebbe?”. La stessa cosa la vedrà ben presto scritta (“in perfetti caratteri bookman old stile, la scritta è durata quanto un batter d’occhio”) sulla liscia pelata dell’impiegato su cui scintillano i riflessi dello schermo del computer (“come le squame argentee dei pesciolini di molo, al crepuscolo, su un mare”).

“Così… Non possiamo prolungare il suo Duldung, deve lasciare la Germania entro…”, dice l’impiegato, senza togliere lo sguardo dallo schermo. “Riceverà il decreto per posta, presto, e potrà fare eventualmente ricorso entro…”

“Un momento, la prego …”, Neven O. si tuffa nella lunga fila di parole dell’impiegato, “Mi dica, che cosa significa il termine Duldung: tolleranza, rassegnazione o sofferenza?”

Duldung è un particolare permesso a breve scadenza per ragioni umanitarie”, dice l’impiegato, tambureggiando con le dita sul bordo della scrivania. “Il resto delle informazioni lo cerchi nel Grande dizionario tedesco…”.

Solo per un attimo i loro sguardi si incontrano. Neven O. sente un qualcosa-come-soddisfazione: l’impiegato precedente aveva un’insopportabile voce nasale, occhi freddi, acquosi e repulsivi, bruschi movimenti delle mani.

 

“Schnee[ii]…”, dice Neven O. uscendo dall’Auslanderamt, e stende il palmo su cui cadono grossi fiocchi di neve; guarda verso l’invisibile  cielo di Monaco, poi si toglie gli occhiali e li asciuga con il fazzoletto. Da un’enorme manifesto in una vetrina dall’altra parte della strada lo osserva un occhio immobile. Guardando meglio vedrà che si tratta del globo terrestre, con tutti i suoi continenti e oceani. “La terra è al suo posto e noi siamo al posto giusto”, tradurrà fra sé dal tedesco nella sua lingua la frase pubblicitaria di una grande agenzia immobiliare scritta sotto l’immagine del pianeta Terra.

“Schnee… Neve… Schnee”, ripete Neven O. , a mezza voce, alza una mano e ferma un tassì.

 

“Es schneit[iii]”, dice il tassista, tossicchiando. Ha i dorsi delle mani grinzosi, biancastri come pergamena e ad ogni istante si stringe nelle spalle come fanno le persone freddolose.

“Ja, es schneit[iv]”, risponde Neven O. dal sedile posteriore, osservando come la neve cambia l’aspetto dell’ambiente.

 

“Es schneit”, dice l’avvocato.

“Ja, es schneit”, risponde Neven O. senza riuscire a ricordarsi se abbia mai in precedenza (“almeno una volta sola?”) scambiato con l’avvocato qualche parola che potrebbe non appartenere alla gamma delle parole chiare e precise della terminologia legale.

“In breve: faremo un ricorso, in base al quale seguirà un altro prolungamento del Duldung, con cui rimanderemo la sua…”

“… espulsione!”, interviene Neven O., a voce alta.

“… per i prossimi tre mesi”, continua l’avvocato, facendo finta di non avere sentito l’intervento del suo cliente. “Dopo…”

“Dopo?”, ripeterà dietro a lui Neven O., come un’eco soffocata.

“Dopo… Naturalmente, dopo…”, si affretta l’avvocato e, prima di togliersi gli occhiali (per la prima volta Neven O. si accorge che l’avvocato ha il naso a patata, cosparso di lentiggini rossastre), lancia un’occhiata veloce all’orologio a muro dietro alle spalle del suo cliente. “… Faremo tutto il possibile, naturalmente nei limiti delle possibilità offerte dalla legge, per far sì che l’amministrazione le prolunghi il Duldung, in modo possa avere il tempo per cercare anche le altre soluzioni di cui, come sa, abbiamo già parlato… Purtroppo, lei è scapolo, o almeno il suo stato civile risulta così sui documenti, e i single, sia quelli che ricevono il contributo sociale, sia quelli che lavorano, sono i primi a subire la legge. È vero che sarebbe lo stesso anche se fosse sposato, soprattutto senza figli che frequentino la nostra scuola…”

L’avvocato si mette gli occhiali sul naso, stira le labbra in un sorriso, porge la mano a Neven O. (lui osserva che il dorso della mano dell’avvocato è grinzoso, cosparso di scure macchie di vecchiaia, questo lo vede per la prima volta, come è la prima volta che in quell’ufficio osserva il poster incorniciato di un quadro: la torre Eiffel, il cielo azzurro chiaro di Parigi in cui vola un antiquato biplano, “che sia del Doganiere?”), e si accomiata.

“Schnee…”, dice Neven O. camminando per la strada. “Schnee… Neve… Schnee… Neve”. Ripeterà questa stessa frase, sotto voce, in piedi nell’autobus 17B, davanti al viso di una ragazza dalle labbra rosate, che reclamizza, nella cornice di un manifesto pubblicitario sopra il finestrino, una famosa marca di occhiali da sole. “I visi sconosciuti sono tranquillizzanti”, dice, tra sé, Neven O. Una vecchietta gli chiederà di spostarsi, per poter arrivare alla porta. “Prego…”, le dirà Neven O. e osserverà in cima alla sua borsa della spesa una grande cesto di insalata, di un verde intenso.

Sente fame: un vuoto acido nello stomaco.

 

Le olive dell’insalata greca che mangia in un fast food, nella via che porta il nome di un pittore norvegese che vivrà in Germania dal 1892 al 1895, gli sembrano amare. “Perché sono troppo salate?”, si chiede Neven O. e si ricorda che per l’estate seguente ha progettato di andare in Grecia. “Con Greta o senza di lei, fa lo stesso”, dice a se stesso a mezza voce.  “Voleva qualcosa?”, sente dietro di sé la voce della cameriera. “No, niente. Grazie”, risponde Neven O. Un’oliva gli sfugge dal piatto, salta come una pallina, corre verso il bordo del tavolo, cade a terra e prosegue nello spazio vuoto fra i tavoli. Neven O. si gira e si assicura che nessuno abbia visto la caduta dell’oliva. Sulla tovaglietta di carta bianco neve vede la traccia nerastra del percorso saltellante del frutto mediterraneo: punteggiato, appena appena lucido (“per l’olio”). In tasca gli suona il cellulare. “Mi dispiace, Herr O., so che oggi è il suo giorno libero, ma oggi dovremmo consegnare La danza della vita”, gli annuncia il suo capo. “Va bene, vengo”, risponde Neven O. e rimette il telefono in tasca, poi ancora una volta intinge un pezzettino di pane nero nell’olio in fondo al piatto, finisce la sua birra, con il tovagliolo si pulisce la schiuma dalle labbra. Fuori lo attende una neve ancor più fitta. Mentre aspetta il tassì, Neven O. pensa al pittore norvegese, alla coincidenza che lo ha portato a pranzare proprio nella via che porta il suo nome, al fatto che quel pomeriggio dovrà finire la stilizzazione del suo dipinto La danza della vita per un enorme pannello che starà nell’ingresso di una delle grande discoteche bavaresi. (“Gut”, solo questo ha detto qualche giorno prima il padrone della discoteca a proposito dello schizzo proposto da Neven). Ricorda quanto ha letto sul Norvegese in un’enciclopedia: “Parallelamente a tendenze fin de siècle, nella sua pittura elaborò spesso morbosi motivi di solitudine, malattia, erotismo, amarezza e sofferenza e con le tecniche della pittura a olio e della grafica (incisioni su rame, litografie) creò visioni di disperazione e scene fantastiche e visionarie. Realizzò una serie di ritratti (Ibsen, Strindberg, Mallarmé, Przybiszewski, autoritratti), di paesaggi nordici e di motivi simbolico-figurativi (La madre morta, La fanciulla malata, La fanciulla e la morte, Il bacio, Assassinio, Notte, Il grido, Mistero, Terrore). Per l’aula dell’Università di Oslo dipinse affreschi (1910-1915) con l’immagine simbolica del Sole e della luce come fonte dello spirito umano. Influì sullo sviluppo dell’espressionismo, ecc. ecc.”.

Malgrado tutto si stupirà quando si accorge (“ma non subito”) di aver preso lo stesso tassì di prima.

“Es schneit”, dirà il tassista, tossicchiando.

“Ja, es schneit”, risponderà Neven O.

 

Ore tredici e undici minuti: è l’ora registrata dall’orologio elettronico sulla scheda magnetica che registra le ore di lavoro di Neven O., designer in uno studio grafico di Monaco (“il sarcasmo graffiante di Johann: che ha il nome sonoro di arte pura”. Quando uscirà dal lavoro, lo schermo in miniatura dell’apparecchio indicherà 18:11. “Che tempo faceva nel febbraio milleottocentoundici?  Nevicava come oggi?” (Poi di notte, nell’insonnia, si chiederà perché gli sia venuto quel pensiero, strano, misterioso, “e inutile”, ma non troverà risposta).

Nel frattempo: Neven O. lascia il cappotto e la sciarpa nel suo armadietto, passa fra gli studi dalle pareti di vetro, entra nel suo, saluta Johann e Hannah che lavorano ai computer. Johann (“come prima”), parla da solo: “Johann, metti questa forma cilindrica in parallelo con la diagonale… Johann, guarda come funziona questa soluzione in formato ridotto…”, a ogni movimento le sue lunghe basette brillano di riflessi bronzei; Hannah ammicca da dietro le spesse lenti dei suoi occhiali, ogni momento sorseggia caffè da una tazzina di plastica e talvolta picchietta con un bastoncino hashi[v] sul bordo dello schermo, “è segno che qualcosa non le va”). Neven O. si siede al suo tavolo, accende il computer e comincia a lavorare alla Danza della vita: toglie volume ai corpi della coppia danzante al centro del dipinto, lasciandone solamente i contorni, poi fa lo stesso anche con i corpi degli altri ballerini (nella notte di S. Giovanni, la più breve notte norvegese, in cui si danza sui prati sotto la chiara luce del Sole e della Luna, presenti in cielo nello stesso tempo, come dice un libretto sul pittore), poi fa lo stesso alle figure di due donne che, come cariatidi alle due estremità del quadro, assistono alla danza della donna in rosso e dell’uomo in nero: alla giovane, in un lungo abito chiaro, nell’angolo destro, che accenna a un passo e protende le mani con un desiderio che abbevera la sua giovinezza in fiore (“oppure aspetta qualcuno? qualcuno che non sarà solo il cavaliere della notte più breve?”) e alla donna in nero, nell’angolo sinistro del dipinto, dallo sguardo severo nell’amarezza della sua maturità, che stringe le mani incrociate sul sesso (“e ha lo stesso viso di quella giovane, ma segnato dall’esclusione e dalla sofferenza?”), e poi monta nei contorni figure attuali scelte in precedenza (“dai visi assolutamente giovani, ma seri, con modernissimi occhiali scuri”), figure che dovrebbero indicare la particolare atmosfera della famosa discoteca. “Quindi, assolutamente nessuna danse macabre, come forse suggerisce il Norvegese sotto la maschera della Danza della vita, né una contrapposizione fra Vita e Morte nelle figure delle due donne del dipinto, ma, per il visitatore, un messaggio semplice, penetrante ed efficace: che lo aspetta qualcosa a cui, semplicemente, non può sottrarsi, un’intera notte di ballo, ripetibile ogni venerdì e sabato”, dice a se stesso, e poi chiama Johann e Hannah a vedere la composizione.

