Succhiare noccioli

Hanif Kureishi

 

Qualcosa a cui aspirare, ecco cosa voleva; qualcosa, anche se misero. Ogni sera, quando rientrava in auto a casa dalla scuola e attraversava il traffico della periferia, arrabbiata e distratta, con un audiolibro nello stereo e suo figlio seduto sul sedile posteriore, sperava di avere ricevuto una lettera da un editore o da un agente letterario. O poteva essercene una da un teatro, se aveva cercato di scrivere una commedia. A volte, abbastanza spesso, riceveva delle "lettere di incoraggiamento". Non costavano niente, ma a lei facevano piacere.
Mentre apriva la porta e suo figlio correva in casa ad accendere la televisione, trovò sullo zerbino un biglietto della famosa scrittrice Aurelia Broughton; era vergato a mano, in inchiostro nero su un cartoncino grigio estremamente formale. Lo lesse due volte.
"Questo è eccitante," disse ad Alec. "Puoi guardarlo ma non toccarlo." Lui studiava alla scuola dove lei insegnava a bambini di sette anni. Lo lesse di nuovo. "Interesserà molto quei maiali del gruppo di scrittura. Be', meglio andare avanti."
Tre anni prima Marcia aveva pubblicato un racconto in una rivista per nuovi scrittori. L'anno prima una sua commedia di un'ora aveva avuto una prova generale in un circolo artistico del posto. Era stata diretta da uno zelante ed energico ragazzo, che lavorava in pubblicità ma amava il teatro.
Marcia era stata sconcertata da quanto poco gli attori somigliassero alle persone sulle quali i loro personaggi erano basati. Uno degli uomini portava anche i baffi. Con quanta noncuranza gli attori spingevano il suo lavoro in una direzione che lei non aveva neanche preso in considerazione. Dopo, c'era stato un dibattito al bar. Alcuni membri del gruppo di scrittura erano venuti a sostenerla. Le giovani facce da istrioni, quell'agitarsi di mani, le interruzioni appassionate cominciarono a divertirla. Stavano discutendo del suo lavoro!
Il regista la prese da parte e disse: "Devi mandare questo lavoro al National Theatre! Stanno cercando nuovi scrittori".
Aveva dimenticato che quest'anno Marcia avrebbe compiuto quarant'anni.
Un paio di mesi più tardi, quando la commedia le venne restituita, non aprì la busta. Non sapeva come andare avanti. A volte si sentiva così, anche se adesso tutto diventava sempre più minaccioso. Aveva continuato a scrivere per anni e non aveva mai abbandonato la speranza. Il suo bisogno di pubblicare, di diventare orgogliosa del suo lavoro, era anzi diventato più intenso. Di recente aveva cominciato a scrivere a letto, a volte per quindici minuti. Altre volte riusciva ad andare avanti solo per cinque. Di mattina - ah, quanto erano inutilmente forti e chiare di mattina le parole! - scriveva con il cappotto addosso davanti al tavolo della cucina, con la borsa per la scuola già pronta e suo figlio che aspettava alla porta, giocando con le palline da tennis. Era il massimo che potesse fare. Altre volte desiderava fortemente farsi del male. Ma l'automutilazione era un linguaggio impreciso. Le cicatrici non potevano parlare.
Marcia ficcò il cartoncino nella borsa insieme alle penne e al bel taccuino sul quale prendeva appunti. Li chiamava "gli strumenti del suo amore".
Mentre Alec faceva merenda, telefonò a Sandor, il suo "ragazzo" - anche se aveva giurato di non parlargli più - e gli disse del biglietto. Lui non badò all'entusiasmo di lei; era una cosa che non capiva. Ma lei non poteva farsi scoraggiare.
Andarono in auto a casa di sua madre, a dieci minuti di distanza. Era la casa ordinaria, semisolata in cui Marcia era cresciuta, dove sua madre viveva sola.
Fece uscire Alec e gli passò la borsa per la notte.
"Corri alla porta e suona il campanello. Non ho tempo per fermarmi."
Marcia guidò verso la fine della strada in cui aveva montato in bici da bambina. Fece inversione e superò la casa, suonando il clacson e accelerando mentre sua madre si affrettava in ciabatte al cancello, sollevando la mano come per fermare l'auto, con Alec accanto.
I membri del gruppo di scrittura stavano preparando il tè e sistemando le sedie nella fredda stanza in cui si incontravano una volta a settimana. Gli altri giorni veniva usata da gruppi di scout, cadetti dell'aeronautica e trotzkisti. Marcia aveva dato l'avvio al gruppo mettendo un annuncio su un giornale locale. In origine doveva essere un circolo di lettura; pensava che sarebbero venute più persone. All'ultimo momento cambiò "lettura" in "scrittura". Due dozzine di raccolte poetiche, sceneggiature e un romanzo completo caddero nella sua cassetta della posta. Non era la sola a volere offrire un contributo con la sua opera.
