RICORDO DI UGOLINI

 

Italo Calvino

 

La prima impressione che di Amedeo Ugolini si aveva, conoscendolo di persona era d'un uomo nato per raccontare. Poteva continuare a raccontare ininterrottamente per ore, e ci pareva di poterlo stare ad ascoltare eternamente. Aveva il gusto del ricordo rapido, essenziale, fissato in un particolare, in una battuta. Tutto un mondo sfilava nella sua conversazione, amaro, curioso, ironico, vivissimo: lui che scrivendo s'era imposto la poetica dell'umile, del dimesso, dell'anonimo, raccontando a voce la smentiva. Ma era la materia delle cose che aveva da raccontare, ancora più del modo, a affascinare l'ascoltatore: una vita movimentata, vissuta non per slancio avventuroso, che avrebbe contrastato col suo carattere flemmatico, ma per fedeltà alla fraternità degli uomini, alla loro sofferenza, alla loro lotta di riscattarsi: una lotta che conosce anche giornate epiche e grandiose, ma soprattutto giornate d'oscura, paziente tenacia. E questa sua vita di uomo che affronta tranquillo la miseria più nera, i pericoli più fitti, e gli anni dell'esilio, e del carcere, Ugolini l'aveva vissuta non con la rigidezza austera che talvolta rende gli eroi e gli apostoli lontani dal resto degli uomini, ma con la sua modestia d'uomo “come gli altri” (Uno come gli altri, s'intitola il suo romanzo) con il suo piacere alle piccole cose dell'esistenza quotidiana, il sempre vivo senso dell'amicizia, e quel timbro d'amarezza sommessa virile, che egli portò sempre con se.
I membri del Comitato di Liberazione Nazionale clandestino torinese, d'ogni partito, avevano stretto con lui, nei mesi degli incontri segreti, delle riunioni in tempo di coprifuoco, un'amicizia di quelle che riposano nelle lunghe conversazioni in cui sembra non ci sia termine alla possibilità e alla voglia di comunicare, di passare in rassegna idee e fatti. Ed era invece una amicizia nata in quei tempi d'ansia e di fuoco: ma che continuò, poi, nonostante le divergenze politiche come tra vecchi commilitoni. Lo incontravi, ogni tanto, in questi ultimi anni, in qualche trattoria popolare, quei cinque o sei signori attorno a un tavolo. Parevano vecchi compagni di scuola affiatati da una lunga vita in comune che si ritrovano dopo tanto: ed erano socialisti, liberali, democristiani, azionisti, e un comunista, in mezzo a loro che raccontava, raccontava: Ugolini. Erano “le cene del CLN” un'usanza loro, che seguiva un calendario d'anniversari solo a loro noti.
Era nato a Costantinopoli, da genitori italiani, e dell'Oriente gli era rimasta una sfumatura di contemplativa saggezza, che egli si portava dietro nella sua vita di azione e di sacrificio. Venuto giovane in Italia, aveva cominciato a scrivere e vinto un premio letterario, un successo anticonformista, nel clima che allora aduggiava le patrie lettere. Ugolini abitava in Liguria, a Chiavari, e là aveva fatto amicizia con un gruppo di giovani intellettuali che cercavano i contatti con gli operai, con quelli che nelle fabbriche e nei cantieri non avevano mollato, e tenevano viva la speranza nella riscossa. Così, a contatto del proletariato ligure, con giovani che dovevano poi distinguersi nella guerra partigiana, Ugolini fece le sue prime armi cospirative e rivoluzionarie. Quando, schedato dalla polizia fascista e braccato dovette riparare in Francia, la sua penna si mise al servizio della libertà. La Voce degli Italiani era il giornale che da Parigi parlava a tutti i nostri connazionali sparsi per il territorio francese, umili lavoratori spinti dalla miseria a emigrare, o militanti costretti a trovare un asilo sempre insidiato e amaro in terra straniera: era il giornale che dava il senso della continuità d'una Italia ben diversa da quella retorica e folle che, persa la libertà propria, sognava e già perpetrava aggressioni contro gli altri popoli. Era il tempo della guerra di Spagna: “Aldo Bruti” commentava agli italiani di terra di Francia quella lotta in cui già si opponevano i figli di Garibaldi agli alleati di Hitler. Quello scorcio di vita della Terza Repubblica, tra le speranze del Fronte popolare che cadevano di fronte alla nefasta politica di Monaco e poi della “drôle de guerre” fu vissuta da Ugolini a Parigi, in anni di battaglie, di ansie, di fame. Scoppiata la guerra, soppressa la Voce degli Italiani, Ugolini per vivere fabbricava sapone e lo andava a vendere per le case di Parigi. La polizia arrestava gli antifascisti italiani insieme ai fascisti (o invece). Poi venne la Gestapo: i vagoni blindati per la Germania.
