AMICHE


Mercedes Abad

 

Vado a trovare la mia amica Clara all’improvviso. Mi è appena successo qualcosa che muoio dalla voglia di raccontare a qualcuno. Non è che cerchi consigli o qualcosa di simile, ma mi sono accorta che, spesso raccontando una cosa, uno scopre aspetti insoliti o angoli sconosciuti di se stesso che non avrebbe mai conosciuto se non avesse fatto lo sforzo necessario per esporre l’aneddoto più insignificante. Sebbene, se devo essere sincera, più della chiarezza di idee che inseguo, quello che voglio, è soprattutto raccontare.
La mia amica Clara non è di quelle persone che si scomodano per una visita improvvisa. Mi accoglie contenta, esultante, anche se percepisco nella sua allegria una discordante nota isterica. Mi chiede come sto e, senza prestare attenzione alla mia risposta, la mia amica Clara inizia a spiegarmi agitatamente che, se la settimana prima aveva il morale a terra, ora è tornata ad essere ottimista e di buon umore. Me ne rallegro, aggiungo io. E anche se non sembra aver registrato le mie parole, la mia amica Clara si ferma all’improvviso nel suo borbottare. Posso quasi sentire lo stridio della sua brusca frenata.
«Non mi vedi male, vero?», mi chiede. E vedo nei suoi occhi un’espressione dura e quasi fiera, la fierezza che, a volte, mostrano le persone che sanno di essere facilmente vulnerabili:
«Ti vedo bene», mento, spinta dal suo feroce desiderio di stare bene che batte in cuor suo e cerco di infondere alla mia voce un tono convincente, inequivocabile e senza alcuna ombra di ironia, perché la mia diagnosi non sia messa in dubbio e poter così mettere da parte il complicato racconto dei sottili cambiamenti d’umore della mia amica Clara fino a quando non sia riuscita ad affibbiarle la storia che sono venuta ad affibbiarle.
Ad ogni modo, malgrado io sia sicura di aver trasmesso convinzione con la mia risposta, la mia amica Clara esamina la mia faccia ormai senza fierezza, ma con un miscuglio di apprensione, ansietà e sconforto.
«Ti sembro depressa?», mi chiede nuovamente.
«La verità è che ti vedo molto agitata», mento come una mascalzona.
E questa volta l’incantesimo fa il suo effetto sebbene, per mia sfortuna, Clara si mette a chiacchierare con irrefrenabile entusiasmo. Per alcuni istanti, sono incapace di prestare attenzione a qualsiasi cosa che non sia il mio contrariato desiderio di esporre immediatamente la mia storia. Quando torno ad ascoltarla, Clara sta raccontando che la sera prima era andata ad una festa dove un ragazzo molto attraente era rimasto a civettare con lei tutta la notte. Sembra che l’attrazione maggiore del tipo dipendesse dal fatto che, ad un certo momento della festa, aveva chiesto alla mia amica se era vero che compieva trentacinque anni, poiché all’aspetto non ne dimostrava più di venticinque. La mia amica Clara da l’impressione di lievitare per la felicità, mentre me lo racconta. Accidenti, ora sono io quella che inizia a deprimersi, pensando alle centinaia di volte che ho reagito in modo simile in situazioni come queste.
«Credi che il tipo cercava solo di adularmi o che posso veramente dimostrare venticinque anni?», mi chiede la mia amica Clara.
Non ho coraggio di demoralizzarla, ma non voglio neppure dire cose che non penso.
«In realtà credo che tu sia una tipa stupenda e che non importa quello che…», ma Clara preferisce ascoltare se stessa e prosegue con la sua storia.
Anche io preferisco ascoltare me stessa, così mi metto a pensare alle mie cose. Voglio molto bene alla mia amica Clara, ma in questo momento non riesco ad interessarmi minimamente alla sua storia, perché la mia storia sta facendo pressione, opprimendomi i neuroni. Nonostante tutto, non posso evitare di ascoltare qualcosa di quello che Clara sta raccontando a se stessa. A grandi linee, la sua storia è la seguente: il soggetto attraente, che alla festa civettò con la mia amica, ha una fidanzata di ventitre anni, il tipo è più giovane di Clara, se Clara si butta su di lui nonostante i suoi scrupoli, dopo ha paura di stare male e deprimersi di nuovo, ma ora Clara si sente stupenda perché un tipo attraente è interessato a lei, non che voglia legarsi a lui, niente affatto, ma queste cose sono necessarie per la sopravvivenza, e come sarebbe bello avere qualcuno che ti desidera, ti ascolta e per il quale tutto quello che ti riguarda è importante, qualcuno che ti telefona tre o quattro volte al giorno per raccontarti quello che gli passa per la testa e al quale puoi raccontare tutte le stupidaggini che ti succedono. E Clara aveva dato il suo numero di telefono al tipo sebbene, sicuramente, non abbia la minima intenzione di uscire con lui, e Clara dice di essere molto tranquilla e che in realtà non aspetta che il tipo la chiami, anche se le farebbe piacere, è logico, ma non è ossessionata dall’idea.
«Ti sembro ossessionata?», mi chiede all’improvviso angosciata fissandomi distrattamente negli occhi.
«No, va bene, ti ho visto peggio altre volte.», rispondo.
