GLI UOMINI SANDWICH

Lucio Mastronardi


Ero così innamorato di Claudia, che accettai un invito a pranzo a casa sua. Mia madre, quando glielo dissi, ci rimase:
– Tuo figlio va a compromettersi e a comprometterci! gridò a mio padre, che stava in camera, a sbarbarsi. Mio padre mi chiamò.
– Figlio mio, disse, seguitando a insaponarsi, perché ci vuoi disonorare così?
E dopo un momento di silenzio:
– Figlio mio, quella relazione che hai, ci avvilisce!
Mia madre, mentre versava i gnocchi nella pentola, diceva:
– Sarai la nostra morte. Vacci pure a casa di quella ragazza. Calpesta pure questi poveri vecchi dei tuoi genitori. E mentre assaggiava il ragù, ripeteva: – Ammazzaci pure!
Mentre stavo uscendo, mio padre mi fermò.
– Pensa bene al passo che stai per fare, disse, poggiandosi alla finestra. Vedi quell’albero? Ecco, io riponevo su di te, Carluccio mio, tante speranze, quante sono le foglie di quei rami. E quelle speranze si sono ingiallite, proprio come foglie, e sono cadute ad una ad una. Le hai calpestate. Adesso ci strappi quell’unica speranza foglia che ci è rimasta. Figlio mio, perché ti vai a buttare via?
– L’unico figlio che abbiamo! sospirò mia madre, accendendo la radio.
Mio padre si sedé pesante:
– Io te l’ho detto, figlio mio. Divertiti. Ma non comprometterti mai!
– Ah, dissi, guardandolo severo, congratulazioni. Grazie per i generosi consigli.
Mio padre tacque mortificato. Uscii. Era mezzogiorno di domenica. In Piazza il passeggio era nel pieno. Passando davanti a un fioraio entrai a comprare un mazzo di rose.
Claudia abitava in Abissinia, un quartiere operaio quasi alla periferia di Vigevano. La Nuova Circonvallazione che gli passa vicino ha trasformato il quartiere. In poco tempo sono spariti vecchi stabili e sono sorte, al loro posto, delle case che hanno l’apparenza di condominii. Negozi nuovi si sono inseriti fra quelli vecchi, che sono stati quasi costretti a modernizzarsi. Claudia abitava in uno dei vecchi stabili rimasti. Sul portone mi venne una voce, da una finestra: – Viene. È qui. Butta la farina!
Nella corte, donne con teste cotonate stavano sgurando panni. Degli uomini stavano trafficando attorno a Cinquecento e Seicento. Ragazzini giocavano attorno a un trenino elettrico. Delle bambine, vestite come bambole, facevano parlare una bambola che sembrava una bambina, e che con voce belante diceva: – Mamma cambiamo il vestito. Mamma portami a scuola. Mamma voglio aiutarti...
Tutti gli sguardi si puntarono su di me. E chi è? E che vuole? E da chi va?...
Claudia mi venne incontro sulla scala. Portava una veste che squarciava; delle pianelle con risvolti di pelliccia e sfrisi in oro. Era conciata così bene, che pareva meno grassa di quanto fosse. Abitava nel fondo di una ringhiera. Ai ramini sventolavano lenzuola, mutande, biancheria intima, e cosi di gomma intimissimi. Arrivati davanti al suo uscio, lo aprì e mi cedette il passo.
– Permesso?
– Avanti per sbiesso, disse sua madre; un donnone che stava accaldata alla stufa, trusando con una mescola un pentolone di polenta.
Tina, la sorella di Claudia, stava al tavolaccio a tagliare pelle.
Claudia mi fece accomodare in una poltrona, vicino alla macchina da giuntare, e si rimise a lavorare. Paolo, il fratellino, stava preparando la tavola. Posai il mazzo sul frigorifero.
– Oh, che bei fiù. Cosa vengono? domandò la madre.
Tina, senza alzare gli occhi dal mestiere, disse il prezzo esatto del mazzo. La madre borbottò che, con quei soldi, ci stava dentro una scatola di bumbon. I fiù sono una smorbità, borbottava.
Le specchiere dei due buffè riflettevano e moltiplicavano la mia faccia, con un sorriso che, da una parte pareva una smorfia, e dall’altra parte, un ghigno. Nell’aria ronzava il motorino della macchina di Claudia. Paolo era sparito nell’altra stanza.
– Tina, dissi, come hai fatto a indovinare il prezzo?
– Il mio fidanzato li vende, rispose compiaciuta.
– Ma non lavora all’Ursus il tuo moroso?
– E intanto vende anche fiori, risposi, seguitando a lavorare.
– E dove cià il negozio?
– Ha un banchetto, vicino al cimitero!
– Ma sapete, no, cosa guadagna? disse la madre. Poco poco sono cento bolli al mese che tira su!
Tina malguardava la madre.
– Perché conti quelle balle? le bravava dietro, lo sai bene che n’inguadagna di più, ma di più d’un bel po’!
Rimase qualche momento a fissare la madre con l’aria offesa, e il punteruolo sospeso in mano.
– Non si sa mai! borbottò la madre.
Tina si rivolse a me con un sorriso stento.
– Il mio fidanzato cudisce trenta tombe di venti padroni! disse. E, uno dopo l’altro, in ordine alfabetico, nominò venti industrialotti.
– E ciascuno ci passa il mensile perché gli tenga la tomba bella e fiorita. Solo in mensili, il mio fidanzato prende...
– Come mai trenta tombe e venti...
Tina tornò a nominare sempre in ordine alfabetico gli industralotti, specificando quelli che possiedono una tomba, quelli che ne possiedono due, e quelli tre.
– E poi il mio fidanzato ha anche un banco di ceri, a socio con un operaio, seguitò Tina con voce piena di rancore.