Una rivalità giurisdizionale tra le polizie italiana e tedesca fece la fortuna di Ugolini, in quella terribile stagione della sua vita: le autorità fasciste richiesero il fuoriuscito ai tedeschi perché fosse processato e incarcerato in Italia. Così Ugolini evitò i campi d'annientamento nazisti: il Tribunale Speciale lo mandò diritto al carcere di Fossano. Era la prigione, ma era anche i compagni ritrovati, la Patria vera in catene, la speranza.
Liberato dopo il 25 luglio, Ugolini riprende la via del cospiratore, e con l'inizio della resistenza armata comincia la sua vita a Torino, quella che diventerà la sua città, fino alla morte; la sua città, fatta di virtù discrete e non vistose come l'umanità che egli prediligeva, ma generosa, piena di sapor di vita. Membro del CLN torinese, Ugolini mise in opera le sue qualità più preziose; la acutezza politica che dispiegava nelle delicate trattative tra i partiti, il coraggio tranquillo, l'autorità che gli veniva dall'esperienza.
Dopo la Liberazione, fu a Torino, direttore dell'Unità: un nuovo giornalismo nasceva in Italia, fatto d'uomini nuovi, sorti dalla lotta partigiana, situazioni e problemi nuovi. Poi, inviato a Mosca alla conferenza della Pace, quel viaggio alla capitale sovietica vittoriosa e operosa a rimarginare le ferite della guerra, poteva figurare come un traguardo simbolico alle peregrinazioni nella sua vita di combattente. S'apriva per Ugolini un periodo più calmo, tornato a Torino, alla sua attività di giornalista e scrittore, nell'affetto della sua compagna e della sua bimba. Ma le sofferenze, la dura vita di tanti anni avevano lasciato tracce profonde nel suo fisico. E se ne andò lasciando rimpianto che dava ogni suo commiato; di non essere stati più con lui, di non aver ascoltato tutto quel che lui poteva dirci.
Un aneddoto della sua vita, che mi raccontò una volta. Arrestato dalla Gestapo a Parigi, era stato deportato in Germania. Nel viaggio, a ogni tappa, scesi dai furgoni, facevano l'appello ai detenuti. Un sottufficiale nazista, letto il suo nome, si fermò, disse una frase in tedesco. Ugolini, pur non sapendo la lingua, riconobbe quelle parole: era il titolo d'un libro, che era stato tradotto in Germania anni prima. Rispose di si, che era proprio lui l'autore di quel libro.
Era già ridotto a un numero, a un essere privo di ogni diritto umano, ed ecco che ritornava lo scrittore, ritrovava – in quella paradossale situazione – un suo lettore. Rispose di sì, contento. Il sottufficiale lo colpì con un pugno sul viso. La mente di quel giovane fanatico forse si riempiva così di rabbia ogni volta che scopriva tra gli oppositori del suo Führer non solo operai coi calli alle mani, gente per lui destinata a far da schiavi, ma anche gente che scriveva libri. È un episodio che può essere considerato simbolico, questo, di un'epoca non ancora tramontata, in cui la letteratura vive appesa a un filo, in un mondo sempre minacciato dalla barbarie, dove l'uomo cui lo scrittore parla, per farlo migliore, può ripiombare in preda al furore dell'ignoranza e bruciare in piazza i libri che volevano insegnargli a guardare la vita nella sua meravigliosa complessità, e dare un pugno a chi non voleva che dargli delle idee.


(Tratto da La voce della resistenza, a cura del Comitato nazionale dell’Ampi – Roma, 1981)







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