Dodici persone sedevano su sedie dure, in circolo, e leggevano di fronte agli altri. Nel corso dei due anni precedenti avevano declamato terribili confessioni che provocavano solo silenzio e lacrime; erano sogni e fantasie, episodi di soap opera e di quando in quando qualche pagina scritta con fervore e immaginazione, e di solito era fornita da Marcia.
Il gruppo non doveva avere nessun leader ufficiale, anche se spesso Marcia si trovava in quella posizione. Le piacevano l'ammirazione, e anche il disprezzo e l'invidia, che trovava atteggiamenti "letterari". Teneva sempre almeno una biografia di un autore sul comodino e sapeva che la scrittura era uno sport da contatto. A Marcia piaceva anche parlare della scrittura e di come si sviluppasse la creatività, come se fosse un mistero di cui un giorno si sarebbe impadronita. Sapeva che analizzare la relazione fra linguaggio e sentimento, sentire i nomi di scrittori, e parlare dei loro affari e delle loro disastrose storie personali, era ciò che voleva fare.
Sentiva anche che era un atteggiamento indulgente verso se stessa. La vita non poteva essere fare quello che vuoi tutto il giorno. In effetti, non era quello che faceva Aurelia Broughton?
Le infermiere, i ragionieri, gli impiegati di librerie e i commessi che componevano il gruppo di scrittura -tutti in qualche modo frustrati - facevano del loro meglio. Ciascuno di loro aveva la fiducia, la convinzione, la speranza di potere interessare e sedurre gli altri. Scrivevano quando potevano, nell'intervallo del pranzo o nelle ore tarde della notte. Eppure le loro storie zoppe cadevano in un abisso, non colmavano mai la distanza elettrica che c'è tra le persone. Questi "scrittori" facevano errori marchiani e reagivano con stupore e irritazione quando altri nel gruppo li facevano notare. Non credeva di essere pazza; non poteva crederci. Nessuno di loro lo credeva.
"Grugnisco, grugnisco, grugnisco."
Marcia si infilò gli occhiali e osservò il ragazzo che si era alzato in piedi a leggere, un cameriere della pizzeria a High Street. Era venuto a casa e aveva giocato con Alec. Era carino, anche se un po' strano. Aveva una cotta per Marcia. Dopo qualche incontro in cui aveva letto George Sand, lei aveva deciso di dargli una possibilità. Prima aveva pianto quando gli avevano chiesto di leggere ad alta voce. Marcia ora rimpiangeva di averlo persuaso a "condividere" il suo lavoro. Non si poteva capire come fosse la scrittura di una persona solo dal suo aspetto. Questo ragazzo aveva scritto un lungo racconto su un cameriere in una pizzeria. Il cameriere cercava di far nascere un verme solitario che cresceva dentro il suo corpo. Mentre il grosso verme grigio prendeva la sua interminabile e viscida strada verso la luce, attraverso il retto del cameriere - e Dio aveva creato il mondo più velocemente - Marcia abbassò il capo e rilesse il biglietto di Aurelia Broughton.
A scuola, due settimane prima, Marcia aveva visto sul giornale che Aurelia Broughton avrebbe fatto una lettura di estratti dal suo ultimo romanzo. Quella stessa notte. Istintivamente, ma conscia del fatto che aveva bisogno di qualcuno che le mostrasse la strada, aveva lasciato Alec da sua madre e aveva guidato fino a Londra. Aveva parcheggiato sulle strisce gialle e preso l'ultimo biglietto. La sala era piena. Persone che avevano appena lasciato l'ufficio erano in piedi sulle scale. Studenti sedevano a gambe incrociate sul pavimento. Ci fu qualcuno che batté le mani e poi un sibilo per invitare a fare silenzio quando Aurelia si avvicinò al leggio. All'inizio era nervosa, ma quando si accorse che il pubblico la sosteneva, entrò come in uno stato di trance; le parole scaturivano naturalmente da lei.
Dopo, vennero sollevate molte domande piene di rispetto da parte di persone che conoscevano bene le sue opere. Marcia si chiedeva perché fossero venuti. Perché lei stessa era venuta? Non era solo il bisogno di sentire della poesia e di trovare sostegno. Forse, pensò Marcia, sarebbe riuscita a localizzare il talento di Aurelia osservandola attentamente. Era negli occhi, nelle mani o nella persona in generale? Il talento era intelligenza, passione o solo un dono? Poteva essere sviluppato? Osservare Aurelia l'aveva spinta a riflettere sul mistero per cui alcune persone e non altre possano fare certe cose.