In quella comparve Paolo imbraghettato in un abito che non finiva più.
– Sto bene? domandava, rigirandosi davanti a me.
– Benissimo.
– Mi viene ottanta mila lire! disse. Alzò un piede e lo posò su una spalliera della poltrona, dove tenevo appoggiato un gomito.
– Ti piacciono le mie scarpe?
– Ciulla il giovanotto!
– Dodici sacchi. È lama puro.
Posò il piede e alzò l’altro; rimase a contemplarsi la scarpa.
– Tina, quand’è che ti sposi? domandai, mentre Paolo stava rientrando nella stanza.
– Io mi sarei già sposata. È quellalì che fa storie, disse, indicando la madre, che, con aria polemica, agitando il mescolone, venne a sedersi vicino a me.
– State attento se ho ragione o torto, cominciò a dire. Sicché: la mia Tina ha diciannove anni...
– Diciotto prego...
– Diciannove; truffa no...
– Diciannove fra sei mesi.
La madre si mise a contare con le dita:
– Diciannove fra cinque mesi e mezzo.
– Uffa!
– Diciannove, ripeté ancora la madre. Io, fino ai sedici l’ho cresciuta. Adesso che è nel tempo che, insomma, mi rende qualchecosa, vuole sposarsi. Vi pare giusto a voi?
Io feci una smorfia che stava fra il sì il no e il mah. La madre mi indicò una fotografia in cornice, sopra il buffè, che raffigurava un omone che aveva tutta la sua faccia.
– Quello è il mio Ercolino. Lo conoscete il mio Ercolino?
– No!
– Come no? A Vigevano lo conoscono tutti, disse risentita. Cià una fabbrica di seicento para al giorno, il mio Ercolino!
– Lo conosco di vista! dissi.
La madre tirò un sospiro, come di sollievo. Volevo ben dire che conoscevate il mio Ercolino...
– Cosa ha fatto il vostro Ercolino? domandai, interessato.
La donna emise un altro paio di sospiri.
– Il mio Ercolino si era fatto mettere a posto. Viene a casa e mi fa: mamma, mi sposo. Si è sposato che non ci aveva neanche diciotto anni. Adesso, ditelo voi, cosa m’ha reso quel figlio?
– Niente, mormorai.
– Debiti. Nient’altro, disse la donna, tornando alla polenta. Per fortuna che il mio Ercolino è andato fuori bene. Ha sposato la Nives, un’operara tanto come lui. Lavoravano insieme sotto lo stesso padrone. Ci hanno dato dentro fino a che si sono fatti due fabbriche, una lei, l’altra lui.
– Qual è la più grande?
– Quella del mio Ercolino. Non c’è neanche da metterle a riva. La mia nuora ci ha sotto tre operari, mettete pure quattro con la Claudia che lavora in casa per lei; mentre il mio Ercolino ce ne ha sotto cinquanta; e un’altra cinquantina che lavorano a domicilio, ma sempre per lui.
– Una bella fabbrica! dissi.
– Dico cinquanta senza contare il mio uomo che gli fa da portiere, e fa anche lui qualcosa dentro; e senza contare il mio Paolo che lavora sotto suo fratello. Paolo, disaci un po’ cosa prendi?
– Duemila e cinque la giornata, disse Paolo, importante, ma ci sono giornate che rivo a piare fino a quattro sacchi! Talké! disse, uscendo da un vaso un libretto di banca. Ciò su mezzo milione, seguitò, spiattellandomi il libretto aperto, sotto il naso.
– È cià appena quindici anni, disse la madre. E disse che Paolo è il suo figlio più bravo; che, come prende la busta paga, ce la dà in mano tutta, e quando fanno le parti, non sta lì a cinquantarla.
Intanto scodellava la polenta dal paiolo. mentre, sulla tavola, si stava raffreddando, Claudia si alzò dalla macchina.
– Mi sento ciucca, disse stirandosi; è da stamattina alle cinque ore...
– E io dalle quattro! disse Tina.
Fecero la conta delle tomaie posate sulla mensola della macchina, e di quelle sul tavolaccio. Claudia aveva giuntato quaranta para di tomere. la sua media è ottanta para alla giornata. Però alle volte va anche più in su, mi spiegava la madre. È arrivata fino a novantatré para al giorno. E non una volta soltanto.
Disse che i padroni ci fanno il filo alla Claudia. ma lei vuolenò saperne di andare a lavorare in fabbrica. Meglio lavorare a casa. fare i cottimi. Ogni para sono duecento franchi che si prende. Duecento per ottanta è una svarslà di soldi, seguitava la madre, mentre Claudia e Tina avevano uscito due quadernetti da un cassetto della macchina, e stavano facendo conti, sul tavolaccio, con la matita, mormorando: – Questi hanno detto di spettare. Questi cianno dato l’anticipo...
La madre seguitò:
– E poi le mie figlie sono previdenti. Ogni mese vanno a pagarsi i suoi bollini. Delle dieci mila lire per volta pagano. Così ciavranno una bella pensione.
Ci mettemmo a tavola. Mentre mangiavamo polenta e puccia, con insieme burro, formaggio, lugania, la madre cominciò a descrivermi la sua Tina. Che non è grama, ma nervosa. E in quanto al suo mestiere bisogna farci tanto di cappello. taglia fino a centoquaranta para al dì. Non un fravui di pelle, sgarra. Trecento franchi per ogni taglio di para. Da quando lavora ha mai passato un giorno vuoto, mai. Se un dì invece di centoquaranta para, ne taglia soltanto cento, il dì dopo, è sicuro che ne taglia centottanta.
– Però! dissi.
– Il suo moroso viene qui tutte le sere. Si mette lì a guardarla a lavorare. Dice che è un spettacolo.
Dopo la polenta venne la frittura del cervello del pursé.