“Interessante”, dice Hannah avvicinando il viso allo schermo, toccandolo quasi con il naso.

“Interessante”, fa eco Johann. “Però dovremmo avere più tempo per quello che facciamo: invece ci limitiamo a nuotare in superficie, e con le nostre stilizzazioni rubacchiamo a quelli che si sono tuffati in profondità sotto la superficie. Se ti interessa, e non interpretare male le mie parole, guarda anche il quadro del Norvegese La donna in tre fasi, con una ragazza accanto all’acqua, con dei gigli in mano, una donna nuda a gambe aperte che si offre e una donna seduta nell’ombra, tutta vestita di nero. Le tre figure sono la stessa cosa, cioè sogno, carnalità e dolore. Una decina di anni fa ho visto il dramma di Ibsen Quando noi morti ci destiamo, in cui il personaggio femminile, Irena, se non mi sbaglio, all’inizio del dramma è in un virgineo abito bianco. Quando l’indifferenza uccide i suoi sogni, si abbandona al corso distruttivo della vita, appare sulla scena nuda, abbandonando il suo corpo agli sguardi di centinaia di uomini. Alla fine, sulla scena è solo un’apparizione, nello stesso tempo una prigioniera, che dice: La donna nera verrà a portarmi via, mi troverà e mi farà indossare la camicia di forza…”

Neven O. è confuso, abbassa lo sguardo. Johann gli batte amichevolmente la mano sulla spalla e aggiunge: “Il muso del padrone della discoteca non mi piace affatto”. Neven O. non riesce a ricordarsi il muso.

“E il tuo soggiorno qui?”, gli chiede, all’improviso, Johann.

“Probabilmente ancora tre mesi”, dice Neven O. meravigliandosi dell’indifferenza della propria voce, come se non si trattasse di lui, ma di qualcun altro. Hannah si allontana dal suo tavolo: lui sa che lei non sopporta gli stranieri (“che male ti fanno?”, la provoca qualche volta Johann, “sono colpa loro perché sei rimasta zitella, eh? forse anche delle tue diottrie, eh? ma io vi conosco, vi conosco: sotto sotto non volete che gli stranieri se ne vadano davvero, anche se gridate in giro che mangiano il vostro pane! perché, in tal caso, dovreste confrontarvi con voi stessi, con la vostra noia e il vostro vuoto, non è così, vecchia mia?”; e lei arrossisce, sibila qualcosa fra i denti e si mette di nuovo a fissare lo schermo; per sua fortuna, Johann questa volta si è fermato; alcuni giorni fa le ha chiesto: Che cos’è, in realtà, la tua e anche la mia germanità pura? Le tue e le mie immondizie le portano via gli immigrati turchi e curdi, l’“audi” che guidi l’hanno costruita anche mani straniere, il caffè che beviamo viene dal Venezuela, lo schermo che fissiamo tutto il santo giorno è di Taiwan, il tuo bastoncino giapponese ti rilassa, ma ti sei mai posta il problema delle mani che lo hanno fatto, eh? ecc. ecc..).

“Il nostro boss tace, eh?”, continua Johann. “Perché non va all’Auslanderamt a dire: quell’uomo mi occorre, andate al diavolo…”

“No, non tace, è andato là… Ha lasciato anche le sue referenze, ma dice che la legge è legge, e che…”, Neven O. fa una pausa, allarga impotente le braccia, “… e che l’accordo fra il governo tedesco e quello bosniaco si deve rispettare…”

Johann scuote la testa, emette, con rabbia, una sonora imprecazione.

Suona il telefono: il capo chiama Neven O. nel suo ufficio, con la Danza della vita registrata su dischetto. Le dita di Neven O. battono agilmente sulla tastiera. Si avvia verso la porta di vetro, con il dischetto in mano. Sullo schermo del suo computer appare ora l’immagine dello screen saver, nel cui spazio tridimensionale si muovono stelle, pianeti, satelliti, comete, meteore.

Nell’ufficio del capo: il capo parla con qualcuno al telefono. Sì, sì… Senz’altro, come no - ripete queste parole diverse volte, annuisce con la testa e grattandosi ogni volta dietro l’orecchio con la matita indica a gesti a Neven O. di inserire il dischetto nel computer. Ripete ancora quelle parole, osserva lo schermo, annuisce con la testa (“il che vorrebbe dire che la Danza della vita è come se l’aspettava”), poi con la matita batte su un fascicolo (“il che vorrebbe dire che ho ricevuto un nuovo compito”) e fa un gesto con la mano (“il che vorrebbe dire che mi saluta”).

Neven O. percorre un’altra volta il corridoio, fra gli studi dalle pareti di vetro. Ad un tratto si rende conto di non sentire i propri passi. Si ferma. Un ricordo emerso fulmineamente non gli permette di continuare: nel racconto di uno scrittore del secolo scorso (“russo? un racconto di Gogol’?”) un impiegato passa ogni giorno per il corridoio di un ufficio, ma nessuno si accorge di lui (“proprio come se si trattasse di un moscerino, e non di un uomo”).

“L’autore non dice se l’impiegato è riuscito a sentire i suoi passi”, si chiede, stranamente agitato dal ricordo di quel racconto letto tanto tempo fa, a scuola, e ricomincia a camminare.

“Di nuovo senza far rumore?”, sussurra a se stesso, si ferma di nuovo e con il bordo di uno stivale batte sull’altro.

Neven O. non sente alcun suono. Si mette le mani sulle orecchie e poi le allontana. Ripete questo gesto varie volte. Qualcuno gli si ferma accanto, ma lui, Neven O., non sa chi è né perché si è fermato.

 

“Hu-ha=hu-ha…”, nell’ingresso dell’appartamento lo accolgono l’abbaiare di Achille e l’ansimare di Greta. Il cane gli si struscia sulle gambe, saltella per essere preso in braccio e accarezzato, e poi torna da Greta. La porta della stanza-palestra è aperta: su una panca speciale (di cui lui dimentica sempre il nome, sia in tedesco sia nella sua lingua),  distesa, con le gambe bloccate da cinghie, Greta solleva pesi, dilata e sgonfia le guance, cerca di contrarre tutto il corpo e non solo le braccia muscolose, e soffia rumorosamente ogni volta, dopo aver sollevato-abbassato i pesi (“questo fa parte della sua terapia antistress”). La sua coda di capelli freme, scura-splendente nell’ombra proiettate dalla debole luce di un’alta lampada a piede in un angolo della stanza. Achille, uno spitz a pelo lungo, disteso sul pavimento, sotto la tavola, ora sonnecchia tranquillo, ormai abituato al rituale dell’allenamento della sua padrona.

“Sei tu? Hu-ha…”, dice e volta la testa verso la porta.

“Greta… devo dirti una cosa…”, dice lui.

“Dopo … Hu-ha”

“Ti devo dire una cosa… Subito!”

“Ancora tre minuti… Hu-ha…”

“Greta… L’unica soluzione per la mia permanenza in Germania è un matrimonio ufficiale…”

“Benissimo… Hu-ha… Con chi vuoi sposarti? Hu-ha…”

“Ma… Con te… Viviamo assieme già da tre anni…”

“E che importa se… hu… viviamo assieme… ha… Tu conosci le mie idee sul matrimonio… Hu-ha… Ma sarà meglio che prepari qualcosa… Hu-ha… per cena. Per me un’insalata con mais bollito, un uovo fresco… Hu-ha… Prendilo dalla scatola su cui è scritto Prodotto biologico… Hu-ha… Non dimenticare lo jogurt… Hu-ha… Quello senza grassi!”

Non ascolterà fino alla fine le richieste di Greta sul suo menù: il  suo ansimare sciamanico filtra solo a tratti fino a lui, nelle orecchie gli circola lo scroscio dell’acqua della doccia, e poi anche sul corpo, semifredda, prima sul viso, poi sul petto. Davanti agli occhi si stende una foschia gradita allo sguardo e qualcosa di lontano, fino allora mai sognato, mai intuito, appare vicino, percettibile. Si sfiora il naso, gli occhi: “Questo sono io”. Ride, forte.

In seguito: Greta gli chiede perché non ha preparato la cena, lui tace, prende un pezzo di formaggio dal frigo, una birra in lattina, va nello studio, accende il computer, mordicchia il formaggio, versa dalla lattina e comincia a scrivere una richiesta all’ambasciata australiana in Germania: Vi prego di inviarmi i moduli per l’immigrazione nel Vostro paese, all’indirizzo ecc. ecc., poi si alza dal tavolo, cerca la scatola delle buste brontolando a voce alta (“in questa casa ecc. ecc.”), Greta, asciugandosi i capelli bagnati con un grande asciugamano, entra nella stanza (“perdio, eccole!”), afferra un pacchetto di buste sciolte dallo scaffale dei libri e le agita davanti ai suoi occhi (“facendo vibrare le foglie dell’albero della vita, verdescuro, nel vaso accanto alla finestra”). Lui ne prende una, in silenzio. Lei, Greta, si lamenta della giornata difficile in agenzia. “I clienti oggi hanno usato un vero e proprio repertorio di astrazioni: nessuno sa cosa vuole, che appartamento, che casa, ma tutti vogliono descrivere la loro futura abitazione. Lo spazio dell’ufficio era stracolmo di epiteti, e mi pareva che i muri anelassero a nomi concreti…”, dice lei (“si rende conto che non la ascolto”). Lui piega la lettera, la mette nella busta, scrive l’indirizzo a grandi caratteri a stampatello. Greta esce con il viso irritato (“fra un po’ dalla stanza da pranzo risuonerà musica troppo alta: questa è la modalità più frequente della protesta di Greta”). Questa volta non le dirà di abbassare il volume (“può bussare alla porta il vicino Smith”). Lui lascia la lettera sul bordo del tavolo, si alza, si protende in punta di piedi per arrivare alla grande scatola di cartone in cima allo scaffale di libri. Gli sembra che la scatola stia per scivolare dalla punta delle sue dita, ma infine riesce nel suo intento: la scatola è per terra, lui, con le forbici e un rotolo di adesivo in mano, la prepara per la carta da buttare.

Così comincia la liberazione dal passato, la negazione del presente e il pensiero del futuro di Neven O.: buttando i ritagli di giornale nella carta vecchia. Poi seguiranno i biglietti da visita, vari cataloghi (anche quelli che talvolta sfogliava dato che riguardavano il suo lavoro), le riviste tecniche (ne lascerà solo alcune, da parte).

E, così, butta tutto ciò che è di carta, lascia solo i dischetti del computer.