Aurelia aveva fatto un'osservazione interessante. Marcia aveva pensato alla sua stessa abilità di scrittura come a una specie di torcia a batteria, come una forza dall'intensità alternata, che un giorno poteva spegnersi di colpo.
Tuttavia Aurelia aveva detto, con un senso di grandiosa finalità: "La creatività è come il desiderio sessuale. Si rinnova giorno per giorno". Continuò: "Non smetto mai di avere idee. Nascono come in un flusso. Posso scrivere per ore, e il giorno dopo non vedo l'ora di ricominciare".
Qualcuno tra il pubblico commentò: "È come un'ossessione, allora". "No, non è un'ossessione. È amore," disse Aurelia. Tutto il pubblico voleva una vita trasformata dall'arte.
Marcia si accodò agli altri perché Aurelia le firmasse il suo costoso libro in edizione rilegata. La scrittrice era circondata da giornalisti e impiegati del negozio, che le aprivano e le passavano i libri. Con indosso gioielli, vestiti costosi e una stravagante sciarpa di seta, Aurelia sorrise e chiese a Marcia il suo nome, scrivendo una "e" al posto di una "a".
Marcia si sporse sul tavolo. "Anch'io sono una scrittrice."
"Più siamo, meglio è."
"Ho scritto..."
Marcia cercò di parlare con Aurelia, ma c'erano delle persone dietro di lei, che spingevano con penne, domande, pezzi di carta. Un assistente la spostò di peso.
Il giorno seguente, attraverso l'editore di Aurelia, Marcia le mandò il primo capitolo del suo romanzo. Accluse una lettera in cui parlava della sua difficoltà a capire certe cose. Nel corso degli anni aveva cercato di contattare altri scrittori. Molti non avevano risposto; altri avevano detto di essere troppo impegnati per vederla. Adesso Aurelia aveva scritto per invitarla a prendere un tè. Aurelia sarebbe stata la prima vera scrittrice che incontrava. Una donna con cui Marcia avrebbe potuto avere conversazioni vitali, dirette.
Oggi Marcia scosse la testa quando le venne chiesto se avesse qualcosa da leggere al gruppo. Dopo, non andò a bere con gli altri ma si allontanò immediatamente.
Mentre stava salendo in macchina, il ragazzo che aveva scritto la storia del verme solitario le corse dietro. "Marcia, non hai detto niente. Ti piaceva? Non avere paura di essere dura."
Sembrava che si muovesse verso di lei mentre aspettava una risposta. Era già stata accusata, nel gruppo, di essere poco incoraggiante, perfino sprezzante. Era vero che un paio di volte era dovuta uscire, perché le veniva da ridere.
Lui disse: "Sembri persa nei tuoi pensieri".
"La scuola," disse lei. "Credo che non me ne libererò mai."
"Scusa. Credevo fosse stato il verme."
"Il verme?"
"Il racconto che ho letto."
Lei disse: "Non mi sono persa neanche un grugnito. Sta venendo fuori, il lavoro... Viene fuori... bene, no?" Gli diede una pacca sulla spalla e salì sull'auto. "Ci vediamo la settimana prossima, probabilmente."
Il suo salotto era disseminato di giocattoli. Si ricordò di un amico che diceva che i bambini ti costringono a vivere nello squallore. Nell'angolo della stanza l'umidità aveva cominciato a sgretolare l'intonaco, lasciando uno strato di polvere bianca sul tappeto. Gli scaffali dei libri, ficcati sgraziatamente a martellate negli incavi del muro da quell'incapace di suo marito, erano curvi al centro e stavano uscendo dai mattoni.
Scrisse per dire ad Aurelia che sarebbe stata contenta di vederla il giorno che lei aveva fissato.
Marcia mise il biglietto di Aurelia accanto ai libri e alle raccolte di racconti di lei e cominciò a scrivere. Sarebbe andata a trovare Aurelia e avrebbe portato con sé un bel pezzo del suo romanzo. Aurelia conosceva tutti; poteva aiutarla a trovare un editore.
Il mattino dopo Marcia si svegliò alle cinque e scrisse nella casa fredda fino alle sette. Quella notte, quando Alec andò a letto, riuscì a lavorare un'altra ora. In genere, quando aveva una buona idea, cominciava a pensare a un motivo per il quale non era affatto una buona idea. L'entusiasmo di suo padre e la disperazione di sua madre avevano creato una creatura che faceva un passo avanti e uno indietro con il solo risultato di rimanere ferma nello stesso posto. Era talmente dura con se stessa - perché non fai così, non vedi che è meglio? - da trasformarsi in una bambina spaventata, rannicchiata in un angolo.
