ALDA MERINI: "IO VIVO NELL'APERTO DELL'ANIMA"

 

Mia Lecomte

Lungo le rive del Naviglio Grande, proprio di fronte alla bellissima chiesa di S.Maria del Naviglio, in uno dei pochi caseggiati popolari rimasti tali, vive Alda Merini: due camere in affitto, povere e regali.
La Merini è nata, seconda di tre fratelli, lungo la via S.Vincenzo, da due genitori molto amati, la madre figlia di insegnanti di Lodi e il padre impiegato alle Assicurazioni Generali Venezia: "Sono nata il ventuno a primavera/ ma non sapevo che nascere folle,/aprire le zolle/potesse scatenar tempesta./ Così Proserpina lieve/ vede piovere sulle erbe,/sui grossi frumenti gentili/ e piange sempre la sera./Forse è la sua preghiera". Ma sui Navigli, in questo angolo in cui Milano riconosce ancora un poco se stessa, ha abitato dalla fine della guerra ad oggi: "Milano dove è nata la mia poesia/ e dove la mia poesia è morta/lungo il Naviglio che geme..". Da qui cominciò a frequentare appena sedicenne la sua prima società poetica, riunita nella casa di Giacinto Spagnoletti in via del Torchio: Luciano Erba, Giorgio Manganelli, Davide Turoldo, Maria Corti; nel 1950 il primo a pubblicare i suoi versi fu proprio Spagnoletti nell' Antologia della poesia italiana 1909-1949. La sua fu una vocazione poetica precoce, come precocemente iniziarono quei turbamenti della mente che già nel '47 la costrinsero ad un soggiorno di un mese a Villa Turro. Poi gli amici la affidarono alle cure di Musatti, e di Fornari, al quale la Merini rimase molto legata, e le insegnava che il manicomio "è come la rena del mare: se entra nelle valve di un'ostrica, genera perle". Dal 1965 al 1972 venne internata al Paolo Pini, in cui fu ricoverata a fasi alterne fino al '79:" Il manicomio è una grande cassa/ con atmosfere di suono/ e il delirio diventa specie,/ l'anonimità misura,/ il manicomio è il monte Sinai/luogo maledetto/sopra cui tu ricevi/le tavole di una legge/ agli uomini sconosciuta." Da quegli anni di malattia la sua poesia attinse sentimenti e motivi :"..io sono poeta/ e poeta rimasi tra le sbarre/ solo che fuori, senza casa e persa/ ho continuato mio malgrado il canto/della tristezza.."; si nutrì dell'esperienza del dolore, e ne divenne scopo, completamento - "Le più belle poesie/ si scrivono sopra le pietre/ coi ginocchi piagati" -ed insieme antidoto: "O mia poesia, salvami/ per venire a te/ scampo alle invitte braccia del demonio..".
Nelle due stanze dove vive Alda Merini c'è poca luce, filtra da imposte rotte, abbassate di sghimbescio. Nella semi oscurità si intravede un magma irreale di oggetti di ogni tipo: vecchie cucine a gas, carte, elettrodomestici arrugginiti, pupazzi da fiera, bottiglie, pagine di riviste incorniciate, qualche libro, manifesti che rispecchiano Merini come un'eco. Ci sono cose sparpagliate dovunque, accattastate su ogni superficie, ammucchiate per terra, non esiste il vuoto, e ha una sua sontuosità questo universo di barocca indigenza: "..io ho un chiaro disegno/di povertà come una veste ardita". Una piccola pianola sta a ricordare il pianoforte, strumento tanto amato dalla poetessa, che ne dovette interromperne lo studio alla nascita del fratellino; il trauma fu causa dei suoi primi squilibri, e insieme dello sgorgare copioso di una poesia tanto melodica, endecasillabica. Sopra una scatola stinta è appoggiata una macchina da scrivere senza nastro, che la Merini utilizza servendosi della carta carbone, con le parole che si materializzano magicamente, tutte insieme; non corregge mai quello che scrive, non lo rilegge neppure, lo abbandona in un angolo, o lo regala agli amici in strada, a qualche visitatore. Si entra in queste stanze come nell'antro della Sibilla: è il regno di un disordine cosmico, in cui gli oggetti sono in balìa di un vortice continuo, e le parole si ricompongono all'infinito in versi d'amore dedicati al primo marito Ettore Carniti, da cui la Merini ebbe quattro figlie, o al secondo, l'anziano poeta tarantino Michele Pierri, o a Charles, o a Titano, clochards dei Navigli; versi strazianti d'amore materno frustrato dalle continue separazioni: "Pensiero dove hai le radici?/Nella mia anima folle/o nel mio grembo distrutto?" ; versi d'amore a quel Dio da cui fu marchiata con il "duro crogiuolo", al Quale, da ragazza, venne impedito di consacrarsi totalmente: "Dio non è un'alternativa all'amore terreno. Dev'essere una scelta, un tocco come di pianoforte..". Un Dio incontrato nei momenti di maggiore pena: "..dove le urla venivano attutite da sanguinari cuscini/laggiù tu vedevi Iddio/ non so, tra le traslucide idee/ della tua grande follia./Iddio ti compariva/e il tuo corpo andava in briciole,/delle briciole bionde e odorose/che scendevano a devastare/sciami di rondini improvvise"; e cercato, invocato per ricostituire in unità i mille frammenti di un'esistenza scomposta: "O Amore, o Segno, fammi più vicina/all'equilibrio esatto del mio cuore;/fa che mi ridivori nel suo centro/ e che sia portatrice del mio nome/ come si regge un fiore sullo stelo!". La casa di Alda Merini ha il respiro di un corpo, il suo corpo: segnato da quel dolore che "inizia in modo straordinario a ogni tipo di conoscenza": "Le mie impronte digitali/ prese nel manicomio/hanno perseguitato le mie mani/ come un rantolo che salisse la vena della vita.."; un corpo vestito di una "vecchiezza multicolore", il viso pieno, come una" grande lacrima del Naviglio", gli occhi lucidi ed ironici. E nello stesso tempo è il compimento del corpo, la sua maturazione ultima, l'antro sapienziale della disgregazione della materia, pervaso da una forza che la fa esplodere in un disordine di polvere e povertà; e, dal fondo, è il profilo dell'anima a rimanere scoperto, dolente: "Corpo, ludibrio grigio/con le tue scarlatte voglie,/fino a quando mi imprigionerai?/ Anima circonflessa/circonfusa e incapace,/anima circoncisa,/che fai distesa nel corpo?". La casa di Alda Merini è soglia di ogni trapasso, quel lembo di confine: "Ci si può anche sentire spiaggia/ con la sua terra che non è già più terra/ la sua anima che non è ancora tutt'anima,/ misti a un'immensità che può chiamarsi musica/o amore, o fede..".