Poi, la notte, quasi seduto sul letto, con le mani strette dietro la testa, gettando qualche sguardo su Greta profondamente addormentata, si immagina (“già!”) di non essere a Monaco, di non essere nato in Bosnia (“ma forse non sono nato là? basta solo ripetere quel non sono?”), che in Bosnia non ci sia stata la guerra (“forse non c’è stata, ma, anche se c’è stata, se non sono nato là…?”), di aver dimenticato Greta (“non sarà difficile: noi siamo solo un’abitudine, dagli incontri serali nella stessa casa all’accoppiamento! un’abitudine, quindi, e nient’altro!”), tutto e tutti sul posto di lavoro (“perfino Johann?”), l’Auslanderamt, l’avvocato, la casa dove abita e tutti i suoi inquilini: l’ammiccante Smith, che soffre a causa di una moglie nevrotica (“pensi, Herr O., lo psicologo le consiglia di allontanarsi per qualche tempo da me! lei pensa che sia io la causa dei suoi problemi?”) la vecchia Felbert, ex cameriera di albergo, orgogliosa  di aver raggiunto la pensione (“senza un solo giorno di assenza: né per malattia, né per nessun’altra ragione: quando è morta mia madre, il funerale si è svolto di mattina, e io sono andata al turno pomeridiano!”), l’impiegato disoccupato Roth, che attende la morte di sua nonna (“perché dovrei lavorare? con l’eredità potrò vivere tranquillamente fino alla fine dei miei giorni!”), e che, quando fa l’amore con una Polacca, lo fa rumorosamente, e le sue grida a squarciagola echeggiano per le scale, la studentessa di pianoforte dai denti bianchi, Martina, che fa tre scalini alla volta, con salti leggeri da scoiattolo (“mens sana in corpore sano!”, scherza la ragazza), Asad, il rifugiato iracheno (“la mattina presto è aiuto fornaio, di giorno studente di architettura”; con lui, a volte, di solito la domenica mattina, Neven O. beve il caffè al bar vicino, mentre Achille corre a perdifiato nel parco locale, libero, senza guinzaglio; “non capisco l’essenza del benessere occidentale”, gli ha detto un giorno Asad, “non capisco questo consumismo; un proverbio arabo dice che il popolo che si abbandona alle gioie dell’abbondanza prepara la propria rovina; che ne pensi?”), alcuni connazionali che ha conosciuto (“casualmente e superficialmente? ma sempre malvolentieri!”): si ricorda soprattutto di un certo Zaim V., di una cittadina della Bosnia centrale, che giura, sempre con gli occhi annebbiati di lacrime, che in Bosnia non metterà più piede (“quando ci penso, il mio ricordo preferito sono i miei giorni di scuola, soprattutto il mio maestro Vladimir, quando ci spiegava la nascita del pensiero umano sul pianeta su cui viviamo: Ragazzi, l’uomo, in tempi antichi, tanto antichi che per noi che viviamo nel benessere del progresso socialista, sotto la mano del Partito e nel cuore di Tito, è difficile perfino immaginarsi una tale antichità del tempo, pensava che la Terra fosse piatta, come una tavola, ma si sbagliava, si sbagliava tremendamente, perché la Terra è rotonda: se partiamo da un posto e andiamo avanti, andiamo, andiamo… Che cosa succederà? La direzione del nostro viaggio ci riporterà al nostro punto di partenza…), soprattutto il suo nipotino di otto anni che una volta, in un tema dal titolo Vorrei essere…, ha scritto che vorrebbe diventare Americano (“perché gli Americani possono tutto, più di Dio”)…

E Achille (“perché anche lui appartiene al mondo che devo dimenticare”).

Si alza, accende l’abat jour, prende un libro, Trappola per topi di Agatha Christie, nell’originale inglese. La lettura gli concilia il sonno: il ritmo della frase scorre uniforme .

Prima di addormentarsi ripete, sussurrando: “Vorrei essere… Vorrei essere… Voglio diventare qualcun altro… Qualcun altro… altro… altro…”.

 

Undici aprile millenovecentonovantasette, mezzogiorno (più esattamente, ore dodici e undici minuti): una pioggia di luce inonda le pupille di Neven O. Lui, in una fitta folla di passanti, cammina per la strada di uno scrittore austriaco (“che, dice Johann, ha scritto il suo miglior romanzo sull’uomo senza qualità”), in mano porta una borsa (“di pelle scura”), nella borsa la risposta dell’ambasciata australiana, positiva. In un buffet in cui non è mai entrato prima (“adesso che qui tutto è solo momentaneità, e nient’altro, i luoghi conosciuti non hanno per me più nessun significato”), mentre mangia un sandwich con prosciutto e formaggio e beve da un grande boccale di birra, compila un questionario allegato alla risposta dell’ambasciata australiana. La mano di Neven O. è ferma, i caratteri in stampatello sono regolari, tutti uguali. Nelle caselle che, come sa, possono essere decisive per ottenere il permesso di immigrazione, nella lontana terra  promessa, scrive che la sua conoscenza del’inglese è ottima, i mezzi materiali che porterà in Australia consistono in trentacinquemila marchi tedeschi (tutti i suoi risparmi), la sua professione è designer (senza laurea, ma con un‘esperienza di anni nella ex Jugoslavia e in Germania).

Al centro delle lenti dei suoi occhiali ogni tanto brilla un riflesso di sole: va ai numerosi specchi del bar e da questi ai suoi occhi. Non gli dà fastidio, per nulla. Neven O. sorride e immagina di essere già diventato qualcun altro.

La seconda risposta, “stranamente sollecita per la prassi dell’amministrazione australiana”, arriverà all’indirizzo di Neven O. in giugno, “l’undici giugno”, nuovamente, e ora definitivamente, positiva. Entro dieci giorni passerà il controllo medico, che dimostrerà che Mr Neven O. è di sana e robusta costituzione fisica. Il primo luglio, alle undici di sera, dalla pista dell’aeroporto di Francoforte, decollerà l’aereo per Melbourne. Uno dei nomi della lista dei passeggeri sarà Neven O. La hostess dagli occhi a mandorla gli augurerà il benvenuto in inglese, lui la ringrazierà con un sorriso, e con un cenno della mano, quando vorrà dirgli la stessa cosa in tedesco, le indicherà: non è necessario.

Mentre l’aereo vola sopra il continente europeo (il vecchio paese, diranno alcuni che Neven O. conoscerà nella nuova terra, senza particolare malinconia, anzi, con freddezza, come quando si pronunciano sintagmi che ci aiutano a non rimanere senza parole, anche se in costoro i visi sono impersonali, gli oggetti dematerializzati: così potrebbe essere ogni viso, ogni oggetto), nel leggero dormiveglia scorrono le immagini dei giorni trascorsi, tutti al segno della separazione da tutti e da tutto a Monaco. Lui, Neven O., cerca di metterli in ordine, come farebbe per realizzare un manifesto con più immagini: la sera in cui comunica a Greta che se ne va, la sua sorpresa e la sua collera passeggera (“perdio, perché non me lo hai detto prima, ma solo due giorni prima della partenza?”, e poi segue l’apertura di una bottiglia di bianco vino renano, la lunga notte a letto: “un amplesso, le sue lacrime, un amplesso, i suoi rinfacci, ecc.”), la conversazione telefonica con l’avvocato (“potevamo rinnovare la richiesta per i prossimi tre mesi! ma la decisione è sua, e io l’accetto! mi può pagare con un assegno, con la carta di credito o in contanti, fa lo stesso”), l’inquietudine di Achille (“gli animali presagiscono più degli uomini ciò che sta per avvenire: il cane mangiava poco, guaiva tristemente, tutto perché avevo smesso di accarezzarlo e di parlargli?”), il mezzogiorno in una birreria con Johann (“forse fai bene? non lo so, mi hai scosso con quel tuo me ne vado laggiù, per sempre! forse il mondo in cui siamo costretti a spostarci da un posto all’altro è solo una nostra ubbia?”). Quest’ultima frase Neven O. non l’ha capita.

 

Due mesi dopo (“esattamente due mesi dopo! davvero incredibile: era di nuovo l’undici!”, si stupirà Neven O. davanti allo sguardo interrogativo del numerologo), alle undici e undici minuti, suonerà il telefono nel suo alloggio temporaneo di Melbourne:

“Mr Virgin O.? in persona?”, gorgheggia una voce dall’apparecchio, melata e gentile.

“Sì, in persona…”, fa lui colto di sorpresa. (Quel pomeriggio per la prima volta sarà chiamato con il suo nuovo nome, “in realtà è quello vecchio, di prima, perché in inglese Virgin ha lo stesso significato di Neven nella mia ormai-ex-lingua. O’ Brien mi sembrava simile, foneticamente simile, al mio ex cognome”. Il numerologo annuisce, si sfiora la barbetta giallastra, contrae e spiana le rughe sulla fronte: il caso di Mr Virgin O’ Brien, se pur spiegabile, non è semplice).

“Accettiamo entrambe le sue soluzioni grafiche per la pubblicità della casa prefabbricata, sia per il manifesto che per le riviste, speriamo di continuare a collaborare con lei… Abbiamo una nuova offerta: entro dieci giorni ci mandi un bozzetto per…”, incalza la voce dall’altra parte, lascia il numero telefonico diretto dell’agenzia pubblicitaria, chiede in che banca Mr Virgin O’ Brien tiene il suo conto, le mani di Mr Virgin O’ Brien sudano, di felicità, riesce a rimanere calmo e a dire che il suo nome in banca è diverso (“finché non otterrò la cittadinanza”). Non vede l’ora di sentire il saluto e il clic dall’altra parte. Accende il computer: sopra un campo di grano che ondeggia a un vento di tempesta, la casa prefabbricata di una ditta in rapida espansione, una casa che all’acquirente offre un godimento irripetibile, assoluta sicurezza e sonni tranquilli; dalla porta di ingresso di questa casa-né-lontano-dalla-terra-né-vicino-al-cielo, si riversanocascate azzurre. Il cielo è puro, biancastro, con una nuvoletta cotonosa sopra il camino della casa. (Maurice Vlaminck, il cui dipinto di un campo di grano è stato stilizzato da  Mr Virgin O’ Brien per questo bozzetto grafico, a suo tempo, dicono, voleva collegare i movimenti della natura con i suoi, dicono, genuini movimenti interiori, e quindi, dicono, applicava sulla tela, con ampie pennellate e senza mescolarli, i colori direttamente dai tubetti.  Mr Virgin O’ Brien ha eliminato la mossa, livida, azzurrità del cielo di Vlaminck, dando alle spighe rosso-fiammeggianti un colore più chiaro, giallo-solare).