L'urgenza di preparare qualcosa per Aurelia fece piazza pulita dei dubbi di Marcia. Era così che le piaceva lavorare; c'era solo la penna, il foglio e qualcosa di urgente che correva fra i due.
Durante il giorno, anche mentre urlava ai bambini o ascoltava le lamentele dei genitori, Marcia pensò spesso ad Aurelia, talvolta con un senso di fastidio. Aurelia le aveva chiesto di andare a casa sua alle sedici e trenta, un'ora in cui Marcia era ancora a scuola. Visto che Aurelia viveva a West London, a una distanza di due ore di automobile, Marcia avrebbe dovuto trovare una scusa e prendersi il giorno libero in modo da prepararsi a vederla. Questo era il genere di cose di cui gli scrittori famosi non dovevano preoccuparsi.

Qualche giorno più tardi erano in piedi nella vecchia cucina e guardavano fuori il giardino in cui lei, suo padre e suo fratello minore avevano giocato a tennis con una minuscola rete, quando Marcia decise di raccontare a sua madre le buone notizie.
"Mi ha scritto Aurelia Broughton. Sai, la scrittrice. L'hai sentita nominare, no?" "Sì, l'ho sentita nominare," disse la madre.
Sua madre era piccola di statura, ma robusta. Indossava due pullover fatti a maglia e un cardigan pesante che la facevano apparire ancora più grossa.
Sua madre disse: "Ho sentito nominare un mucchio di scrittori. Che vuole da te?" Alec andò nel giardino e diede un calcio a un pallone. Marcia avrebbe voluto che suo padre fosse vivo per giocare con lui. A tutti loro mancava la presenza di un uomo. "Ad Aurelia è piaciuto quello che ho scritto." Marcia sentiva di avere il diritto di chiamare la scrittrice Aurelia; sarebbero diventate amiche. "Vuole parlarmene. Non è fantastico? È interessata a quello che faccio."
Sua madre disse: "Devi prestarmi uno dei suoi libri, così posso capire chi è".
"Veramente adesso li sto rileggendo io."
"Non durante il giorno. Vai a scuola."
"A scuola leggo."
"Tu non mi fai mai partecipare. Vengo messa da parte. Questi sono gli ultimi anni della mia vita..."
Marcia la interruppe. "Avrò bisogno di scrivere un po' nelle prossime due settimane."
Questo significava che la madre avrebbe dovuto badare ad Alec di sera, e per parte del fine settimana. Suo padre veniva a prenderlo il sabato pomeriggio e lo riportava la domenica. Marcia disse: "Può passare la domenica con te?" Sua madre assunse subito la sua espressione "da sfruttata". "Per favore."
Sua madre aveva la stessa espressione che aveva sempre avuto in passato, quando aveva dovuto badare a due bambini e un marito, e con la sua sofferenza aveva reso evidente quanto considerasse la sua famiglia schiacciante e insoddisfacente. I depressi hanno una grande forza di volontà, capace di distruggere ogni forma di vita sensibile per miglia e miglia intorno a loro. "Avevo un piccolo appuntamento, ma lo cancellerò."
"Se non ti dà troppi problemi."
Da quando il padre di Marcia era morto, sei anni prima, sua madre aveva cominciato ad andare per musei e gallerie. Di sera, dopo una cena a base di salmone affumicato e formaggio morbido, andava spesso a teatro o a cinema. Per la prima volta da quando era giovane aveva amici con i quali andava a conferenze e concerti, rientrando a casa in taxi, spendendo la liquidazione del padre. Aveva anche cominciato a fumare. Sua madre aveva afferrato che era tardi per continuare a vivere male.
Marcia non voleva aspettare trentatré anni.
Recentemente, aveva acquisito una tremenda consapevolezza della vita. Forse tutto era cominciato quando aveva incontrato degli uomini attraverso un'agenzia per cuori solitari, cosa che l'aveva fatta sentire un po' morbosa. Fino a poco tempo prima aveva vissuto convinta che un giorno avrebbe trovato un rimedio per le sue ferite; qualcuno, un genitore, un amante, un benefattore, sarebbe venuto a sollevarla dal caos.