Mi pento del mio sfortunato intervento, un’uscita infelice. Non sembra che a Clara le sia piaciuta più di me perché mi chiede, con maggiore ansia che le esce dagli occhi.
«Credi che io sia una persona ossessiva, vero? Tutto quello che ti racconto ti sembra esagerato, vero? Pensi che sia una pazzoide e che non dovrei…»
« Affatto», la fermo, dal momento che ho ancora l’intenzione di appiopparle la mia storia vada come vada e per farlo è necessario correggere quanto prima la brutta piega che sta prendendo la nostra discussione, «ultimamente ti vedo molto equilibrata e ponderata. Sembri più sicura, più padrona di te stessa, più a tuo agio nei tuoi panni e, soprattutto, meno dipendente dallo sguardo e dall’opinione altrui come in altri tempi. Sicuramente per questo dai l’impressione di essere più rilassata e di umore migliore. Veramente, ti vedo stupenda. In realtà penso di non averti mai vista meglio.»
La verità è che quando voglio riesco ad essere molto convincente, accidenti alla mia faccia tosta. La mia chiacchierata ha sortito un effetto balsamico su Clara. Di nuovo esultante, la mia amica si lancia in un acceso monologo destinato a narrarmi, con grande minuziosità di dettagli, tutti i suoi progetti professionali ed esistenziali. Credo che ne inventi persino qualcuno durante il racconto per il mero piacere di essere ascoltata. Io sostengo il tipo mentre cerco disperatamente di trovare qualche pretesto nel suo discorso che mi permetta di lanciare la mia artiglieria pesante. E, anche se solitamente sono molto abile nel sopraffare i discorsi degli altri, oggi però la mia amica si dimostra inespugnabile. Con tutta la sua pirotecnia verbale che funziona a pieno rendimento, allaccia le frasi una dopo l’altra, senza concedersi un istante di respiro.
Mezz’ora dopo mi ritiro seccata, senza essere riuscita a proferire neppure mezza parola. Nel salutarmi, la mia amica Clara sembra più contenta che mai e, dopo avermi ringraziata per la visita, mi dice di tornare quando voglio, perché le piacciono le visite inaspettate. Mi assicura che sono una amica stupenda, leale e comprensiva, sempre disposta ad ascoltare le sue pene e ad aiutarla. Se sapesse l’odio e la rabbia che mi scorrono per le vene!
È importante dire che, sulla strada di ritorno a casa, mi sento come un rospo che è appena andato a inzaccherarsi accidentalmente in una pozza fetida. Non posso evitare di girare intorno all’argomento mentre il concetto che ho di me stessa intraprende un viaggio senza ritorno verso la zona più bassa che si possa raggiungere. In questo momento, sosterrei ardentemente il contrario con chiunque pretendesse di convincermi che esiste al mondo qualcuno più avverso, meschino, egoista, egocentrico, ipocrita, attore, impostore, leccaculo e obbrobrioso di me. Spazzatura in camino, trascino la mia zavorra fino a casa e , quando arrivo, prendo l’intrepida decisione di telefonare alla mia amica Clara per dirle quello che penso di lei. Compongo il suo numero senza perdere un istante e, quando la mia amica Clara alza la cornetta, le dico che prima non le avevo detto la verità e che, poiché gli amici servono per questo, mi sono promessa di correggermi e ora le dico tutto. Continuo a dirle che le voglio molto bene e che proprio per questo le dico che non è chiara con se stessa, che è ridicolo ossessionarsi per l’età e cercare di nasconderla, che è un’autentica pazzoide, che non conosco nessuno più confuso né più insicuro né più ossessivo di lei, che non sa ascoltare, che, a volte, da l’impressione di non vedere niente al di là del suo stesso naso e che la lucidità non è proprio il suo forte.
Quando finisco il mio sproloquio e le ripeto la profonda amicizia che provo nei suoi confronti, Clara mi ringrazia per la mia sincerità con la voce tremante e spezzata di chi sta per mettersi a piangere da un momento all’altro. «A volte», mi dico, « bisogna far del male». Nell’abbassare il telefono, provo un sensibile sollievo e corro a cercare la mia agenda mentre cerco di decidere chi chiamerò per raccontargli la storia che muoio dalla voglia di raccontare
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(Traduzione di Samanta Catastini)

Mercedes Abad (Barcellona, 1961), è giornalista di professione e scrittrice per vocazione. Nel 1986 vince il premio “ La sonrisa vertical” grazie al suo primo libro di racconti Leggeri libertinaggi sabbatici, ben accolto dalla critica e dal pubblico. Nel 1989 pubblica un secondo libro sempre di racconti, Felicità coniugali, con il quale rafforza la sua fama di scrittrice. Oltre ad occuparsi di opere teatrali , collabora a molti mezzi di comunicazione quali la stampa, la radio e il cinema. Nel 1995 afferma il suo talento di narratrice pubblicando una terza raccolta di racconti, Soffiando al vento, dal quale è stato estratto il presente testo. Con quest’ultimo libro mostra la sua destrezza della narrativa breve, sempre accompagnata da una triste o gioiosa nota umoristica.


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