Da allora il corso della vita di  Mr Virgin O’ Brien cambia (è vero, quel nome e cognome saranno ufficializzati il giorno in cui otterrà la cittadinanza autraliana, “davvero incredibile, era il ventidue giugno millenovecentonovantanove, ventidue, si sa, diviso due fa undici”): quell’agenzia e alcune altre pagano bene il suo lavoro, lui si stacca del tutto dal suo sponsor, un’associazione di pittori, scultori, designer, che lo ha moralmente sostenuto nei suoi primi passi nel nuovo paese, conosce molte persone nel campo della pubblicità, si allontana del tutto da ciò che, sia pur in minima parte, gli possa ricordare l’Europa, soprattutto la sua zona sudorientale, balcanica (“è vero, a Melbourne sente spesso quella lingua, per strada, nei negozi, in spiaggia, perché, si sa, in Australia ci sono molti Croati, Serbi, Sloveni, Macedoni, Bosniaci di tutte tre le etnie, ma lui,  Mr Virgin O’ Brien, quando sente quella lingua, si ritira in se stesso, “come una chiocciola nella sua casetta”) e, inoltre, si allontanerà dalla grande città: comprerà una casa (“col mutuo”), una villa alla periferia di F., una delle città satelliti di Melbourne, sulla riva orientale del golfo di Phillip, “su una collinetta le cui pendici scendono dolcemente verso le sponde dell’insenatura”, quella stessa estate comincerà a vivere con una certa Adelina P. (“anche in questo caso fuori dalla convenzione matrimoniale, ma adesso è diverso”), un’ex modella, ora proprietaria di un’agenzia matrimoniale (“vivere senza molte domande reciproche, sempre con risposte brevi”): per lei lui è un Sudafricano bianco, di padre irlandese e di madre montenegrina, “senza alcun legame con il paese paterno o materno”, che si è trasferito in Australia “perché qui tutto è più vasto, più aperto alle iniziative nel mio lavoro”; per lui lei è una donna nel cui sangue si mescolano la razza bianca, gialla e nera, “per cui in lei non c’è alcuno stupore per il mio immaginario sangue misto iro-montenegrino”, lei, “neppure in sogno” potrebbe comprendere che cosa è successo e che cosa succede nei Balcani, soprattutto per ciò che riguarda le differenze religiose e nazionali, dato che il paese in cui è nata “è qualcosa di diverso, per nulla paragonabile alla nostra polveriera”, una donna che “sì, certo, porta i suoi anni maturi talvolta con nervosismo”, alle cui spalle c’è un passato di donna famosa: foto sulle copertine dei giornali di moda, spot televisivi, sfilate, ma anche “alcuni anni di crisi in cui si intrecciano la dipendenza dalla droga e dall’alcool”; le sue insoddisfazioni sono momentanee e non riguardano mai lui, il suo nuovo compagno (“no, noi non ci amiamo, ma ci capiamo, non è vero, Virgin?”); lui a questa affermazione annuisce (“sorrido perfino, perché no?”), gli piace che lei, Adelina P., sappia anche tacere (“comunque, spesso discute con me, dei miei lavori: tempo fa non le è piaciuta la mia stilizzazione di una Testa di Brancusi, che avevo messo su certi guanti da sci, perché non c’era niente di vitale!”) e che con lui, la sera, davanti alla casa, dopo aver spento il cellulare, ascolti l’alta marea che sale, “l’oceano-orologio che spumeggiante conta le onde”, e contempli “il tremolare di un’infinità di luci sul dito del golfo”.

Adelina è un’appassionata nuotatrice notturna. Lui (“talvolta”) le fa compagnia, anche se non gli piace l’acqua fredda dell’oceano di notte (“e ancor meno quella profondità, sotto di me, in cui talvolta brilla qualcosa di inconcepibile, sconosciuto, che mi fa tremare e mi spinge a nuotare subito a riva”). Preferisce rimanere sulla spiaggia, a osservare come da lei scivola giù l’accappatoio: prima appaiono le spalle gracili di Adelina, poi l’arco della sua vita, il suo didietro infantilmente minuto, (“sederino-bottoncino, le dico”), le gambe e i piedi snelli che si lasciano dietro una traccia sulla sabbia, che finisce con un secco slap-slap-slap dove si tocca e un cupo sc-sc-sc-bu-u-c del corpo nell’acqua più profonda.

 

Una volta, un po’ perplesso per i sogni che quell’estate si ripeteranno, in cui, come uno dei leitmotiv, appare un calendario, normale, come quelli che si ricevono con il proprio giornale alla fine dell’anno (“una colonna verticale di numeri, niente di più”), deciderà di prendere un appuntamento con un noto numerologo.

“Mercoledì primo settembre, alle undici”, ha proposto il numerologo al telefono.

“Va bene”, ha risposto  Mr Virgin O’ Brien.

All’ora stabilita  Mr Virgin O’ Brien bussa puntuale alla porta dell’ufficio del numerologo. Mentre si stringono la mano, lui osserva l’orologio sul polso dell’esperto: ore undici e un minuto…

(Dieci minuti più tardi);

“Mi ha raccontato tutto?”, gli chiede il numerologo, ammiccando con un occhio.

“Ma… nel complesso… penso di sì”, risponde Mr Virgin O’ Brien, che, questa volta, non ha ripetuto la sua immaginaria storia sudafricana, ma ha raccontato (“in breve, altrimenti come sarebbe stato possibile?”) quella balcanico-tedesca e, alla risposta (“penso di sì”) la gola comincia a contrarsi, la voce, da sé, ad abbassarsi di un’ottava.

“Va bene… Se lei afferma che mi ha raccontato tutto, che i numeri undici e uno nella sua vita compaiono più spesso del solito, le posso offrire la mia spiegazione, con cui non è necessario che lei sia d’accordo, come forse non sarebbero d’accordo alcuni, o forse anche molti, dei miei colleghi di quest’arte di interpretazione dei numeri, che si basa sulla mistica e la magia, ma anche sulla filosofia e la religione: nella sua vita, come nella vita di tutti gli uomini, ci sono state anche altre date importanti, ma lei ha semplicemente fatto attenzione a quelle che le sembravano più importanti delle altre. Mentalmente lei è una persona che aspirava a un grande mutamento esistenziale, e, mi sembra, ha ottenuto abbastanza di ciò che desiderava. Il numero uno è un numero eccezionale e tale è dall’antichità. In tutte le civiltà indica l’inizio e il creatore, quindi la divinità suprema nel politeismo e Dio nel monoteismo. Il numero uno è l’essenza stessa, il centro dell’universo, è indivisibile, vitale: da esso si concepisce tutto l’esistente. Nella tradizione ebraica l’uno è Adonaj, il Supremo, colui che è, nel cristianesimo è Dio padre, nell’islam è l’assoluto, sufficiente a se stesso, e… Andiamo oltre, in Cina: l’uno è la monade, jang, il maschile, il celeste. Nel taoismo si dice: dal tao nasce l’uno, dall’uno nasce il due, dal due nasce il tre, dal tre nasce tutto. Se ricordiamo gli insegnamenti pitagorici troveremo che l’uno è lo spirito da cui inizia tutto, perché l’uno è l’essenza. Del numero undici purtroppo, non posso dire niente di buono: l’undici è il peccato, la trasgressione, il rischio. Il dieci è un numero perfetto, la legge della perfezione, e quindi l’undici è la trasgressione sia della perfezione che della legge…”

Nella testa di  Mr Virgin O’ Brien si crea una grande confusione: non sa nulla di religioni, né di filosofia (“a parte qualcosa dei manuali scolastici di sociologia, al liceo artistico di Sarajevo”), e inoltre il numerologo si aggira con disinvoltura in un labirinto lessicale (“di cui ha lui stesso proiettato i corridoi”).

“Tuttavia”, continua il numerologo, “nel suo caso sono incline a definire il numero undici come un numero uno sdoppiato, che è il reale prodotto del suo forte desiderio di una nuova vita, di un nuovo inizio e…”

“Che cosa voleva dire:… inizio e… oblio?”, si chiede  Mr Virgin O’ Brien, dentro di sé.

“…  … Così. Ma mi pare che esista anche un’altra soluzione: al numero uno aggiungiamo l’undici. Avremo il numero dodici, che corriponde anche alla moltiplicazione del numero tre per il numero quattro: 3 X 4 è il segno del ciclo universale, dell’ordine spirituale e del mondo. Lo sa senz’altro: dodici sono i segni dello Zodiaco, dei mesi in un anno: sei maschili, sei femminili, dodici le ore rispettivamente del giorno e della notte, dodici i frutti dell’albero universale, dodici sono i giorni di ritorno al caos del solstizio invernale, festeggiati nei Saturnali, quando i morti ritornano, dodici i giorni del periodo prenatalizio e delle feste, e possiamo trovare festeggiamenti di dodici giorni sfogliando i libri sulla simbologia vedica, pagana e cinese; chiedete a un qualsiasi buddista quanti sono i membri del consiglio del Dalaj Lama, vi dirà che sono dodici. Se prendete in un libro appena un po’ serio sul mondo egiziano dei morti, vedrete che l’antico Egiziano credeva nelle dodici porte dell’inferno, dove Ra passa le ore notturne. Erodoto, presso i Greci, dice che l’Olimpo ha dodici dei e dee, e Esiodo parla di dodici titani. Nella tradizione ebraica dodici sono i generi dell’albero della vita, dodici le porte della città celeste, dodici i pani sul desco del Tempio, dodici le tribù di Israele e dodici i figli di Giacobbe. Nel cristianesimo sono dodici i frutti dello Spirito, nell’islam sono dodici gli imam discendenti di Alì. Presso i Celti troviamo dodici cavalieri della tavola rotonda, presso gli antichi Sumeri dodici giorni durò la tenzone fra il caos e l’universo…”, narra il numerologo. Si fermerà nell’accorgersi che le palpebre del suo cliente si stanno chiudendo.

“Viva senza timore”, gli dice al commiato e gli batte sulla spalla.

 

“Oh, sono felice che sia venuto! Sono molto onorato, Mr Takahashi, Ms Takahashi, sono felice che siate venuti, Mr White, Ms White… Buona sera a anche a lei, Mr Van Der Hacken, e a lei, Mr Rubaskin… Ms Smith, Mr Smith… Ms Zanetti, Mr Zanetti…”

Mr Virgin O’ Brien, in giacca bianca, con una cravatta a farfalla rossa, tende le labbra in un sorriso e lo mantiene stampato in faccia (“a ogni saluto ripeto la stessa cosa”), con un gesto della mano ampio e disinvolto indica agli ospiti del party il centro del giardino in cui, bagnato dalle luci dei faretti da giardino, spruzza verso l’alto, come se volesse toccare il cielo notturno sopra il golfo di Phillip, uno zampillo circondato da scintillanti massi di granito bagnato, su cui, come macchie scuro-verdastre, cresce qua e là del muschio; la mano di Mr Virgin O’ Brien vuol-dire-così: su, avanzate!, verso i tavoli sistemati attorno alla fontana, dove come scintille brillano calici a stelo, i colli allungati di bottiglie di scelti vini bianchi francesi, gli orli dei piatti ovali di rostfrei su cui sono distese rugiadose fettine di salmone affumicato tagliate sottili, biancheggia la crosta del brie, brillano, come di vetro, olive violette di Kalamata, accanto ai tavoli tre camerieri (“anch’essi, naturalmente, in camicia bianca, anche loro, naturalmente, con cravatte a farfalla, ma nere, e, a differenza dei miei, che sono blu scuro, in pantaloni di velluto verde”), ai cui piedi arrivano le ombre degli alberi del giardino, viola come il mare di notte, fra cui si insinua e aleggia il fumo della griglia, dietro alla quale, accanto alla non grande piscina, da cui si stende lo sguardo sulla porta aperta del grande garage (“in cui, sotto le luci accese, sfavilla il mio chrysler voyager, argento metallico come squame di pesce”), sta l’addetto alla griglia, un vecchio aborigeno (“con in testa un berretto da cuoco bianco niveo e un grembiule stretto attorno alla vita”) e si affacenda calmo intorno alla griglia (“con movimenti incredibilmente misurati, senza alcuna fretta”).