– Sono pieno! dissi, spostando il piatto.
– Non fatte complimenti. Questo è proprio servèl ad pursé vero. L’ha mazzato l’altro giorno il mio uomo, il pursé, disse la madre, rimettendomi davanti il piatto.
– Il mio uomo si trova no bene a fare il portiere dall’Ercolino. La fabbrica gli mette il male di testa. Che volete, lui è di campagna. E appena può, prende la bicicletta e va per cascine a mazzare pursé. A fare salami.
Claudia mi raccontò il sogno che aveva fatto quella notte. Disse che si trovava in un bosco. camminava. A un certo punto vide, vicino a un albero, un temperino. Lo raccolse e cominciò a ressiare l’albero, e l’ha ressiato fino a che l’albero è caduto. Allora ha cominciato a scravarlo. Ha scravato i rami, ha scravato la corteccia, stava scravando il legno quando si è svegliata. Subito ha cercato i numeri sul libro dei sogni.
Mi passò il libro.
– Guarda un po’ se riesci a trovare un sogno pressappoco come il mio!
Presi a sfogliare il libro. Ottocento pagine di sogni. Il libro aveva le pagine logorate e segnate. Certe righe erano addirittura cancellate. mentre stavo cercando un sogno che, almeno, si avvicinasse a quello di Claudia, lei mi disse di non stare lì a perdere tempo. Quattro numeri li aveva tirati fuori lo stesso.
– Giochi anche al lotto?
Claudia disse di sì. Ogni settimana sgarra mille franchi per il lotto, e altri mille per il totocalcio. Non si sa mai.
Tina si alzò, e andò nell’altra stanza. Lasciò semiaperta un’anta dell’uscio. Intravidi un lettone e tre letti, uno addosso all’altro.
Dopo un momento, Tina tornò.
– Ti piace questo anello? disse, cacciandomi quasi un dito nel naso. È un brillantino. me l’ha regalato il mio fidanzato.
– Bello!
– Ti piace questo bracciale? Senti come pesa? Me l’ha regalato il mio fidanzato!
La madre si alzò. Per qualche secondo guardò Tina, scuotendo la testa.
– Ciai proprio l’educazione sotto il culo, con licenza parlando, disse. È un’offesa che gli fai al Carluccio. Lui ha mai regalato niente alla Claudia, gramo fiò, e non perché non ha cuore, ma perché... eh?
Tina si sedette confusa. Guardò la madre con occhi lustri.
– È proprio inutile che fai quella faccia lì, proprio inutile, seguitò la madre. Ma bella però. A uno che cià neanche i dané per il fumo, ci mostri gli ori.
Seguì un silenzio elettrico. Si sentiva solo il ticchettare della sveglia. E poi il rovescio dell’acqua del cesso, fuori sulla ringhiera.
– Ecco quello che ci mortifica, disse Claudia, non avere le comodità in casa è una gran brutta roba!
– Perché non vi fate il condominio? dissi.
Claudia disse che ci avevano pensato. ma oggi si lavora, e domani non si sa. Basta ammà che viene la molla che si sta fermi, e allora sono debiti! disse, giudiziosa.
– Voi il cesso ce l’avete in casa o fuori? mi domandò la madre.
– In casa.
– E ciavete anche il bagno?
– Sì.
– Proprio il bagno col scaldabagno?
– Sì.
– Che bellezza! sospirò la donna. E quanto pagate di fitto?
– Sulle duecento.
– Quante stanze?
– Cinque.
– Cinque stanze? disse la donna, incredula. E quanti siete?
– Prima eravamo in quattro. Adesso che mia sorella si è sposata, siamo in tre, io, mio padre, mia madre! dissi.
Paolo mi disse di non spararle grosse.
– Seh. Cinque stanze, il scaldabagno, seh! Io non ci credo neanche se vedo! disse.
– E non crederci!
Dopo un momento di silenzio, la madre seguitò:
– Suo padre cosa prende di pensione?
– Non lo so!
– Un centocinquanta carte da mille le prenderà?
– Credo di sì!
– E sua madre?
– Ha anche lei la pensione!
– Quanto?
– Avrà un centocinquanta carte da mille anche lei, dissi.
– E voi quanto...
– Quarantamila lire, disse Claudia, rispondendo per me. Gliel’avevo detto una volta. Mi morsi la lingua.
La madre mi guardò dall’alto in basso, e disse:
– Per quello che siete così magro.
Mi venne vicino, e mise la sua mano grassoccia, fra le mie.
– Bravo. Siete proprio un ragazzo di giudizio. Bravo. Avete pensato proprio bene al vostro avvenire.
– Io non ho pensato a niente.
– Voi avete pensato bene, diceva la donna, strizzando l’occhio, voi avete pensato: adesso mi sistemo. E avete sernito la mia Claudia.
– Io?
– Sì. Voi avete pensato che i genitori non sono eterni, e sposando la mia Claudia vi mettete i piedi al caldo. Neh che avete pensato così?
– Proprio no!
– Eh seh?
– Vi giuro di no.
– Anche spergiuro. Il dritto, volete fare! disse la donna, sempre seguitando a strizzare l’occhio.
Claudia, con la voce di chi vuole voltare pagina al discorso, comandò:
– A proposito, i tuoi sono contenti di me?
– Sì!
– Sono mica stupidi, disse la madre. Ciulla. vedono il figlio mettersi a posto. E con altra voce seguitò:
– Io non sono proprio no contenta. Glielo dico davanti, perché mè, quello che ho da dire, dico. Proprio no contenta. Se lui fa il maestro, che cerchi fra le maestre. Ciascheduno sposi i pari suoi. Lo dice anche il proverbio. I proverbi i sbaglian mai. Guardate il mio Ercolino e la sua Nives. Non hanno mai avuto una giornata da godersi insieme. Lui preso di qui, lei presa di là. La Nives lo dice sempre: se nasco un’altra volta, dice, faccio l’impiegata. Che almeno ciò le ferie. Che la Nives, quando vede le famiglie partire per il mare, ci patisce. E voi che ci avete quella fortuna lì... domà!