(Testo tratto da Luoghi poetici, Loggia de'Lanzi editrice, Firenze, 1998)


Mia Lecomte è nata a Milano e vive a Roma. Laureata il Lettere presso l'Università di Firenze con indirizzo Letterature Comparate, svolge attività critica nell'ambito della comparatistica, in particolare della letteratura italiana della migrazione.
E' autrice di numerosi lavori teatrali, e ha pubblicato: il saggio Animali parlanti. Le parole degli animali nella letteratura del Cinquecento e del Seicento (Firenze 1995); i libri per bambini La fiaba infinita e La fiaba impossibile (Torino 1987), Tiritiritère (Bergamo 2001); il volume fotografico Luoghi poetici (Firenze 1996), realizzato con il fotografo Sebastian Cortés, di cui è autrice e curatrice di testi ed apparato critico; e le raccolte poetiche Poesie (Napoli 1991), Geometrie reversibili (Salerno1996, Premio Città di Ostia 1997, segnalato Premio Internazionale E.Montale 1997), Litanìa del perduto (Prato 2002, testo a fronte in inglese. Con incisioni dell'artista canadese Erica Shuttleworth), Autobiografie non vissute (S.Cesario di Lecce 2004).
Le sue poesie sono state pubblicate in raccolte antologiche, italiane e straniere, e sulle riviste "Poesia","Pagine", "L'Area di Broca", "Specchio", "Le Voci della Luna","Sagarana on-line".
Per l'Editrice Zone di Roma dirige la collana "Cittadini della poesia", dedicata alla poesia della migrazione italofona.
E' redattrice del semestrale di poesia comparata “Semicerchio”, del quadrimestrale di poesia internazionale "Pagine", delle riviste di letteratura on-line "Kùmà", "El Ghibli" e "Sagarana", presso la cui scuola di scrittura, a Lucca, svolge un laboratorio di poesia all'interno del Master annuale.



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