Marcia non aveva insegnato fino a trent'anni. Lei e suo marito erano arrivati a desiderare di spaccarsi la faccia a vicenda. Lei lo aveva, letteralmente, cacciato a calci dal letto; lui era corso in strada in pigiama e pantofole. Senza di lui, le era rimasto un bambino, un mutuo e un reddito insignificante, perché lavorava in un bar e di mattina scriveva. Il primo giorno del corso di formazione per insegnanti era stato terribile. Lei aveva sempre pensato che avrebbe portato sciarpe come Aurelia Broughton e avrebbe scritto con una penna stilografica d'oro.
Marcia collezionava storie di donne il cui talento artistico alla fine veniva riconosciuto. Credeva nell'insistenza e nella dedizione. Se non fosse diventata una scrittrice, come avrebbe potuto continuare a vivere, che considerazione avrebbe avuto di sé? Una volta diventata una vera scrittrice, la sua anima non sarebbe più stata nascosta; la gente la avrebbe conosciuta per quella che era. Essere un'artista, vivere una vita da sola, concentrata su se stessa, e seguire l'immaginazione significava vivere per se stessi, e allo stesso tempo essere utili agli altri. La creatività, la fusione di ragione e immaginazione, era lo scopo supremo della vita.
Se entrava in una libreria e vedeva dozzine di libri commerciali con le copertine dai colori orribili, sapeva che quegli scrittori di nessun valore e, spesso giovani, guadagnavano. Le sembrava tragico e ingiusto che, a differenza di loro, lei non potesse entrare nei negozi e comprare i mobili, i vestiti e la musica che voleva.
"So che odi che mi metta in mezzo," disse la madre, "ma non vorrei che tu dovessi arrivare alla fine della tua vita per scoprire che hai sprecato tutto il tuo tempo."
"Come papà?"
"A riempire pezzi di carta scrivendo e scrivendo tutte le sere."
"Com'è possibile che esprimersi sia una perdita di tempo?"
All'età di otto anni, dopo avere visto ballare Margot Fonteyn, Marcia aveva voluto diventare una ballerina; o almeno, sua madre lo aveva voluto per lei. Marcia aveva frequentato una costosa scuola di balletto e sua madre, che non aveva mai lavorato, era andata in una fabbrica a impacchettare scatole per pagarla. Marcia lasciò la scuola a sedici anni per lavorare come ballerina, ma, oltre a non essere brava come le altre e a mancare della vanità e dell'ambizione necessarie, era terrorizzata di salire sul palcoscenico. Ora la madre teneva tre paia di scarpette da ballo di Marcia sul caminetto, per ricordare a Marcia come avesse reso vani gli sforzi di sua madre.
"Alec è sempre qui intorno," disse sua madre. "Non che io non abbia bisogno di compagnia. Ma sarebbe bene che quella scrittrice ti offrisse qualche indicazione sul tuo... lavoro. Conoscerà delle persone che lavorano nelle redazioni."
"Stai parlando di nuovo del lavoro ai giornali?"
Sua madre suggeriva spesso a Marcia di diventare giornalista, di scrivere magari per la pagina femminile del Guardian, articoli che trattassero di stress da superlavoro o molestie sessuali sui bambini.
Marcia si spostò nel salotto. Sua madre la seguì dicendo: "Faresti dei soldi. Potresti stare a casa e nello stesso tempo scrivere romanzi. Non sarebbe male se facessi qualcosa che ti procura un po' di entrate".
Marcia di nascosto aveva scritto articoli che aveva inviato al Guardian, al Mail, a Cosmopolitan e ad altre riviste femminili. Le erano stati rimandati indietro. Lei era un'artista, non una giornalista. Se solo sua madre fosse riuscita a capire che si trattava di due cose diverse. Marcia camminò su e giù per la stanza. La carta da parati aveva delle strisce a colori vivaci, e c'era solo una luce centrale. Suo fratello diceva sempre che era come vivere in un dipinto di Bridget Riley. La poltrona grossa con un puff di fronte, su cui sua madre teneva le riviste televisive e i suoi cioccolatini, se ne stava lì come sua madre stessa, seduta, pesante e immobile. Marcia non voleva sedersi, ma non poteva andarsene così su due piedi quando era venuta a chiedere dei favori.
Marcia disse: "Tutto quello che voglio da te è che mi aiuti a trovare un po' di tempo per me stessa".
"E io allora?" disse sua madre. "Non ho preso neanche una tazza di tè oggi. Non ho bisogno di un po' di tempo anch'io?"
"Tu?" disse Marcia. "Tu ti compatisci ma io ti invidio." Il volto di sua madre cominciò a diventare rosso.
