APPARIZIONE E VISIONE

- Una biografia della scrittrice Anna Maria Ortese –

Luca Clerici


Manca poco alla partenza, e Anna Maria vive un’emozione nuova. Lui è un ragazzo arabo: “lo guardavo camminare. Mi piaceva il suo corpo minuto, leggero. Era la prima volta che scoprivo la magia di un’altra persona”. “Era un amore che conoscevo solo io. La mia ingenuità allora era paurosa. Sono arrivata a diciotto anni senza sapere che differenza ci fosse tra uomo e donna. Credevo che fosse una specie di fascinazione che li spingeva l’uno verso l’altra.”
Un sentimento infantile, un ricordo indelebile: il piccolo arabo si affaccia in una poesia del 1939.

Poi sorse la luna, e vidi
in quel miracoloso chiarore
un ragazzo che amavo:
presso un muretto sostava
giocando con una frusta.
il piccolo viso nero,
curvando, rideva.
Oh, come
sofferse e godette il cuore
in quella sera, in quel chiaro
di luna, in quel lieto paese

Alla vigilia della partenza dalla Libia, sua nonna Brigida si aggrava. È ammalata di nefrite.

“Il pomeriggio avanti, avevo girato lungamente con la mamma per il giardino, raccogliendo un po’ di mirto per i due cuscini della nonna. La nonna era moribonda da qualche giorno, e la mamma non aveva voluto aspettare l’ultimo momento per questa nostra cura.
L’indomani all’alba, io mi svegliai quasi improvvisamente. Avevo sognato il mio compagno di scuola, Antonio, che mi guardava coi suoi begli occhi neri, senza parlare. Mi sedei sul letto, con la testa sulle ginocchia. Dopo un poco la sollevai. Avevo freddo. Nel triangolo di luce che una coperta inchiodata (la casa non era stata terminata e tutte le aperture mancavano di vetri e sportelli) apriva in fondo alla finestra della camera, s’intravedeva, circoscritta da una linea diafana, l’immensa estensione delle terre gialle, di cui faceva parte la nostra concessione.
Mio padre s’affacciò alla porta con un asciugamano gettato sulle spalle e gli occhi lucidi. – Va’ di là da tua madre. – mi disse con una voce assonnata e cupa. Non domandai nulla. Mi infilai i sandali, un vestitino e corsi in camera della nonna.
Era distesa sul letto, piccolissima. Non aveva quasi più un tremito. L’estrema magrezza e la quiete di quel piccolo corpo facevano pensare a un uccello morto dal freddo, con la rugiada sotto l’ala nera. Mia madre era seduta accanto al letto. A volte si curvava a chiamarla sottovoce, ma la nonna non le rispondeva mai. Quasi tragica e certo stupefacente per chi avesse conosciuto le allegre e fatate dimore dove si svolse la vita di lei, poteva apparire la stanza dove la nonna moriva. Alti merli bianchi, un ricco pavimento arabo scintillante di stelline gialle e nere, e non un mobile, se non quella branda coperta da uno straccio rosso, e negli angoli, dei fagotti scuri da emigrante, abbandonati per terra. la finestra sulla pianura era difesa appena da una vecchia coperta bucherellata. A terra, una lucernina a tre occhi, semispenta. Faceva freddo. Era buio.
A poco a poco, la stanza si sgelò. Tutti i miei fratelli venivano a vedere la nonna che moriva. In altri tempi, questa vecchia aveva protetto e rallegrato la nostra infanzia, là in un paese della patria d’inverno bianco e di neve e a marzo odoroso di viole: le favole che ci aveva narrate erano incantevoli. Ma da qualche anno, grandetti, non ne sentivamo più bisogno: avevamo i nostri studi, i nostri sogni e, perché no? già i nostri piccoli amori. Forse, lei capiva di essere diventata inutile, e per questo se ne andava.”

La proposta la fa lui, Oreste, il padre. Sempre più cupo, in quei giorni, e demoralizzato. I soldi rimasti, portati via dai medici della nonna. la casa incompiuta.

