COLORI

 

Alessandro Agus

 

Gli avevano preparato quella stanza, che poi era la sua da sempre, per accoglierlo com’era ora. C’era da chiedersi perché non l’avessero lasciato all’ospedale, allora, visto che sembravano averne portato anche l’atmosfera, insieme al letto di metallo leggero, snodabile, con testata regolabile e ruote, da cui non si era mosso dal giorno dell’incidente. Forse era la carenza di posti che costringe sempre i lungo-degenti a tornarsene prima o poi a casa, e la gente come me a rifugiarsi in questo lavoro. Perché non è per Amore del prossimo che uno se lo sceglie, ‘sto lavoro. Io, per esempio, mi ero appena laureata in lettere, quando Giacomo mi aveva lasciato con un bambino che lo adorava e una bambina, che aveva solo due anni, ma lo odiava già con molta maturità. In più era sparito, forse dai suoi in Sicilia, lasciandoci qui a Valenciennes, senza che neanche si potessero sistemare le cose per vie legali, e garantirci da parte sua un sussidio, per quanto non spontaneo. È per questo che avevo fatto il corso per infermiera, e poi mi ero messa a lavorare come assistente domiciliare; certe cose, come dice il mio macellaio, vanno sempre di moda, e così era anche per me. Nei casi come quest’ultimo, poi, la durata della degenza non è calcolabile, e anzi si presuppone, nel momento in cui l’ospedale li congeda, che sia illimitata. Quello poi era un ragazzo di diciannove anni, resistente, uno sportivo, c’erano tante foto di lui incorniciate col vetro, foto di lui sul surf, a giocare a hockey, in moto, e un paio di guanti da portiere, appesi a un chiodo, insieme a una sciarpa con i colori della squadra del cuore; guanti all’antica – era curioso – di cuoio cucito, senza quegli inserti pacchiani color fosforo come ha mio figlio, quello che vuole tanto bene a suo padre; forse erano anche quelli appartenuti a un padre, che peraltro non avevo mai visto in due mesi di servizio. La madre invece veniva due volte alla settimana, rovesciava una sacca di materiali necessari, pannoloni, lozioni anti-decubito, borotalco, pappine per l’alimentazione via tubo laringeo, pochi farmaci, soprattutto sedativi, e poi attaccava a piangere e raccontava sempre la solita storia, che il figlio era proprio bello, che avevano idea di portarlo a Ginevra, che lì c’era un neurochirurgo bravissimo, ma c’era da aspettare perché era giusto sfruttare il contributo statale, e dunque rispettare le liste d’attesa. E che comunque c’erano poche speranze, ed era tutta colpa di Laure, perché insomma lei faceva la civettuola e suo figlio voleva fare colpo e allora aveva fatto il matto con la moto. Lei, la mamma, non lo toccava mai, però. Né una carezza, un bacio, ma neppure lo guardava diritto, a dire la verità; eppure credeva fermamente, diceva lei, nel potere di resurrezione del contatto, della vita trasmessa, magari dalle mie mani mentre lo massaggiavo perché mantenesse un po’ di tono muscolare, o lo cambiavo di posizione per evitargli le piaghe. Era evidente che pretendeva troppo da me, e troppo poco dalla parte affettiva della terapia del contatto: sembrava volesse tenerlo come un fossile delicato, una mummia o un papiro, qualcosa di egiziano insomma, in un ambiente completamente sterile, come se non bastasse aver ricostruito nella sua camera una cella di ospedale. Anche il comodino, al centro tra il letto metallico ed un secondo letto, quello in cui dormiva quando il suo sonno era quello passeggero che dormono i sani, era di design sanitario, dovevano averlo comprato insieme al letto-barella, o forse l’avevano addirittura avuto omaggio. Aveva i buchi per le bottiglie, i cassettini per le posate, una ringhierina per non far scivolare giù le boccette dei medicinali, tutto in grigio chiaro e bianco. Un aspetto igienico, nulla da dire. Sull’altro lato del letto c’erano la macchina per l’alimentazione meccanica e un apparecchio che rilevava gli impulsi nervosi del cervello. Certo che di svegliarsi