Entrò Ercolino, che era ancora più robusto di quanto non sembrasse dalla fotografia.
– Ti vedo giallo. Così è successo? gli domandò la madre.
Ercolino, togliendosi il soprabito, spiegò che non si sentiva bene. Tre giorni che non va di corpo. La purga non gli ha fatto effetto. La pancia piena di quellarobalà.
Si sedette; alzò a metà il sedere, sparò un versaccio, e mi disse:
– Corrici dietro!
Tutti risero e risi anch’io. Claudia prese a spreparare. Ercolino teneva lo sguardo fisso sulle mie scarpe.
– Dove le avete comprate?
– Da Ballagassa!
– Quanto?
– Tremila.
– Tremila lire! disse lui scandalizzato. Tremila lire un para di culatta.
– Non è culatta, è spalla! disse Claudia.
– È culatta, disse Ercolino, toccandomele, culatta, culatta, culatta!
– Mi sono comode, borbottai.
Ercolino volle vedere la suola. Disse che era crosta.
Le sorelle avevano ripreso a lavorare. Paolo era entrato nella stanza. La madre era andata in corte a sgurare i piatti. Ercolino mi fissò il vestito.
– Preso fatto o fatto fare?
– Preso fatto!
– Dove?
– In Piazza.
– Da chi?
– Vestibene!
– Vestibene e Spendipoco?
– Proprio lì.
– Quanto ciavete dato?
– Non ricordo.
Ercolino infilò lo sguardo nell’interno della giacca. Lesse il tipo di vestito, e disse:
– È da diciottomila!
– Mi pare di più! dissi.
– Corrici dietro!
Prese a toccare la stoffa. Cotonetta mista a lanetta mista a terital.
– Vi hanno fatto almeno lo sconto?
– Ma non so più.
Paolino uscì dalla stanza nel suo magnifico vestito. Mi salutò.
– Vo al cinema, disse.
– Buon divertimento!
Ercolino ora stava tirandomi la cravatta. E dove l’ho presa? E quanto ciò dato?
Lo stesso con la camicia. Che è cotonetta mista a raion.
Mi guardava con un’aria che mi pareva di essere vestito di stracci.
– Ha detto che pia quaranta mila lire! disse Tina.
– Alla settimana, disse Ercolino.
– Al mese! gridò Tina.
Ercolino ora mi guardava in una maniera che mi faceva sentire il più miserabile degli uomini.
– Quaranta mila lire. E magari lo chiamate stipendio? disse, piantandomi due occhi scandalizzati.
– Uhn! borbottai.
– Quarantamila lire non è uno stipendio. È una mancia, è! Ecco lo Stato. Bella roba. Corrici dietro.
La madre entrò con la pigna dei piatti. Mettendoli a posto, su un ripiano del buffè, un piatto le scivolò, si ruppe. Per un momento fu un incrociarsi di sguardi spaventati.
– Datemi el botte, datemi schiaffi, li merito, datemeli, gemeva la donna.
– Un servizio da cinquanta mila lire sgiacà via! disse Tina fra i denti.
La donna piangeva, ripetendo: – Datemi delle botte, me le merito. E intanto mi guardava male, con l’aria di dire: se non c’eri tu non succedeva niente.
– Non è niente, disse Ercolino, domani andiamo dal vetraio. Ci facciamo fare quattro zuppiere come questa. Dividiamo i piatti in quattro servizi da dodici, e li teniamo lì; i primi quattro operai che si sposano ce li diamo in regalo!
La madre sembrò sollevarsi. Gonfiò il petto. Quell’Ercolino qui ne sa proprio una più del demonio. Ma per dabòn però.
Io guardavo il spettacolo: Tina e Claudia lavorare. Poco dopo Claudia, rivolta al fratello, disse:
– Sentiamo anche il parere di Carluccio? Ce lo dobbiamo dire?
– Dircelo!
Claudia spiegò:
– Mio fratello ha fatto questa proposta ai suoi operai. Gli ha detto: mè vi tiro tutti dentro come soci. Di quello che si prende, mè tengo il cinquanta, dato che la fabbrica è mia, e l’altro cinquanta, ve lo spartite fra voialtri!
– E allora?
– Prima hanno detto di sì, gli operai; e poi non ci sono stati. E così mio fratello si è avanzato di pagare per niente le spese del notaro.
– Un miliún! Disse Ercolino.
– Tu che ne pensi? mi domandò Claudia.
– Se le cose stanno così, hanno fatto male a non accettare, dissi.
Ercolino mi guardò da brutto.
– Come sarisaria, se le cose stanno così? borbottò. Comunque peggio per loro. Che se rangino un po’. Nella mia fabbrica volevo fare una famiglia sola. L’hanno no vursú. Basta. Bui.
Tina si stava preparando per andare al tè danzante alla Capannina.
– Il mio fidanzato sta lavorando, così vado a ballare con le mie amiche! disse.
– Ma lui lo sa che vai a ballare?
– Oggià che lo sa!
– E non dice niente?
– No. Perché sa che non ballo!
– Non balli?
– Io no. Io vado alla Capannina per dare tappate a quelli che mi vengono a cercare per ballare. Prego signorina? E io: No! Signorina? No. Ci restano così male! disse, soddisfatta, Tina.
Io ed Ercolino si alzammo.
– Voglio darvi la maniera di farvi la macchina, disse Ercolino. Se mi date da trà fra qualche settimana avrete una bella Seicento tutta vostra!
– Davvero? dissi. La mia voce suonò incredula.