Marcia si sentiva svuotata, ma incapace di trattenere le parole che le venivano fuori. "Sì. Vorrei starci io vent'anni seduta a casa, mantenuta da un uomo come si deve, a fare la "casalinga". Pensa a quello che avrei potuto scrivere. Le pulizie al mattino, il lavoro vero il pomeriggio, prima di prendere i bambini a scuola. Non avrei sprecato un momento... non un solo momento di tutto quello straordinario tempo libero!"
Sua madre affondò nella poltrona e si mise le mani sul volto.
"Trovati un uomo, allora, se ci riesci," disse. "Che vorresti dire?" chiese Marcia, infervorata. "Qualcuno che voglia mantenerti. Come si chiama quel tipo?"
Marcia mormorò: "Sandor. Non è il mio fidanzato. È solo uno che mi interessa un po'". "Non devi essere tu a essere interessata," disse sua madre. "Quelle sporche creature, sono loro che si interessano a te. Che fa?"
"Lo sai che fa."
"Non puoi trovare di meglio?"
"No, non posso," disse Marcia. "Non posso."
Sua madre amava vivere sola, e se ne vantava continuamente. Quando Marcia era una bambina, in quella casa vivevano sei persone e tranne sua madre erano tutte morte o se ne erano andate via. Sua madre sosteneva che da sola poteva fare tutto quello che le pareva e in qualunque momento le pareva; a parte il piccolo problema di dare e ricevere affetto in senso sia fisico che emozionale, come Marcia teneva a sottolineare.
"Chi vuole un mucchio di uomini che ti corrono dietro come cani?" era la replica di sua madre.
"Chi non li vuole?" diceva Marcia.
Marcia si ricordava di suo padre seduto sul divano con il taccuino e la penna. Chiedeva a sua madre con aria noncurante di fargli una tazza di tè. Sua madre, qualunque altra cosa stesse facendo, doveva prenderla, piazzargliela davanti e aspettare di sapere se fosse di suo gradimento. Era dato per scontato che fosse al servizio di suo padre. Non c'era da stupirsi che avesse fatto della solitudine una filosofia di vita. Marcia ne avrebbe parlato con Aurelia.
Erano tre generazioni di donne, che vivevano vicine l'una all'altra. Anche la nonna di Marcia, novantaquattrenne, viveva sola, in un monolocale a cinque minuti di cammino. Era lucida e sapeva ridere; la sua mente funzionava, ma era piegata in due dall'artrite e pregava il Signore che venisse a prenderla. Suo marito era morto venti anni prima, e da allora lei era uscita di casa sì e no qualche volta. A Marcia sembrava un animale in gabbia, affamato di cose buone. Dov'erano gli uomini? Il nonno e il padre di Marcia erano morti; suo fratello, il dottore, era andato in America; suo marito era fuggito con una vicina.
Marcia andò in bagno, prese un valium, baciò Alec e andò alla sua automobile.

Quella notte, sola a casa a scrivere e bere - le piaceva pensare di essere solitaria e fiera come Martha Gellhorn nel deserto - telefonò a Sandor e gli raccontò dell'indifferenza e del disprezzo di sua madre, e del lavoro concentrato che stava svolgendo.
"Il romanzo sta davvero andando avanti!" disse."Non ho mai letto niente del genere. È così vero. Non riesco a credere che non interesserà a nessuno."
Parlò fino a quando non sentì che stava facendo conversazione con il vuoto. Un vuoto infinito. Perfino la sua analista, quando Marcia poteva permettersi di vederla, parlava di più. Aveva conosciuto Sandor in un pub dopo che l'uomo con cui era uscita, estratto da una cartella nera nell'agenzia di cuori solitari, aveva trovato una scusa e se ne era andato. Che c'era di sbagliato in lei? Quell'uomo le arrivava solo al petto! Una donna del gruppo di scrittura usciva con un uomo diverso ogni settimana. Era incredibile, diceva, quanti di loro fossero sposati. Sandor non lo era.
Dopo il suo monologo, chiese a Sandor cosa stesse facendo.
"Sempre lo stesso," disse lui e rise.
"Verrò a trovarti," disse lei.
"Perché no? Io sono sempre qui."
"Sì, in effetti," disse lei.
Lui rise di nuovo.
Lo vedeva circa una volta al mese. Era un cinquantenne bulgaro. Faceva il portiere in un piccolo condominio a Chelsea, e viveva in una stanza a Earl's Court. Considerava il suo impiego, che aveva ottenuto dopo avere vagabondato in tutta Europa per quindici anni, il lavoro ideale. Con il suo vestito nero, dietro la scrivania all'ingresso, faceva entrare persone schiacciando un tasto, prendeva fatture e accettava fiori, sbrigava commissioni per gli inquilini e rileggeva i suoi scrittori preferiti, Pascal, Nietzsche, Hegel.