A Mr Virgin sembra ad un tratto che si arrestino in aria le cortesi parole del suo benvenuto, che corrispondono piattamente alle analoghe risposte degli ospiti, e che pigramente, “come liane sottili” scendano verso la soffice e satinata copertura erbacea del giardino e scompaiano fra i fitti fili d’erba.

“È per la stanchezza, solo per la stanchezza, solo per la stanchezza…”, ripete dentro di sé  Mr Virgin O’ Brien, scoprendo ad un tratto in quella ripetizione della possibile scusa per quella strana allucinazione acustico-visuale ciò che, secondo lui, potrebbe essere il mistero della preghiera (“e questo lo devo pensare proprio io, che non ho mai pregato!”).

Il giardino si riempie di ospiti. (Quando ha comprato la villa, a Mr Virgin è piaciuto soprattutto il giardino: in esso non c’era nessun albero, nessun cespuglio, nessun fiore che avrebbe potuto ricordargli il vecchio paese, “queste piante non ci sono in Bosnia, e probabilmente in nessun’altra zona, ”. Quel far ricordare non è riuscito neppure alle tre palme nane, anche se la palma è la tipica decorazione dei lungomari adriatici.  Mr Virgin O’ Brien, quando era Neven O., in un altro, diverso, tempo, villeggiava volentieri sull’Adriatico, soprattutto a Dubrovnik, dove, da studente dell’Accademia di Belle Arti di Sarajevo, che, in realtà, non aveva mai finito, dipingeva a matita, pastelli e tempera “le barche del porto, le palme sulla riva e l’inevitabile mare sullo sfondo”, e questo si vendeva bene ai turisti, soprattutto stranieri, ma lui allontana da sé anche questo, come tutti gli altri ricordi. Così, la sera prima di questo party, ha sognato Ivan S., suo compagno al liceo artistico, che aveva molto talento nello scrivere, e che nei compiti di lettere non voleva mai scrivere sul tema assegnato, ma sempre su uno suo, liberamente, in modo degno di un uomo che pensa e sente, perché questo è alla base di ogni letteratura che è davvero letteratura, se non lo sono il pensiero e il sentimento che devono aprire porte finora raramente o mai aperte. In classe, in una luce primaverile (“la sentivo, batteva sulle pupille, come se non fosse un sogno”), Ivan S. legge una sua poesia, Ombre. Pallido, con le guance arrossate, i peli radi della prima barba, guardando solo di sfuggita il suo quaderno, con la voce un po’ incrinata ma profonda del fumatore incallito, recita: Ti nascondi, fuggi, ma verrà / Il giorno in cui parleranno / Loro / Le ombre / Forse sarà notte, è lo stesso / Ancor meglio / … Non ha ascoltato la poesia fino in fondo, nel sogno. “Solo l’indomani mi accorgerò dell’anacronismo: il suo libro di poesie Ivan S. lo pubblicherà molto più tardi. Ogni sogno ha i suoi motivi interni? Anche questo è un pensiero di Ivan?”. Era sudato, il cuore gli batteva all’impazzata. Lei, Adelina, dormiva tranquillamente. Si era alzato, aveva aperto la finestra, per respirare. Il giardino era immerso nei raggi lattei della luna immobile, “come nei film dell’orrore di serie B”. Dall’oceano neppure un suono.

Adelina gli si avvicina e sussurra, senza che gli altri se ne accorgano, sorridente, “con addosso un famoso profumo che un tempo aveva pubblicizzato”:

“Virgin, è ora…”

“Ora? Per che cosa?”, risponde lui, sonnambulicamente assente.

“Ma… di brindare agli ospiti…”, dice confusa Adelina.

Poi, tutto si svolge come nei party precedenti, in modo sterile: passeggia con una o due persone per il giardino, con il bicchiere in mano, parla di tante cose, “con un sorriso- maschera sul viso”, all’ombra degli alberi, sull’erba soffice, sul vialetto di pietra fra la casa e la piscina. Le conversazioni sono quelle usuali, convenzionali: si parla di lavoro (“lavoro, lavoro, lavoro…”), di un recente naufragio avvenuto fra la Nuova Zelanda e l’Indonesia, della situazione a Timor Est, delle azioni di una famosa agenzia di moda, di Nostradamus, delle località scelte per festeggiare il duemila, “di molto e di niente”.

“Puoi chiamare gli invitati…”, gli sussurra lei.

Quella mattina si sono messi d’accordo che lui, quando la carne e la verdura sulla griglia sono pronti, si posizionerà accanto alla griglia e, proprio come non molto tempo prima ha fatto Mr Takahashi in un trattenimento (a Mr Virgin è improvvisamente venuta in mente la possibile traduzione della parola inglese party) nel suo giardino, servirà gli ospiti.

Ed ecco… La griglia fuma ancora, un venticello leggero spinge il fumo negli occhi e sul viso di Mr Virgin. Il vecchio aborigeno vuole aiutarlo, ma Mr Virgin, spiegandogli che può riposare, rinfrescarsi con qualcosa da bere (“serviti liberamente, vecchio mio, anche di cibo, senz’altro”), prende le posate adatte e invita a voce alta gli ospiti ad avvicinarsi alla griglia. Il vecchio, stringendosi nelle spalle, “si guarda esitante in giro”, con passo dondolante si accosta al tavolo delle bevande, assaggia un po’ di tutto quanto è rimasto. Poi torna con un bicchiere di vino in mano, e si sceglie un posto, con il viso in ombra, in piedi, a un paio di passi dietro a Mr Virgin. Lui, Mr Virgin, in seguito, quando si guarderà alle spalle, ad un certo punto, pur sentendo il calore crescente dell’aria umida, per cui sentirà il desiderio di liberarsi dei vestiti e di correre verso l’oceano (“nudo come una divinità degli indigeni della terra promessa”), proverà un brivido di freddo causato dal volto del vecchio (“così simile al viso dello Spirito dei morti che veglia di Gauguin”).

A Mr Virgin comincia a dolere la testa. Il dolore, all’inizio intermittente e mobile fra la radice del naso e il centro dell’osso frontale, si sposta verso l’interno e si ferma, immobile, sotto la calotta cranica, provocando a tratti una leggera vertigine, per cui Mr Virgin non si arrischia a guardare in alto, verso il globo lunare, né in basso, verso le punte delle sue scarpe: “Se guardo in alto, forse mi staccherò dal terreno e scomparirò, in alto, lassù, e se guardo in basso, chissà? Forse scomparirò sotto terra?” Attraverso il fumo sempre più fitto della griglia scorge il viso rosso e gonfio di Mr Rubaskin, che gli dice qualcosa, ma lui, Mr Virgin, non capisce. Il piatto che il suo ospite tiene in mano emana una strana, pallida luminosità. Cerca di sorridergli, di guardarlo in viso, ma quel viso davanti a lui è un altro, per nulla simile al viso di Mr Rubaskin, nipote di un grande possidente pietroburghese della Russia prerivoluzionaria, emigrato a suo tempo prima Londra, poi in Australia.

Davanti a Mr Virgin sta suo padre, la barba lunga, scalzo, con un cappello di paglia, in maglietta da marinaio a righe bianche e blu e bermuda di tela scolorita, con una canna da pesca in una mano e alcuni cefali infilati su un rametto di salice nell’altra, proprio come nell’ultima foto che manderà al figlio da quella sua isoletta natia, nel mezzo dell’Adriatico, dove era tornato un anno prima dell’inizio di quella cosa, prima in Croazia, poi in Bosnia (“ritirarsi, diceva, nel profumo di mare, di resina , dell’orticello coltivato con le proprie mani, del pesce pescato con le proprie mani e della polvere dei vecchi sentieri, si addice, a un uomo dopo tutte le storie e le ideologie, le verità e gli errori, gli entusiasmi e le delusioni, come se avesse intuito, prima di tanti, e di me, naturalmente, che quella cosa sarebbe accaduta di nuovo, che avremmo, di nuovo, ripetuto le stesse vecchie idiozie della nostra terra e della legge, da noi invincibile, del sangue, proprio quando avevamo costruito da soli e creato qualcosa, forse non la cosa migliore, ma, perdio, neppure la peggiore di questo mondo, ma noi perdiamo la testa appena riusciamo ad avere due mutande sul culo, un paio per la messa, l’altro per ogni giorno; io ho partecipato a sette azioni di lavoro collettivo, da Bitola[vi] a Zidani Most[vii], e anche a quella per la strada della Fratellanza e dell’Unità, e adesso non posso stare a guardare come si dà addosso e si distrugge, io dico in nome della stupidità e dell’ignoranza, quel po’ di benessere che verrà sfruttato dallo straniero, peggio per noi stupidi, come se di sangue non ne avessimo mai abbastanza, per tutti su questo pezzettino di pianeta, che Dio ci aiuti, o Dio! O, insensato sangue jugoslavo di merda, povero te!”).

In Mr Virgin O’ Brien cresce lo stupore: lui, Mr Virgin O’ Brien, non si trova più nel suo giardino, ma nell’orto di suo padre, minuscolo, su quella lontana isoletta (“in mezzo al mare più azzurro del mondo”): sotto il fascio di luce dagli scalini davanti alla casetta di pietra si stende l’orticello a tre terrazzamenti, fra le ombre notturne balenano i grossi frutti del pomodoro maturo e delle nere melanzane, le foglie della bieta e dei cavoli, le foglioline di prezzemolo e di sedano (l’aglio e la cipolla sono già intrecciati, sotto la gronda della casetta), “in lontananza l’oscurità del mare, le lampade ammiccanti dei piccoli pescherecci, e, più in là, il campo vibrante delle luci dei paesi dell’isola abitata più vicina”.

“Non scrivi, eh? Almeno una volta: sono arrivato e sto bene…”, gli dice il padre, ma non molto in collera. (“Mio padre, subito dopo la morte di mia madre, nell’estate dell’ottantotto, è ritornato improvvisamente al suo dialetto dalmata, come se fosse stato svegliato da qualcosa di ineluttabile, ma finora respinto: quel qualcosa era la morte della mamma? o il presentimento che non aveva più nulla da cercare in Bosnia, a M.? ero io l’unico legame rimasto? troppo debole per legarlo per sempre, troppo forte per permettergli di allontanarsi del tutto dalla regione in cui aveva trascorso la maggior parte della sua vita?”).

“Eh, la tua Australia! Va bene, va bene…”

“Ma, papà, ti avevo pur fatto sapere che a M. mi avevano mandato a scavare trincee, potevo morire, come molti altri. Tu non sai che manicomio era quello. Mi hanno mobilitato, per strada: Marsch al fronte, col fucile e la vanga in mano, figlio di madre traditrice, dobbiamo noi morire per te, eh? Ho speso fino all’ultimo dinaro per tirarmi fuori da quel vicolo cieco…”, si giustifica Mr Virgin.

“Va bene… Non hai fatto male, con gli idioti è meglio non scherzare…”, dice il padre conciliante, ma ad un tratto si adira. “Ma perché hai cambiato nome, asino? Che cosa non andava nel tuo? Te l’ha dato tua madre, ahi, ahi, com’era felice”, dice il padre.