– Guardate che mè sono no un paiàs, va ben? Mè, quando dico una roba, è quella, a l’è! Adesso vi spiego...
Eravamo sull’uscio. Aiutai Ercolino a infilarsi il soprabito. Domandai a Claudia se sortiva con noi. Claudia disse che la pudiva no. Doveva finire le tomere, per consegnarle alla Nives in serata: sedinò domani nella sua fabbrica non si lavora, disse con aria responsabile. Salutai la madre, che, nel stringermi la mano seguitava a strizzare l’occhio. – Non se n’abbia a male, ma io non ci credo che sia innamorato della mia Claudia. Non mi direte che la trovate bella?
– Io sì!
– Guardate che culo grosso che ha; guardate com’è gonfia; va lì che linea! disse. Claudia la guardava stranita. Voi fate i vostri conti ma anch’io...
Battevano le cinque quando scendemmo in corte. Il vicinato stava accomodato in poltroncine, con tanto di scagni sotto i piedi, a contarsela. Altri, più discosti, ascoltavano la partita con le radioline. Un paio di automobili giravano attorno ai vasi di frasche. Dovevano essere operai appena patentati, che stavano allenandosi. Da finestre e da usci, venivano ronzare di motorini e sbattere di martelletti. Sotto l’androne, una coppia, marito e moglie, credo, stavano spolverando un tappeto. Davanti al portone era ferma la Giulietta di Ercolino.
Mi accomodai al suo fianco.
– I sedili sono di leopardo. Due miliún. La tappezzeria di opossum. Tre miliùn. I tappeti sono persiani. Due miliún. La radio è elettronica, il giradischi automatico...
– Un milione! dissi.
– Mezzo! disse, modesto. Adesso andiamo a piare la mia donna, disse, svoltando per una stradetta di periferia, e poi andiamo a cena insieme. Vi va?
– Veramente dovrei tornare a casa!
– Abbia no paura. Offro tutto io!
La macchina filava fra case vecchie e campagna.
– E allora v’interessa l’automobile?
– Sì!
– Ecco, disse Ercolino. Io vi compro una Seicento nuova. Ve la passo con il trenta di sconto, a rate di dieci quindici bolli al mese, se vi va; sedinò anche di cinque, e senza una lira di interesse.
Rallentando seguitò:
– In più vi regalo l’assicurazione, il bollo, l’immatricolazione, e trecento litri di benzina. Tutto questo, ripeto, a mappa. però... – e qui fece una pausa che durò qualche momento, godendosi la mia faccia stranita nello specchietto – però a un patto. Che sui due fianchi della macchina, ci sia l’insegna della mia azienda. CALZATURE CORINI – UOMO DONNA BAMBINO.
– Interessante! dissi.
– Ci state o no?
– ... Chiederò alla mamma, mormorai.
Ercolino girò la macchina dentro la corte d’uno stabile che pareva una cascina. Scendemmo. Un cagnaccio ci venne incontro abbaiando.
– Buono Mac Arthur! disse Ercolino carezzandolo.
– Come mai quel nome? domandai.
– Perché l’ho comprato al tempo della Corea. Ciavevo in casa del lattice. Il dì prima valeva poco; dopo valeva oro. Mè l’ho tenuto a poso e quando l’ho venduto, voi non avete idea di quello che ho guadagnato!
– Quanto avete guadagnato?
Ercolino mi guardò rugato.
– Sono mica cose che si dicono. Ma bella però. Io conto i miei affari a voi. ma tallè!
– Scusi, mormorai.
Aprì un uscio. Entrammo. Mi trovavo in uno stanzone col soffitto di travoni e il suolo squarciato da un tappeto di ritagli di pelle gomma e cuoio. Un vecchio stava a lavorare a un macchinario. Una vecchia martellava, al banchetto. Un giovanotto stava impinendo lo stufone di quegli avanzi. Una donna giuntava alla macchina.
– Questa è la mia donna! disse Ercolino.
– Piacere! Ma chi l’è?
– Mia suocera!
– Piacere! Ma da dove viene?
– Mio suocero!
– Piacere! Ma dove sei andato a stanarlo?
– Mio cognato!
– Piacere! Ma cosa vuole?
Tutti mi guardavano sospettosi. E anche quando Ercolino disse che ero il moroso di sua sorella, il sospetto non diminuì dai loro occhi.
Ercolino spinse un uscio, e mi fece passare in una stanzettina, che un tempo doveva essere una cucina.
C’era un focolare, pieno di scatole di scarpe, e uno stufone di muro attaccato a una parete, pieno di pellame. In mezzo, su di un tavolo, campeggiava una vecchia Olivetti, a due tastiere, una bianca, per le maiuscole, e l’altra nera per le minuscole.
– È buono da battere a macchina? mi domandò Ercolino.
– No!
– Che imprenda. Viene qui a tenerci la contabilità alla mia donna, e stia sicuro che i suoi trenta bolli se li conta, a ogni mese, per un’ora ammà alla settimana che ci fa. Un para delle mie: vitello e cuoio. Non culatta.
Entrò Nives con un piccolo calderone che mandava una puzza di colla che prendeva la gola. Lo depose sulla mensola, e prese a trusare con un ferro. Disse che stava preparando il lavoro per domani. – È quasi tutto pronto, disse.
– Stassera ciabbiamo l’ospite, disse Ercolino.
– Non ho preparato proprio niente! disse Nives.
– Pusé mei. Andiamo a Ticino a fare la paciata dove il Gino, disse Ercolino. Avete mai paciato dove Gino?
– No!
– Si pacia che è una meraviglia. Proprio roba sana.
Poco dopo filavamo verso casa sua; che la Nives voleva mettersi in ordine. Nives mi sedeva dietro. Sentivo i suoi occhi fissi.