Nessuno degli uomini che aveva conosciuto attraverso l'agenzia era interessato alla letteratura, e nessuno si era rivelato bello. Sandor aveva il volto di un prete insicuro e il corpo del ciclista olimpionico che era stato. Era intelligente, educato e seducente in diverse lingue. Poteva, quando se la "sentiva", come diceva lui, sedurre tutte le donne che voleva senza sforzo. Aveva dormito con più di mille donne e non aveva stretto una relazione con nessuna di loro. Che tipo di uomo non aveva una ex moglie, bambini, familiari accanto, avvocati, debiti, una casa? Marcia si stupiva della sua stessa abilità a scoprire la malinconia nella gente. Avrebbe dovuto scongelare lo spirito morto di Sandor con la fiamma ossidrica del suo amore. Ma aveva sufficiente fiamma? Se solo avesse potuto trovare qualcosa di meglio da fare.
"Ci vediamo, Sandor," disse.
Si versò del vino dalla bottiglia che teneva accanto al letto. Riuscì ad addormentarsi, ma si svegliò subito dopo, piena di incontrollabile rabbia per suo marito, sua madre, Sandor, Aurelia. Capiva bene quei dipinti pieni di diavoli e demoni rannicchiati e contorti. Esistevano, certo, esistevano nella mente. Perché non c'era dolcezza, lì dentro?
Arrivò un'ora prima a casa di Aurelia, vide dov'era, parcheggiò e camminò lì intorno. Era un assolato giorno invernale. Non conosceva quella parte di Londra. Era piena di negozi di antiquariato, empori di cibi organici, caffè con giovani uomini e i loro bambini seduti dietro le vetrine. Le persone se ne andavano in giro in abiti scuri e occhiali da sole, e si fermavano in capannelli sul marciapiede per fare pettegolezzi. Riconobbe degli attori e un regista cinematografico. Guardò nella vetrina di un'agenzia immobiliare. Una casa familiare costava un milione di sterline.
Comprò mele, vitamine e del caffè. Scelse una sciarpa da Agnès b. e la pagò con la carta di credito, riuscendo a distogliere gli occhi dal prezzo, così come prima nel negozio era riuscita a evitare di scontrarsi con uno specchio.
All'orario convenuto, suonò il campanello di casa di Aurelia e aspettò. Una ragazza venne alla porta. Invitò Marcia a entrare. Aurelia stava finendo la sua lezione di pianoforte.
Nella cucina che dava sul giardino, due uomini stavano cucinando; nella sala da pranzo, un lungo tavolo lucido era ricoperto di argenteria e pesanti centrotavola. Nella libreria, Marcia esaminò dozzine di edizioni in lingua straniera dei romanzi, dei racconti e dei saggi di Aurelia: il risultato di una vita di scrittura.
Ci fu un suono alla porta ed entrò un uomo. Il marito di Aurelia si presentò.
"Marcia." Adottò la sua voce più middle-class. "Deve scusarmi," disse l'uomo. "Il mio studio è in fondo alla strada. Devo andarci."
"Lei è uno scrittore?"
"Ho pubblicato un paio di libri. Ma per guadagnarmi da vivere faccio conversazione. Sono uno psicanalista."
Somigliava a una rana, con i suoi grandi occhi allarmati. Marcia si chiese se riusciva a vedere i suoi segreti, e se poteva capire quello che lei aveva pensato: che lui era diventato un analista in modo che nessuno dovesse guardarlo.
"Che sciarpa incantevole," disse lui.
"Grazie."
"Arrivederci."
Aspettò, sbirciando tra le pagine del romanzo che aveva portato perché Aurelia le leggesse. In quell'ambiente sembrava robaccia.
Vide che Aurelia era nell'ingresso.
"Arrivo da lei tra un minuto," disse Aurelia.
Aurelia chiuse la porta dietro l'insegnante di pianoforte, la aprì a un uomo che consegnò dei fiori, conversò con qualcuno in italiano al telefono, ispezionò la sala da pranzo, parlò al cuoco, disse alla sua assistente che non intendeva rispondere al telefono, e si sedette di fronte a Marcia.
Versò del tè e osservò Marcia a lungo.
"Mi è piaciuto abbastanza quello che mi ha mandato," disse Aurelia. "Quella scuola. Era come una finestra su un mondo sconosciuto."
"Ho scritto ancora," disse Marcia. "Ecco."
Mise i tre capitoli sul tavolo. Aurelia li sollevò e li depose di nuovo.
"Vorrei potere scrivere come lei," sospirò. "Scusi?" disse Marcia. "Dice davvero?" "I miei libri sono sempre lunghi. Ma non si potrebbe scrivere un pezzo lungo in quello stile."