Lui, Mr Virgin O’ Brien, abbassa la testa.

“Eh, che asino, che asino…”

“Ma papà, tu non sei…?… non sei…?”, chiede al pescatore con il cappello di paglia.

“Morto? Sì che lo sono, e allora?”, risponde, attraverso il fumo sempre più fitto, suo padre. “Avevo pregato quel Jurina, ti ricordi?, di avvisarti, quando già sapevo che suonava la mia ultima ora… Hai ricevuto la lettera da Jurina, eh?”

“Sì”, dice Mr Virgin, “La lettera è arrivata…”

“Lo sapevo, sapevo che di Jurina uno poteva fidarsi… Eh, era a portata di mano, anche lui un vecchio ceppo come me, i figli in giro per il mondo… Ma dimmi, lì da voi c’è abbastanza pesce? Ce n’è, dirai, lo so, ma questi qui sono di questo mare. Un uomo non può avere due mari al mondo”.

“Non può…”, Mr Virgin O’ Brien sente il suo sussurro.

“Ti lascio questi cefali, sono dolci come se fossero del mar del paradiso…”

L’immagine cambia, in un istante: Mr Virgin O’ Brien è di nuovo nel suo giardino, quello australiano. Vede il pescatore che lascia i cefali sull’erba e scompare. Mr Rubaskin (“lui non parla russo, lo sapeva un po’ da piccolo, ma l’ha dimenticato”) chiede solo della carne e gli chiede come si sente.

“Bene…”, dice Mr Virgin, serve Mr Rubaskin, sorride perfino, per un attimo, ma il dolore in testa non fa che aumentare, sente un ronzio sempre più forte nelle orecchie. Vorrebbe coprirsi le orecchie con le mani, ma si ricorda del quadro di quel Norvegese e comincia a sentire una paura sempre più forte: “Se lo faccio, mi sfuggirà, inarrestabile, un grido!”.

Con lo sguardo cerca quel posto, sull’erba, con i cefali.

“Solo erba, e nient’altro…”

Davanti a lui c’è Ms Salazar, ma solo per breve tempo.

“Preoccupazione mia, come ti trovi interrastraniera?”, gli dice la donna avvolta nel grande scialle di lana (“perché incolore?”), passando per il giardino a lui ben noto, cosparso dalle foglie secche degli alberi da frutto e del grande castagno accanto allo steccato di legno. Sul giardino comincia a spirare un fresco vento autunnale. La donna si china a raccogliere una grande zucca giallastra. Quando si risolleva, lui, Mr Virgin, la riconoscerà: è sua madre, nel giardino dei suoi genitori, in una provincia serba, in cui, tanto tempo fa, ancora nel secolo scorso, è nato il narratore che, prima di morire, dirà: Tutto impallidisce, così l’amore come l’amicizia.

“Come sai dove sono, mamma?”, gli sfugge, con sofferenza. E sente che le gambe non lo sostengono più. “Forse sono sospeso? Ma, mio Dio, in mezzo a cosa?”

La madre non gli risponde, ripulisce la zucca dalle foglie, umide, aderenti alla buccia, scrolla la testa e si avvia verso casa (“la sua casa natale, da cui partirà, giovane maestra, per la Bosnia, conoscerà mio padre e…”)

“Ho freddo…”, dice a sua madre. “Mi senti?”

La madre si ferma. La sua voce, un po’ rauca (“doveva sempre gridare per superare il fracasso dei bambini!”), arriva fino a lui, ma da una inconcepibile lontananza: “Non dimenticare di raccogliere le castagne…”

“Ho sentito male? Lei, mia madre, mi ha chiesto: Sei felice, almeno un po’? O mi è solo sembrato? E anche: Vedo un mucchio di gente che gironzola per il tuo giardino, ma hai un amico fra loro?

 Mr Virgin ascolta il frusciare delle foglie sotto i suoi piedi e con lo sguardo cerca il castagno, ma davanti a lui si stende di nuovo il suo giardino, il grande albero di sequoia in fondo al suo giardino (“naturalmente, australiano”) e vede il viso imbarazzato di Ms Salazar, cosparso di macchiette rosee (“soffre di un’allergia incurabile, di tipo nervoso”).

“In che lingua parlava? Non ho capito niente…”, dice Ms Salazar, e lo prega di metterle nel piatto solo verdura. “Niente carne, grazie…”

Arrivano, passeggiando lentamente, gli altri invitati.

“Non mi riconosci?”, Mr Virgin sente una voce, ma non vede nessuno davanti a sé.

“Chi sei? Non ti vedo”, dice, un po’ teso, strofinandosi gli occhi e le tempie.

“Non importa se non mi vedi, in compenso io vedo te. Eppoi, voglio risparmiarti: se mi vedessi, ti verrebbe male. Lo so: non è il caso di mettere troppo in agitazione gli altri a casa loro. Forse dietro a me resterebbero tracce di sangue, e mi sembra che neppure a questi signori farebbe piacere vedermi… I signori sono uguali dappertutto: hanno orrore del sangue davanti ai loro occhi, ma non smettono di provocarlo in tutte le parti del mondo…”

“Armonica?”, dice a mezza voce Mr Virgin, ricordandosi del nomignolo del giovane con cui ha passato tre mesi di guerra in Bosnia, con cui (“nelle lunghe notti”) progettava come scappare dal fronte.

“Sì, sono io…”, dice piano la voce, e continua, come se avesse intuito il corso dei pensieri del suo ex compagno di guerra. “I progetti li facevamo insieme, ma tu se la sei svignata senza di me”.

“Aspetta…”, dice Mr Virgin, “È successo così…”

“Aspettare?”, gli chiede la voce, “Se sapessi quanto tempo ho davanti a me, useresti un verbo più adatto!”

“È stato così: soldi per corrompere tutta la catena di persone non ce n’erano per tutti e due. Il nostro superiore, solo il giorno prima della data fissata, ha chiesto una cifra doppia. E il nostro contatto ha preteso di più, e anche quel camionista, per non parlare di quelli che dovevano portare i documenti falsificati…”, si affretta a spiegare Mr Virgin.

“Senti la tua voce?”

“Certo che la sento…”

“Gorgoglia come un torrente… Come se volessi lavar via qualcosa”, dice, con una punta di ironia, quella voce.

“È stato così e… Tu te ne sei andato… Era il dieci agosto del novantadue, il tuo e mio ottantanovesimo giorno in uniforme… Veramente solo il mio, perché tu eri già sulla strada della salvezza. Non mi hai aspettato. Mi mancavano ancora solo cinquecento marchi…”

“Sei riuscito a procurarteli?”

“Sì, dopo…”

“Quando dopo?”, si agita Mr Virgin. “Quando?”

“In settembre…”, dice piano la voce. “Ma tutto era cambiato: mi avevano mandato in un’altra unità, non sono riuscito a ristabilire il contatto con quei tipi e… Non sapevo dov’eri, se eri arrivato in Germania… E così, fino alla prima neve…”

“Perché fino alla prima neve?”, dice piano Mr Virgin.

“Così, semplicemente, fino alla prima neve. Vedo che prima capivi molto meglio…”, dice con rimprovero la voce. “Hai una sigaretta?”

“No, non fumo più… Ma posso chiederla agli altri…”

“No, ne volevo solo una, da te… come una volta, quando mi dicevi che avevi orrore della guerra e che tutto quello che stava succedendo non aveva senso, che avevi paura, e non solo della morte, ma anche di finire con il viso nel fango. E che bisognava scappare…”

“Era tanto tempo fa…”, dice Mr Virgin.

“Finalmente si sente qualcosa di vero nella nostra conversazione…”, dice con un sospiro la voce.

Qualcosa di vero?”

Ma la voce non risponde. Mr Virgin guarda attorno a sé. Da lontano (“dall’oceano?”) gli arrivano i suoni di un’armonica a bocca: The House of the Rising Sun

“E a me, pensi a me, qualche volta?”, sente una sonora voce cinguettante e il tenue gemito del ramo del vecchio melo nell’orto (“si dovrebbe dire: gardino”) del vicino Muris, da cui pende un’altalena. Sull’altalena lei, Mirha, la nipote di Muris, di Mostar, una ragazzina (“come tanto tempo fa”). Dal folto delle foglie e dei rami filtrano i raggi del sole, si diffondono sull’erba rada (“come lucciole di giorno!”, scompaiono e appaiono di nuovo nei corti capelli castano scuro di Mirha, punteggiano le sue braccia e le gambe nude.

“Ehi, tu, serioso! Posso vedere che cosa disegni?”, gli grida lei da dietro il basso steccato, con la voce ora dall’alto, come tracciasse l’intero cerchio con l’altalena, ora dal basso, e lui le vede solo la fronte e gli occhi che scintillano, azzurri.

Lui tace, come se non avesse sentito, si immerge nel disegno. Sul disegno: lei, Mirha.

Aveva sedici anni, allora. Lei, Mirha, quindici. Il giorno seguente, prima di sera, si farà coraggio, salterà lo steccato, starà accanto a lei, le dirà come si chiama (“no, non ho balbettato, come a scuola, quando non sapevo la lezione!”). Lei gli porgerà la mano (“solo per un attimo, il suo palmo era caldo e umido”) e, malgrado tutto sorpresa, balbetterà nel dire il suo nome. La sera dopo (“c’erano tante lucciole, come mai prima”), lui la bacerà, sotto il melo (“lo stesso melo, senza sapere se era meglio abbracciarla intorno alla vita o al collo, e così le ho solo sfiorato una spalla”).

“Non voglio”, si ribella Mirha e arretra di un paio di passi, “hai chiuso gli occhi”;

“Non è vero”, dice lui.

“Sì, è vero! Ti ho visto! Vuol dire che pensavi a un’altra, e non a me!”

“No!”

“Sì!”

“Ecco, vedi che non è vero…”, dice lui, avvicinandosi a lei. (“È seguito il mio secondo primo bacio, e il suo secondo primo bacio. Quante lucciole, quante lucciole!”);

Il giardino del vicino Muris è avvolto dalla nebbia, fitta, più fitta di tutte quelle che Mr Virgin ha mai visto nelle conche della Bosnia. Né una voce, né un suono. Mr Virgin vuole chiedere a Mirha dov’è ora, se vive ancora a Mostar, ma lo spaventa l’improvviso silenzio sordo che lo circonda. Eppure, c’è una voce: qualcuno chiede solo un cheeseburger e un po' di insalata: “Se possibile, solo ravanelli…”

“Solo una volta ti sei fatto vivo, un messaggio laconico sulla segreteria telefonica… Non hai lasciato né l’indirizzo, né il numero di telefono. Perché, amico mio?”, gli chiede Johann. Lui, Mr Virgin vede Johann e se stesso in un parco di Monaco, su una panchina, davanti a una fontana con il laghetto e i cigni (“uccelli obbligatori di un mondo perfetto: per questo non possono mancare neppure le decorazioni!”, direbbe Johann).

“Era sufficiente. Che cosa dovevo dirti?”, gli chiede Mr Virgin.