– Ma sa che io la conosco, disse. Voi ciavete mica una sorella?
– Sì.
– Che si chiama Fausta?
– Sì.
– Mi pareva a me. Io e sua sorella siamo state a scuola insieme!
– Oh! dissi sorpreso.
– E adesso sua sorella cosa fa?
– La telefonista. È impiegata alla Stipel, dissi.
– E chi ha sposato?
– Un impiegato di banca.
Ercolino domandò:
– Fra sua sorella e suo cognato cosa prenderanno insieme?
– Mah! dissi.
– Anche se lo dice resta qui in famiglia!
– Prenderanno un quattrocento carte da mille al mese!
– Appena?
– Non mi sembra proprio poco!
– E dove stanno? domandò Nives.
– Condominio Zeta!
– Quanto pagano all’anno?
– Trecento cinquanta!
– Quante stanze?
– Tre.
– Di riscaldamento cosa paga?
– Cinquecentomila, sentii che dissi.
– Noi spendiamo meno! disse Ercolino, fermando la macchina davanti a una villa.
Mi fecero vedere la casa, scusandosi se non era proprio in ordine. Il salotto era ammobiliato con mobili vecchi e scompagnati, dal legno pesante, che mi pareva di avere già visto in qualche cascina.
– Ci piace?
– Elegante!
– Per avere questo arredamento, ci vuole, disse Ercolino, corrugando la fronte, ci vuole... ci vuole la trasandatezza naturale dell’ambiente.
Mi mostrò il suolo. Marmo di Carrara. Dieci sacchi il metro quadrato. Mi portarono a vedere la camera da letto; Ercolino mi mostrò i rinforzi nelle gambe del letto. All’intorno c’erano specchi, controspecchi, pettinose, pettiniere, tutti mobili da mezzo milione l’uno. Se ci credo. Se non ci credo, ci sono le ricevute.
– Ci credo! dissi.
Ercolino volle farmi vedere le ricevute. Mentre le sfogliava diceva: mes miliùn mes miliùn mes miliùn un miliùn e mes mes miliùn un miliùn...
Nella camera vicina, una ragazzina di una decina di anni stava seduta sull’orlo del lettino, con aria spaurita... mes miliùn un miliùn mes miliùn mes mes mes un miliùn...
– Olghina cos’hai fatto tuttoggi? domandò Nives.
– Ho studiato, disse la bambina con voce spaurita.
– E poi?
– Sono stata a spettarvi! rispose, imbronciata.
– Lo conosci il signore?
Olghina accennò di sì.
– È un maestro! disse.
– Anch’io ti conosco, dissi. Tu sei del Patronato! la voce mi uscì velenosa.
Mi fermai davanti a uno scaffale di libri. In un ripiano ci campeggiava un’enciclopedia. ne uscii un volume.
– L’ho piata giusto l’altro giorno da un suo collega, disse Ercolino, dal maestro Orti. È venuto qui a esibirmela e l’ho presa. Settanta milani.
– Spesi bene, dissi.
– Volevo farcela al maestro Orti la proposta della macchina, ma Claudia m’ha detto di dirlo prima a voi. E io ho detto: piuttosto che fare del bene a uno che non so chi è, glielo faccio...
– Grazie!
Mentre Nives si cambiava, Ercolino mi portò in una stanza piena di giocattoli, con una parete bianchissima, e un proiettore in mezzo alla stanza. Da uno scaffale uscì una cinepresa. Me la fece vedere. Una Paillard da sedici millimetri. Proprio una roba da regista. Trecento ottanta bolli.
Da un altro scaffale uscì una pellicola e la montò nel proiettore.
– Adesso ci faccio vedere chi è mia figlia! disse, spegnendo la luce.
Sulla parete si proiettò una ballerina in tutù, che tentava di camminare sulla punte. E, sullo sfondo, una donna seduta al pianoforte che le faceva dei cenni. La donna la conosco. È una certa Gorani, già ballerina della Scala, rotolata poi, non si sa come, a Vigevano, dove ha aperto corsi di danza, frequentati da figlie di industrialotti.
Ercolino sedeva vicino a me. Guardava compiaciuto la figlia ballare.
– È una cara bambina! dissi.
– Uhm. Ciavria bisogno di una viscia, disse Ercolino severo, così imprende.
– È capricciosa?
– Proprio capricciosa no. Seguita lamentarsi che la lasciamo in casa sola; che non ci guardiamo asé. La sa no che noi facciamo tutto per lei, disse Ercolino. però, in quanto a intelligenza...
– Beato chi la sposerà! dissi.
– Certo che quello che la sposa, lo vende bene!
Il cortometraggio finì. Ercolino mi portò in giardino. Nelle aiuole ci zompettavano galline. Un vecchio stava chinato su una conigliera.
– Papà ti piace il moroso della Claudia? gridò Ercolino.
Il vecchio mi guardò e disse di sì. – Meglio che un pugno in un occhio, disse.
Entrammo nella fabbrica. Ercolino mi mostrò macchinario per macchinario. Di ciascuno mi disse il prezzo e la provenienza. Quando uscimmo, la mia testa rintronava di miliùn e di lodi alla Germania e ai tedeschi. Che saranno quello che si vuole, ma nella meccanica sono i primi nel mondo, poco da fare. Ce n’è mica come loro. Bisogna ammettere che sono superiori a tutti. Cianno delle teste che finiscono più. Che se adesso russi e americani fanno bella figura lo devono ai tedeschi che ci lavoravano sotto.
– E i vostri operai hanno rinunciato a venire comproprietari di questo patrimonio? dissi.
– I miei operari per starci, volevano che ci mostrassi il fatturato. Dico: che è quell’industriale che mostra il suo fatturato a cinquanta persone insieme? disse Ercolino.
– Eggià!