non sembrava averne voglia; gli occhi rovesciati, aperti, spaventosamente indipendenti tra loro, erano il fatto che mi inquietava di più, si muovevano troppo liberamente, sciolti dalla volontà del loro padrone, liberi nello spazio dell’orbita, pura materia, fluida, non-controllata, lasciata tutta alle leggi della meccanica. La barba gli cresceva, ma in quel caso potevo provvedere io a non farla crescere anarchica, faceva parte dei compiti, come è normale; la madre mi aveva però raccomandato di lasciargliela come Boban, il calciatore, un po’ a icona ortodossa, che era del resto come la portava lui in tutte le foto che erano nella stanza. Quando gli prendevo i polpacci per massaggiarli con l’unguento, risalendo poi lungo tutta la gamba, lui gorgogliava. Ma non era mai stato nulla più che un rimescolio che evidentemente gli si attivava dentro, sballottando un po’ il suo corpo. Del resto era meglio che non vedesse – se davvero non vedeva, e questo non lo so – le mattonelline azzurre che avevano preso il posto dell’intonaco, perché “proteggono meglio dall”umido”, come diceva la madre, forse per giustificare il suo senso estetico fanaticamente medicinale. Il pavimento, mi disse una volta, non lo aveva cambiato: era marmo bianco, quasi senza venature, una delle tante bizzarrie di quel suo figlio sportivo e bizantino. Le prime volte che lo facevo mangiare, accompagnavo lo scorrere della poltiglia dal tubo a dentro di lui con le paroline dolci che si dicono ai bimbi, e che in tanti altri casi simili al suo continuavo a usare con disinvoltura. Con lui però era diverso, mi trasmetteva la certezza che non ne aveva bisogno. Era il suo modo di rendere omaggio alla quiete sommessa della stanza, mi ero convinta. Del resto lì, con l’imposta sempre semichiusa, dietro il vetro isolante con l’aeratore, né aperta né chiusa, con la luce che scivolava su tutte quelle superfici lisce, sbiadiva le fotografie, che si potevano vedere nei dettagli solo avvicinandoci il naso, lì qualsiasi gesto non misurato, sacro, pulito, sarebbe stato fuori posto. Come quando si entra da qualcuno che dorme e si fa tutto felpato, non solo il passo, quando non lo si vuole svegliare. Certo che nel suo caso era un po’ incongruo… Forse avevano deciso già che doveva rinascere a Ginevra, e magari lo avrebbero riscritto anche sulla carta d’identità “nato a Valenciennes il 2 maggio 1984, rinato a Ginevra il…”, o tra i segni particolari che so…
Quando la madre se andava, non restava mai più di venti minuti, riprendevamo noi il filo del nostro discorso sottinteso: direi che ci capivamo bene e ci rispettavamo, “te fai il tuo lavoro e io faccio il mio; qui dentro non c’è altro da fare; rispettare le consegne, io faccio quello con la morte cerebrale e te mi badi; tutto qui; non difficile; è tutta la vita che ci hanno concesso, mezzi toni; ci saremmo piaciuti in un momento più colorato, peccato…” Era stato tutto deciso prima di noi, e io avevo anche promesso a sua mamma che non mi sarei presa nessun libertà in contravvenzione agli ordini medici, “quelle libertà da praticone che le infermiere credono di potersi permettere”, aveva precisato lei.
Ieri non trovavo il blando tranquillante, come lo chiamavano, lo lascio sempre nell’angolo in alto a destra del comodino; l’ho cercato in tutta la stanza, a altezza d’uomo, non c’era; poi, per scrupolo, mi sono chinata per vedere se la boccetta non fosse rotolata a terra; ho notato per la prima volta che nel comodino, tra il cassetto e le zampe, c’è un piccolo vano, vuoto. Ci ho messo una mano, non certo perché pensavo di trovare lì la boccetta; l’ho mossa, esplorando quello spazio col tatto, qualcosa c’era; l’ho presa; una scatola di pennarelli colorati, di quelli da bambini delle elementari, con tutte le sfumature per imparare i nomi dei colori; l’ho messa in borsa, per portarli alla mia bimba; tanto erano tristi, lì, i colori…






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