“Su, non essere sarcastico! Non mi aspettavo certo, lo sai anche tu, che mi fossi grato per qualcosa. Se qualche volta ti ho aiutato, è stato solo perché ti potevo aiutare. L’uomo non può fare l’impossibile, solo il possibile…”, gli dice calmo Johann. Ha conosciuto Johann per caso, in una birreria, in periferia. Allora Mr Virgin lavorava in nero da un grasso Montenegrino: undici-dodici ore fra la polvere e i mucchi di materiali da costruzione per case da ristrutturare, assieme a connazionali tristi e taciturni, birra e salsiccia a mezzogiorno (“non vorreste gradire, signori, allodole arrosto, eh?”, li sbeffeggiava regolamente il Grassone), fra urla continue: figli di madre fannullona; non c’è pane senza lavoro, sporcaccioni balcanici; non siete altro che scimmioni; ecc. ecc. Allora parlava poco il tedesco, dialogavano in inglese. Johann gli aveva consigliato di iscriversi a un corso di tedesco, gli aveva dato il suo indirizzo. “Così è cominciata la mia resurrezione di designer…”

“Sì, Johann, ti sono grato… Perché non dovrei esserlo!”

“Non dire stronzate! Del resto - anch’io dovrei essere grato a te. Sarei rimasto un piccolo designer men che mediocre, a giocherellare continuamente con cubi, cilindri, piramidi ecc. ecc., se non avessi visto come lavori tu. In realtà, entrambi siamo dei ladri…”

“Perché ladri?”, si stupisce Mr Virgin.

“Che altro possono essere quelli che per la pubblicità usano quanto è già stato realizzato in scultura, architettura e pittura? Non siamo né Raffaello, né Le Corbuser, né Picasso, né Dührer, né Rodin, né… e neppure dei semplici artisti. Quindi, cosa siamo? Ladri di cose già fatte, volgarizzatori d’arte a scopi commerciali, nient’altro!”

“No, non sono d’accordo! In questo modo l’arte arriva al centro della vita, esposta a ogni sguardo…”, si oppone Mr Virgin.

“Di quale vita?”, adesso grida ormai Johann… “Tu chiami vita questo accontentarsi degli oggetti, questa dipendenza di schiavi dallo standard esistenziale?”

“Forse è così come dici tu, ma che cosa posso fare perché sia diverso? Tutto è tremendamente complicato…”, dice conciliante Mr Virgin.

“Dici sciocchezze, pure sciocchezze conformiste! E inoltre, ecco, dimmi che cosa sai di queste persone intorno a te?”, non molla Johann.

“Ma… So… So qualcosa…” balbetta Mr Virgin.

“Ma che cosa sai veramente di loro?”

“Ma… Poco… So come si chiamano, che lavoro fanno, che hobby hanno… So che Mr Rubaskin è di origine russa, che Ms Salazar soffre di una rara allergia;”

“Ma no! Sai tutto questo? E allora?”, grida Johann, sarcastico.

“E così… anche questo è troppo complicato… Ma anche in Germania sapevo poco degli altri… Sapevo più cose su di te…”

“Anch’io sapevo cose sul tuo conto, ma mi eri più caro quando parlavi di quando un tempo tu stesso dipingevi, in modo mediocre, ma quello eri tu, quello vero. Neven O., pittore mediocre, ma con la soddisfazione di un lavoro indipendente”.

“Non lo so… è difficile pensare a questo…”

“Hai sbagliato… Sei fuggito da un lato dell’Occidente per arrivare all’altro lato dell’Occidente, tu in realtà non sei fuggito affatto…”, dice Johann, scoppiando a ridere.

“Forse…”

Tacciono. Accanto ai loro piedi i piccioni tubano mansueti, cercano semi.

“Mi sono licenziato, il mio lavoro non mi interessa più…”, Johann interrompe il silenzio.

A Mr Virgin sembra che accanto ai loro passi lo studente iracheno, Asad, con Achille al guinzaglio, che agitando allegramente la coda, si avvicina alla loro panchina, annusa le loro scarpe e poi si mette a parlare con voce umana: “Hai dimenticato anche me?”

Lui chiude gli occhi, vuole sostenersi a qualcosa. Sente una mano nella sua, apre gli occhi e vede il vialetto che porta alla casa.

“Mr Virgin deve riposarsi un po’, solo alcuni minuti…”, sente la voce del vecchio aborigeno che lo accompagna verso la casa, lo aiuta a non inciampare sulla soglia, lo conduce nel vasto soggiorno, accende una sola lampada, gli aggiusta la poltrona ed esce, silenziosamente.

(Non ha capito bene se sia riuscito ad addormentarsi almeno per un po’, prima di vedere quella scena).

Lo sveglia un fruscio di fogli di giornale: volano per l’intera stanza, nessuno tocca terra, come se dal pavimento li respingesse una forza, un vento che li fa vorticare. Mr Virgin stende una mano, afferra una pagina, poi un’altra, una terza. È sorpreso: per la stanza volano i ritagli che durante il suo soggiorno in Germania lui tagliava dai giornali (“non solo da quelli tedeschi, ma anche dai giornali inglesi, e zagabresi, belgradesi, sarajevesi, che si vendevano in Germania”).

“Ma non vi avevo buttato via? Non vi ricordate di quella scatola di cartone? Eravate finiti nel cassonetto della CARTA DA RICICLARE!”, sussurra Mr Virgin. “Sì, sì… Vi avevo buttato via con le mie mani…”

Ma comincia a leggere i titoli e sottotitoli di alcuni ritagli: Ex Jugoslavia: 4,2 milioni di sfollati; Fame estrema nelle zone assediate della Bosnia, Bambini e vecchi senza acqua e medicinali; La biblioteca di Sarajevo in fiamme; Il Ponte Vecchio di Mostar non c’è più; “I bei villaggi bruciano bene”, testimonianza cinematografica della follia balcanica; Quale futuro per la Bosnia e Erzegovina di Dayton?; Caratteri latini e caratteri cirillici: due scritture in lotta; La scuola trilingue dell’odio in Bosnia: il nostro inviato visita le scuole bosniache, serbe e croate del paese stremato dalla guerra fratricida

“Ah, sei qui…” sente la voce di Adelina. “Stai meglio? Fra un po’ serviamo i dolci…”

Mr Virgin non ha in mano alcun ritaglio. Non volano più, e sul pavimento non ce ne sono. Si alza dalla poltrona, improvvisamente si sente meglio. Invece del dolore, in quel punto della testa c’è solo un indolenzimento.

“Quanto sono rimasto dentro?”, le chiede.

“Non lo so… Alcuni minuti… Non preoccuparti, nessuno si è accorto che non ci sei”.

“Alcuni minuti…”, ripete lui, come un’eco, vede il giardino, gli ospiti che chiacchierano. “Nessuno si è accoro che non ci sono?”

“È proprio così, e perché dovrebbero accorgersene?”, gli dice qualcuno da dietro le spalle, all’ombra di un albero (“di cui dimentico sempre il nome, perché l’ho visto per la prima volta qui; so solo che di notte, con i suoi rami radi e grossi, assomiglia a un uomo con tante braccia alzate”).

“Ivan S.?”, si stupisce Mr Virgin. In Germania era venuto a sapere, da un giornale bosniaco, che il poeta e scultore Ivan S., in un momento di cedimento nervoso, si è ucciso il cinque settembre del novantatré; aveva pubblicato un libro di poesie, Ombre, aveva avuto due personali di scultura e aveva partecipato a diverse collettive nella ex Jugoslavia. A P., la cittadina dove viveva, lo ricorderanno come persona tranquilla e attiva e come insegnante appassionato del suo lavoro.

Come un tempo, da giovane, il viso pallido di Ivan S. emana inquietudine: dagli occhi ammiccanti, dalle narici che fremono, dalle labbra inumidite ad ogni istante dalla punta della lingua.

“Anche tu hai qualcosa da dire?”, gli chiede piano Mr Virgin.

“Niente di particolare, solo questo… Se desideri ascoltare, naturalmente…”

“Parla…”

Ti nascondi, fuggi, ma verrà:

Il giorno in cui parleranno

Loro

Le ombre.

Forse sarà notte, è lo stesso,

Ancor meglio, non è vero, amico?

In un altro giardino

Coltiverai le piante del tuo oblio,

Ma lo stesso, lui verrà e dirà:

Eccoci, noi ospiti indesiderati del tuo

Ora e qui, lo sappiamo.

Ma come senza noi puoi esistere

Nel tuo perfetto giardino

Senza sapere che è il giardino

Della paura.

Solo tua?

 

Quando si sentirà la musica dagli altoparlanti e gli ospiti inizieranno a danzare, a coppie (“sull’erba soffice del mio giardino australiano”), Mr Virgin O’ Brien correrà verso i ballerini, li fisserà in viso (“come se li vedessi per la prima volta”), li sfiorerà con le dita, ciascuno a turno, dirà qualcosa, in una lingua a loro sconosciuta (“ma non vedete, in cielo, la Luna e il Sole, insieme!?”), qualcuno si metterà a ridere (“troppo forte, più forte della musica, no, non so né chi né che cosa suonava, non so, non so!”), Adelina correrà verso di lui, per sussurrargli qualcosa, ma non arriverà in tempo.

Mr Virgin O’ Brien starà in mezzo ai ballerini, con le mani sopra le orecchie, con gli occhi spalancati. Verso di lui avanzeranno due donne: una alla sua destra, in bianco, una alla sua sinistra, in nero.

 

P. S., ovvero, in vece di un epilogo: Alla fine di dicembre millenovecentonovantanove, dopo molto tempo, riceverò una lettera (che chiamerò, a mio uso, australiana) da un amico e compagno di scuola, che ormai da anni vive in quel lontano continente. Mi sono stupito (lui è uno di quei pigroni per cui è più difficile scrivere una lettera che spostare un monte con le mani); come quasi-tutti-gli-abitanti dell’epoca postmoderna della Parte Migliore e Più Bella del Pianeta, anche lui vive con il cellulare in tasca. Tanto tempo fa, a sua richiesta, gli avevo mandato un mio racconto. In seguito mi aveva telefonato diverse volte (sul mio racconto: neanche una parola). Con il suo permesso (la privacy è sacra anche sull’altro emisfero)  pubblico la sua lettera integralmente (sostituendo le parole inglesi con parole nella nostra lingua materna, naturalmente sempre con il suo permesso). Quando, alla metà di gennaio del duemila, gli amici Mariolina De Feo e Silvio Cumpeta mi proposero di scrivere un racconto sulla paura, io ce l’avevo già, sia pure non ancora scritto.