– Io ce l’ho detto ai miei operari: voi state sulla fiducia. Col lavoro che fate vene rendete conto lo stesso, anche senza che mè vi mostri i conti. Vi pare?
– Eggià!
– E loro: macché!
Mi portò a vedere la stanza dove dormiva il padre. Sul comodino aveva una pistola. La stanza puzzava di salame e formaggi.
Nel riattraversare il giardino, il padre disse che stassera voleva andare in campagna. Alla Braghettona. Che ci sono dei pursé da masà.
– Stassera stai qui. Dobbiamo andare via adesso! disse Ercolino.
Il padre mi guardò malamente.
In casa trovammo Claudia. Stava versando sul tavolo due borsate di tomere, il misté della sua giornata d’incò. Nives, tutta in ghingheri, le disse di trattenersi lì tutta sera, a tenere compagnia a Olghina, che non si sente bene.
– Fiola ma io ho da lavorare! disse Claudia.
– Per stassera ammà, disse Nives, contandole i soldi, ti dò come venti para. Va bene?
– Ma mè...
– Non mi dirai che stassera ne fai più di venti para?
– E va bene, disse Claudia, ci sto!
Mentre uscivamo la vidi giocare con la nipotina. Poco dopo filavamo verso Ticino. Era sera. Davanti a una sezione comunista c’era assembramento. Su un palchetto stava parlando il deputato di Vigevano.
– Ecco le belle novità della democrazia, disse Ercolino. Dicono tanto contro il duce. Ma almeno al tempo del duce di compagni non ce n’erano... Io non sono di quell’idea, a me mi fanno schifo tutti, ma è un fatto che quell’uomo là vedeva chiaro e giusto. E all’estero eravamo rispettati.
– Taci un po’! disse Nives.
– Se non altro prima mangiava lui e i suoi cosi. Adesso! Adesso è una mangiatoia continua. Sempre d’accordo per paciare. Tutti lì per la pagnotta. L’Italia è venuta una greppia sola; mangia te che mangio mè: rossi, neri, comunisti, demo, tutti lì a lappare, alé fioi che andiamo bene.
– Sì! dissi.
– Senza dire che in quei tempi la gioventù aveva degli ideali. Adesso cosa cià la gioventù? E poi, vogliamo mettere come parlava lui, e come parlano questi qui?
– Ma Mussolini alla fine che cos’era? disse Nives. L’iva appena appena un maestro!
Si voltò verso di me e mi sibilò:
– Adesso siamo pari col Patronato!
Un passaggio a livello chiuso sbarrava la strada. Ercolino fermò la macchina fra una mega di biciclette e gente a piedi. Ingranando la retromarcia, diceva:
– Ancora i passaggi a livello. Che erano la prima roba da levare. Che il passaggio a livello danneggia mica i siù. I siù se ne sbattono dei passaggi a livello. Fanno come me, i siù: girano indrè la macchina, e passano per la Circonvallazione. Il passaggio a livello danneggia la povera gente. Il popolo. Che ci tocca spettare i comodi del treno. Il passaggio a livello. Al consiglio, invece che stare lì a baccaiare per l’Algeria e la Tunisia e Fidel Castro, pensate a queste robe qui. Ma loro niente. Voran fa politica, i voran fa.
Ora la macchina stava scendendo per una strada tutta sassi e biche. Non una vibrazione. Tanto come scussiare sull’asfalto. Gli ammortizzatori che ha quella macchina sono un guindal. Cento sacchi l’uno vengono.
Arrivati sull’orlo di un boschetto scendemmo. Mentre camminavamo su di un fradicio ponticello, Ercolino diceva:
– Ecco le cose in mano al Comune. Un privato chissà che ponte ciavria fatto. Qui c’è il rischio che si squagi, e finire dentro l’acqua. Socializzate. Sgarate dané. Mantenete pelandroni. Tanto paga Pantalone. Soffocate l’iniziativa privata. V’incorgerete.
– Stai tenendo il comizio o che roba? disse Nives.
– Mè, se mi socializzano la mia d’una fabbrica, da una parte sono contento. Mè fo il direttore; mi pio il mio stipendio bel tranquillo, senza pensieri, senza noie... Dall’altra, un po’ mi rincresce. la mia fabbrica ha due camioncini e due giardinette, e vedermele portar via, mi ruga.
Davanti al boschetto c’era una casetta, con un comignolo che mandava un fumo denso. Ci affacciammo nell’osteria. Era piena come un uovo. Il padrone ci disse che fra un poco ci sarebbe stato posto.
Ercolino ordinò la paciata. Lagora in salmì, pollone rosto, salame della duia, pecro di vino mostoso, sleppa di stracchino... Nell’osteria c’era baccano di voci e canti.
– Fra qualche minuto è tutto pronto! ripeté l’oste.
Camminammo fino alla riva del fiume. L’aria era larga e fredda. Lo sciacquare del fiume si confondeva col mormorare delle foglie. Ci fermammo a guardare delle barche attaccate a una catena. Barbellavo di freddo. Ercolino faceva riflessioni sul mormorare delle foglie. E sulla libertà.
– Quelle barche smeiano no creature incatenate? Sono arrangiate come i russi, quelle barche. Li stesso.
Sul ponte stava passando un treno, lentamente.
– Un quai dì quel ponte crolla insieme al treno, disse Ercolino con voce lugubre. Ecco quando si fa della politica, invece che dell’amministrazione. Ponti che stanno in piedi per miracolo... Ce n’era uno che l’aveva capita la storia: il Pella. Un governo di tennici. Sì proprio, tennici. Tennici. Siccome il Pella vedeva le robe giuste, raus! via! andare! andiamo avanti con la politica.