“ – Infine – mormorò mio padre, completando ad alta voce, con rude franchezza, un suo pensiero, – si potrebbe anche seppellirla qui, nella concessione. Chi ce lo impedisce?
Ci guardava con gli occhi rossi dalla grande stanchezza e dal fumo.
– Bisognerebbe sentire il parere della mamma – obiettarono alcuni dei miei fratelli, guardandosi in faccia.
Il volto della mamma aveva un’espressione di grande dolcezza, quando noi entrammo per dirle la cosa. Ella era intenta a pettinare i capelli bianchi della nonna, che muoveva a volte, come viva, la testa stanca. Ascoltò, col pettine in mano, la nostra proposta, poi riprese la sua opera amorevole, dicendo con un sorriso – No, no, avete visto che fine ha fatto la nostra povera capretta. Con tanti sciacalli in giro. Sarebbe una cattiveria. Non vi ricordate quanto vi ha voluto bene? Poveri figli, vedrete che Iddio provvederà.
– Papà, la mamma non vuole –. Lui cacciò un mugolio a mezzo tra il gemito e la bestemmia. Non che fosse cattivo, ma era fortemente preoccupato. Si strinse più forte nell’asciugamano, come avesse freddo.
In quel momento, il sole appariva rosso sulla pianura. Gli uccelli cantarono, l’aria s’illimpidì e riscaldò. Si annunciava una splendida mattinata.
Verso le 11 arrivò un telegramma. Mio padre era richiamato d’ufficio in patria. Una soluzione inaspettata e provvidenziale.
Mia madre, vicino al letto di nonna, accolse la notizia senza dividere il nostro entusiasmo. Disse soltanto che, ora, avrebbe preferito rimanere in colonia. Mio padre non la sentì neppure e, rinvigorito dalla gioia, infilò la giacca e partì a piedi per la città (oltre 40 chilometri) per richiedere al municipio un carro dei poveri e poi provvedere per un falegname, giacché bisognava preparare subito le casse per la nostra poca roba.
Il falegname venne l’indomani, stesso giorno che si portarono via la nonna. Di buon mattino, pieni di fervore, noi ragazzi stavamo intorno al vecchio porgendogli una sega, i chiodi, offrendoci per trascinare delle tavole. La nave, la nave! Fra poco si partirebbe, rivedremmo l’Italia, gli uomini. Avevamo addosso una specie di febbre. Di tanto in tanto scorgevamo la mamma che, tutta pallida, coi lunghi capelli neri sulle spalle, camminava lentamente pel giardino, curvandosi ogni tanto qua e là a raccogliere dell’erba. A quella vista, la nostra gioia spariva d’incanto, e abbassavamo la testa stranamente confusi.
Alle dieci o poco più la nonna andò via sul carro dei poveri. Interrompemmo il lavoro e ci raggruppammo tutti intorno alla mamma, sulla porta di casa. Mamma aveva indosso uno scialle nero e stringeva nel pugno qualche filo d’erba: molta ne aveva disposta sulla cassa, perché non avevamo fiori. Ricordo che quella cara mano era ancora bruna di terriccio. Il cielo era azzurro, l’aria calma, tutt’intorno deserto. Ma a un tratto, proprio mentre il furgoncino nero cominciava a scendere, rimbalzando, verso la cammeliera, nacque un vento che sollevò tutt’intorno una gran nuvola di sabbia, e avvolse il carro. Il volto della mamma si scompose tutto nel dolore, ed ella mosse qualche passo avanti, impetuosamente, come per entrare in quel velo rosso di polvere. La trattennero. Quando la polvere diradò, sotto il gran cielo azzurro, la camelliera aveva assorbito tutto
.


(Brano tratto da Apparizione e visione, Mondadori editrice, Milano, 2002)

 


Luca Clerici insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università degli Studi di Milano. Ha dedicato i suoi studi sia ad autori di primo piano (Parini, Dossi, Verga, Calvino, Ortese) sia a scrittori popolari (Salgari, Mantegazza, Stoppani, Guareschi). Si occupa anche di storia e di critica dell’editoria. Di Anna Maria Ortese ha curato La lente scura. Scritti di viaggio (1991).




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