 

 

Caro amico,

 

Non pensare che abbia dimenticato il tuo racconto Sembra tutto O. K. e non pensare che mi mi sia tanto allontanato da tutto, non pensare che io non pensi; anche se la lontananza è lontananza, essa porta con sé la sua maledizione: non esiste né il tempo né il modo per poter visitare tutti i conoscenti e con loro, in diversi punti del mondo, scambiarsi le idee e ricordare giorni diversi. È molto che non leggo niente, e quando leggo (anche questo succede!), sono gialli o di libri di avventure, scritti in stile industriale: non sai chi scrive, tutti scrivono la stessa cosa (segue una succulenta imprecazione, impubblicabile, N. d. A.) Devo ammettere che mi hai fatto sudare non poco. Dici che vuoi unire il documentario, il sentimentale e il riflessivo in un unico insieme. Ma per Dio, chi vuoi che lo legga? (La tua amica, che traduce là in italiano tutte le tue cose… Alice? Come ce la fa a resistere e tenere a bada tutto quel casino di corsivi, parentesi, virgolette, caratteri in neretto, ecc.?) Qui, quando tendo l’orecchio a un’intervista con qualche scrittore, vedo che quasi tutti vogliono solo il successo, vogliono piacere, quindi essere letti, ed essere letto - non facciamo i bambini! - significa essere venduto nelle librerie, essere invitato negli studi televisivi, parlare (non ha importanza cosa dici, fondamentale è che tu sia sullo schermo, che la gente ti veda, che compri i tuoi libri, per farsi addormentare da loro). Quindi, non so che dirti del tuo racconto… È buono… Ma solo per provocare l’insonnia. Non andrai tanto avanti con cose del genere! Non penso che riuscirai mai a guadagnarti il pane non lavorando come operaio metallurgico (dammi retta: non citare questo fatto alle presentazioni dei tuoi libri, la gente si raffredda facilmente, vogliono vedere dal vivo persone importanti che fanno cose importanti). Scrivi qualcosa di più facile, di più digeribile! E come se non bastasse, anche in quella parte d’Italia ti definisci pubblicamente pacifista e collabori apertamente con loro; ogni volta che scrivi mi citi un tuo amico, un pacifista (come dici che si chiama? Pieluigi? e che fa il prete nel posto dove abiti? salutamelo, ma digli che dubito del ravvedimento umano! e che mi dispiace doverlo dire!) e un’amica, anche lei pacifista (Augusta? che critica il militarismo anche nei suoi aspetti più latenti; saluta anche lei, ma dille che si affanna inutilmente!). Senz’altro hai meno problemi di quanti ne avessi da noi, in Bosnia, dove la  legge del più forte è più palese, per nulla ambigua, e ancor meno latente: l’Occidente ha tutti gli strumenti per mostrare la violenza come una necessità interna della democrazia, le guerre come una via d’uscita storica verso il futuro, la legge del più forte come vera etica. Noi, nei Balcani, abbiamo il coltello e la negazione assoluta dell’avversario, un atavismo con cui lo annientiamo. Ma passiamo all’argomento principale:

Anche qui, prima delle grandi feste cristiane, molti vogliono essere migliori di quanto non siano, e così anche mia moglie. È perfino riuscita a convincere anche me (“meglio tardi che mai”, questa è la sua logica, “il Natale è una splendida occasione per dimostrare un volto umano”; “perché Natale non c’è tutti i giorni?”, dico io, e lei ribatte che sono incorreggibile). Con un gruppetto di volontarie e volontari protestanti, alla fine di novembre, siamo andati in una clinica psichiatrica vicino a Melbourne, a trovare i ricoverati, soprattutto coloro che nessuno visita (anche qui non è difficile liberarsi di coloro che deviano dall’unico e giusto cammino, che, ad un certo punto, perdono la capacità di ritrovarsi, di orientarsi e il desiderio di andare sempre avanti). Mia moglie mi ha subito presentato al capo della clinica come un “volontario originario dalla ex Jugoslavia“, e questo, dopo un momento di silenzio, mi ha condotto in una camera, da un paziente presso il quale, ai piedi del letto, era seduto un vecchio aborigeno. Il paziente dormiva, l’aborigeno borbottava qualcosa, percuotendo di quando in quando un bastoncino su un altro, probabilmente stava facendo un incantesimo per farlo guarire. Sai, forse ti sembrerà strano, ma non mi piace guardare gli aborigeni negli occhi. Sono così dilatati, con le pupille nere, profonde e insondabili. Questo, per fortuna, appena ha finito la sua formula magica, ha abbassato lo sguardo al pavimento e si è allontanato, fermandosi vicino alla finestra e voltandoci le spalle. “È qui già da due mesi, solo lui viene a trovarlo, mentre sua moglie, o la compagna con cui vive, solo qualche volta”, mi ha detto il direttore. Avendo capito che ero nuovo del volontariato, mi ha preso confidenzialmente per un braccio e mi ha consigliato: “Non abbia paura, non è aggressivo… Penso che mostri dei segni di miglioramento, speriamo che possa presto lasciare la clinica e ritornare nel… nel…” Mi ha un po’ seccato questo balbettio del dottore e gli ho chiesto: “In che cosa tornerà?” “Nel… Nella realtà!”, ha sbottato il dottore. (È chiaro, quindi: le cliniche non sono la realtà, e neppure la malattia è realtà, ma forse questa è una questione tremendamente difficile?) Infine, siamo tornati là quando un’infermiera è venuta a dirci che si era svegliato, aveva fatto colazione (avevo dimenticato di dirti che era un sabato mattina, ecco, vedi com’è quando si scrive di rado, soprattutto peggio per chi non è uno scrittore!). Ci hanno lasciati da soli, me e il paziente (l’aborigeno, mi dispiace, non lo conto, perché per me valeva meno di niente!) Siamo stati in silenzio per un bel po’. Io lo guardo. Anche lui me? Ma neppure per idea! Dio, cosa devo fare? Tossicchio, e lui niente. Tossicchio di nuovo, e lui niente. È seduto sul letto, come un Budda: a gambe incrociate, ma il suo viso… Come posso descrivertelo? Stretto, come scavato, color cenere, i capelli lunghi, grigi e fitti. Mi sembrava che gli anni gli avessero portato via molto (poteva avere quarantacinque anni, ma anche dieci-quindici di più, come potevo saperlo?), ma neppure un capello dalla testa.

“Sei venuto”, comincia a dire ad un tratto, in inglese. “Dimmi, dillo anche tu, di che cosa mi incolpi?”

“Io… di niente, sono venuto in visita… A salutarti! E…”, mi sono interrotto, senza sapere come continuare.

Lui ha avuto uno scatto, è saltato dal letto, ha aperto l’armadio, ha tirato fuori una lunga vestaglia e, mettendomi una mano sulla spalla, mi ha detto: “Andiamo nel parco…”

La mattina era calda (noi abbiamo un clima diverso), ma umida. Avevo paura che quella vestaglia non lo riparasse abbastanza. Ma lui stesso mi ha rassicurato, dicendo che andava a passeggiare tutte le mattine, che il panorama gli piaceva e che sperava di uscire presto dalla clinica, ma non sapeva esattamente quando. Sai, davvero non ricordo come e quando ha cominciato a raccontarmi, a pezzi e a brandelli, mescolando tre lingue: inglese, tedesco (che conosco abbastanza) e il nostro serbo-croato (o come diavolo lo chiamano adesso da noi!). È interessante che su ogni paese (Bosnia, Germania, Australia) si esprimeva in quella determinata lingua, anche se, nello stesso mezzo minuto, saltava da una all’altra alla terza.

Per prima cosa mi ha chiesto che cosa penso dei numeri, soprattutto dell’uno e dell’undici; la cosa mi ha messo terribilmente in crisi (onestamente, non ho mai riflettuto sul significato dei numeri!); poi mi ha investito con una quantità di domande, senza aspettare assolutamente le mie risposte (non so se riuscirò a elencartele tutte): sui visi bagnati dalla luce al neon, su cosa so dei problemi di digestione dei cani sentimentali, se mi piace la neve in febbraio (soprattutto quella di Monaco!), se mi danno fastidio le voci nasali, se mi piacciono le olive (quelle grandi, greche), che cosa penso dell’amore e che cosa dell’amplesso (ha citato i nomi di alcune donne, uno tedesco, uno inglese, uno nostro, dicendo che lei, Mirha, se non sbaglio, aveva quindici anni, lui sedici, quando l’ha baciata per la prima volta, e ha aggiunto che si ricorda soprattutto di un’infinità di lucciole), se ho mai tradito un amico (lui sì, in guerra: quando ha disertato, non ha aspettato l’amico con cui aveva progettato la fuga, ma di questo ti scrivo nel mio post scriptum), se so di un’isoletta lontana nell’Adriatico e di una cittadina serba, se conosco la pittura di Edvard Munch (di cui mi ha parlato diffusamente, ma a me sembra che io, la pittura, e gli strani titoli dei quadri di quel Norvegese siamo molto lontani), se esiste il furto nell’arte, che immagine ho sul mio screen saver, che cosa penso dei miei vicini e quanto so di loro (lui dei suoi vicini di Monaco sapeva solo un poco, solo briciole della loro vita, ma neppure loro sapevano molto di più su di lui; la stessa cosa si è ripetuta anche qui; poi mi ha parlato a lungo di un amico, di Monaco, poi di una sera in cui ha buttato via tutte le carte che aveva, poi di un bambino che voleva diventare Americano, perché così sarebbe diventato più forte di Dio, e in quel pensiero: diventare qualcun altro, espresso in modo ingenuo e infantile, che lui ha iniziato a mettere ossessivamente in pratica, penso abbia origine la sua malattia, che culminerà una sera, nel suo giardino, nella località di F., di cui mi ha raccontato a lungo - una situazione incredibile, guarda sotto nel mio p. s.: pensa, ha cambiato perfino il nome, per i conoscenti ha inventato una storia su un padre irlandese e una madre montenegrina, e una vita nella Repubblica Sudafricana! in questo lo ha favorito anche il suo inglese, che parla perfettamente…)

Dopo avermi chiesto se mi piace guardare il luccichio delle squame dei pesciolini di molo, improvvisamente si è fermato e si è messo a fissare la cima di una gigantesca sequoia. È rimasto così alcuni minuti, e poi ha detto: “sono stanco”.

Sono andato da lui anche altre volte. Tutto si è ripetuto, con gli stessi dettagli, ma a questi ne ha aggiunnti altri, e così ho cominciato un po’ alla volta a creare una cronologia degli avvenimenti (ipotetica, ma possibile! guarda nel p. s.).

E… così… Penso che continuerà ad andarlo a trovare, credimi, assolutamente non per curiosità, anzi, mi farà piacere se rimarremo almeno conoscenti (se non amici, chissà?), quando lascerà la clinica.

(Ah, non devo dimenticare! Pensa che cosa  mi ha detto, un giorno: Qualcuno vive in Dio, qualcuno nell’assurdo, e io volevo vivere dentro l’oblio. Che cosa ne ho avuto? Poi mi ha recitato una poesia, su delle ombre. Strana, ma chiara. Lo ho pregato di ripeterla, lentamente, e la ho trascritta. Guarda nel p. s. Alla fine, se in tutto questo caos che ti mando trovi qualche elemento un po’ meno ordinario, scrivi qualcosa, se non altro ciò che tu chiami qualcosa-come-un-racconto!);

per ora basta.

Stavo per dimenticare: Felice 2000!

Tuo…

 

(Segue un lungo p. s.).

 

Zugliano, gennaio-marzo 2000.

(Traduzione. di Alice Parmeggiani)



[i] Ufficio stranieri.

[ii] Neve.

[iii] Nevica.

[iv] Sì, nevica.

[v] Bastoncino giapponese, usato come posata.

[vi] Bitola, città della Macedonia sudoccidentale.

[vii] Zidani Most, città della Slovenia settentrionale.




Bozidar Stanisic


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