Stavamo camminando verso la sua casotta, che, in quel chiaroscuro pareva una piccola villetta. Ercolino l’aprì. Mi trovai in una specie di sala, con sofà, lampadari, frigor, poltrone. In un angolo c’era un motore di motoscafo; nell’altro una barca; negli altri, equipaggiamenti di pesca, e di pesca subacquea. Di ogni oggetto mi disse il prezzo. Sulle pareti erano incorniciate riproduzioni di quadri: la Primavera del Botticelli; la Maia Desnuda; e altri nudi.
– Io amo l’arte! diceva Ercolino uscendo dal frigor dei Campari.
– Dov’è sua moglie?
– Nives qui non ci entra, disse Ercolino, bevendo, lei lo sa che qui ci vengo a farci tanti di quei coran che fanno spavento. Per dabòn. Il micare che ho fatto mè qui dentro, il Casanova se l’insogna.
All’osteria stavamo lappando bene. A metà cena non mi andava più niente.
– Mangia, diceva Ercolino, dài che è tutto pagato!
Io ero seduto in mezzo fra marito e moglie. Dati i tavolini e la gente che c’era, stavamo stretti. L’aria era un urlare di canti. Nives aveva un sguardo fra il nervoso e l’avvilito. Sentivo che doveva succedere qualchecosa. Nemmeno lei mangiava.
– Sah, non fate i smorbi. Non fatemi sgarrare i dané per niente! disse Ercolino.
Come se aspettasse quella frase, o, come se quella frase fosse un’offesa. Nives ringhiò: – Taci lì, biglietto ferroviario! E mi sputacchiò in un orecchio.
– Hai voglia di taccagnare? disse Ercolino, sputacchiandomi nell’altro.
– Biglietto ferroviario, ripeté lei. Mi diceva: Nives devo andare a Firenze, a Roma, sul Veneto, affari, campionari, clientela; starò via un pari di giorni o tre. E mè a preparargli le valigie e stare in pena per lui, che invece era qui, nella casotta con qualcuna.
– Non ci credere!
– E quando tornava mi mostrava i biglietti del treno. Tutto a posto. Tutto in regola; meno una roba: che non erano bucati!
– Corrici dietro!
Verso la fine della cena, mentre bevevamo il caffè corretto grappa, come si usa nelle osterie di Vigevano, Nives, toccandosi un orecchio, gettò un grido.
Non aveva più il pendente. Ci guardammo spaventati. Nives cercava nervosamente dappertutto, lungo il corpetto, sulla sottana, per terra; e all’intorno quella compagnia che seguitava cantare a squarciagola. Il pendente ghè no. Non sapendo più dove cercare, fruciava nella borsetta. Il brocchino ghè no. Il brocchino che fa parte della parure: anello colliè pendenti, che vale cinque miliùn, che si è regalata lei da sola, quando si è accorta che, dietro i biglietti dei viaggi, si nascondevano coran.
– Dov’è il bruchìn? Sant’Antonio fatemelo trovare il bruchìn. Dieci milani sant’Antonio, tutti per voi.
Con la faccia smorta Nives cominciò a dire le preghiere. Nell’osteria quelli degli altri tavoli avevano smesso di cantare, per sentire l’oste contare le barzellette.
Ercolino tremava di nervoso.
– L’avrai mica perso sulle rive del fiume? le domandava.
– Fammi no morire! diceva lei, andando avanti a pregare.
La loro angoscia mi si comunicò.
Finalmente il pendente venne trovato; era nascosto fra le pieghe della sottana, sostenuto da un filo. Tirammo il fiato. Tornai a casa col male di testa.
A casa trovai mia madre, sola in cucina, con gli occhi fissi su delle mie fotografie da bambino.
– Tuo padre è stato male tutto il giorno. Come sei uscito è venuto meno, disse. Adesso è a letto!
Difatti dalla camera venne la sua voce.
– Figlio mio?
La stanza era buia, malamente illuminata da una lampadina schermata che sulle pareti proiettava ombra paurosa, e gli faceva una faccia bianca.
– Figlio mio! disse mio padre con un filo di voce che mi fece gelare, se seguiti con questa vita, io morirò. Del resto meglio morire che vederti imparentato con quella gente!
Dopo un attimo di silenzio, dissi:
– Ho rotto tutto!
Mio padre balzò dal letto.
– Davvero?
– Tutto finito!
– Figlio mio?
Andai a rinchiudermi nella mia stanza. Dall’uscio mi veniva la voce della televisione che i miei avevano aperto. Le risate dei comici, seguite da quelle dei miei, mi irritavano col mal di testa che avevo.
Giorni dopo vidi il collega Orti su una Seicento CALZATURE CORINI. Dopo qualche tempo ne giravano a decine per Vigevano di quelle macchine; guidate da impiegati, insegnanti o loro parenti.
– Perché non vai da Corini a combinare per la macchina? disse mia madre.
– Sicché io dovrei fare l’uomo sandwich?
Mia madre alzò le spalle.
– C’è dentro niente di male; tanto, sei ancora un ragazzo. Vai. Corini ti aspetta.
– Chi te l’ha detto che mi aspetta?
Disse che gliel’aveva detto mia sorella. Mio cognato ha avuto una Millecento. A cinque mila mensili. Con lo sconto. Con un bidone di benzina. Senza nessun’altra spesa. vacci. Anche il papà è dell’idea!


(Tratto da A casa tua ridono e altri racconti, Einaudi, Torino, 2002. Il racconto Gli uomini sandwich è apparso per la prima volta come un’appendice del libro Gente di Vigevano, nel 1977, insieme al racconto La ballata dell’imprenditore.)

 


Lucio Mastronardi nacque a Vigevano nel 1930 e vi morì suicida nel 1979. Presso Einaudi pubblicò, oltre a questo libro, Il calzolaio di Vigevano, Il maestro di Vigevano e Il meridionale di Vigevano


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