"Perché no?" disse Marcia. Aurelia la guardò come se lei sapesse quello che diceva e non avesse certo bisogno del suo parere. Marcia disse: "Il fatto è che io non ho tempo per... l'estensione". Stava cominciando a entrare nel panico. "Quando scrive lei?"
"Ha incontrato Marty," disse. "Facciamo colazione presto. Deve andare al suo studio. Comincia alle sette. Poi semplicemente lo faccio. Non ho scelta, in effetti. A volte scrivo qui. O vado alla nostra casa a Ferrara. Per gli scrittori è raro che ci sia qualcos'altro a parte la scrittura." "La sua mente non vaga dappertutto pur di non fermarsi sul foglio?" disse Marcia. "Ha una disciplina di ferro? Non trova scuse assurde per non lavorare?"
"Scrivere è la mia droga. Lo faccio con facilità. Sto cominciando a dare forma al mio nuovo romanzo. Questa è la parte migliore, quando senti che sta cominciando qualcosa. Mi piace pensare," continuò Aurelia, "di potere creare storie dal nulla. Un mormorio, un cenno, un gesto... che faccio diventare un'altra forma di vita. Cosa può esserci di più appagante? Posso chiederle la sua età?"
"Trentasette."
Aurelia disse: "Lei ha qualcosa su cui puntare". "Che intende?"
"La fine dei trent'anni è per tutti un periodo di disillusione. I quaranta sono un'età meravigliosa, ci si illude di nuovo. Allora tutto ha un senso, e si ritrova una nuova finalità." Marcia osservò il poster di un film che era stato tratto da uno dei romanzi di Aurelia. Disse: "A volte la vita è così difficile... scrivere è impossibile. Non si sente mai disperata?"
Aurelia scosse il capo e continuò a guardare Marcia. Suo marito era un analista; le aveva sicuramente insegnato a non farsi allarmare dalle lacrime.
"Sono quei maledetti uomini che ci hanno tenuto a freno," disse Marcia. "Quando ero una ragazza, lei era una delle poche scrittrici contemporanee che le donne potessero leggere."
"Ci siamo tenute a freno da sole," disse Aurelia. "Disistima, masochismo, pigrizia, stupidità. Siamo abbastanza grandi da ammetterlo adesso, no?"
"Ma siamo - o almeno eravamo - vittime politiche."
"Balle." Aurelia addolcì la voce e disse: "Mi racconterebbe qualcosa della sua vita a scuola?" "Che genere di cose?"
"La routine. La sua giornata. Gli scolari. Gli altri insegnanti."
"Gli altri insegnanti?"
"Sì."
Aurelia era in attesa.
"Sono miopi," disse Marcia.
"In che senso?"
"Non hanno cultura. Gli interessano solo le soap opera."
Aurelia annuì.
Marcia accennò a sua madre ma Aurelia si spazientì subito. Comunque, quando Marcia raccontò dell'occasione in cui lei aveva proposto che si donasse il raccolto dell'Harvest Festival agli anziani delle comunità del Centro asiatico, e un paio di insegnanti si erano rifiutati di dare la frutta ai "paki", Aurelia presse appunti con la sua penna d'oro. Marcia aveva, in effetti, parlato di questo al preside, ma lui aveva fatto cadere la cosa dicendo: "Devo accontentare tutti in questa scuola".
Marcia guardò Aurelia come per dire: "Perché vuole sapere queste cose?"
"Mi è stata d'aiuto," disse Aurelia. "Voglio scrivere qualcosa su una donna che lavora in una scuola. Conosce molti insegnanti?"
I colleghi di Marcia erano insegnanti, ma nessuno dei suoi amici lo era. Un amico lavorava in un'impresa di costruzioni, un'altra aveva appena avuto un bambino e stava sempre a casa.
"Ci devono essere delle persone nella sua scuola con cui potrei parlare. Forse il preside?"
Marcia fece una smorfia. Poi ricordò di una cosa che aveva letto su un quotidiano a proposito di Aurelia. "Ma lei non ha una figlia che va a scuola?"
"Lì c'è il tipo sbagliato di insegnanti."
"Scusi?"
"Cercavo qualcosa di più rozzo."
Marcia era imbarazzata. Disse: "Ha tenuto corsi di scrittura?"
"Sì, quando volevo viaggiare. Gli allievi sono pessimi, naturalmente. A molti avrei dovuto consigliare un trattamento psichiatrico. Un mucchio di gente non vuole scrivere, vogliono solo la fama. Dovrebbero passare ad altri obiettivi."
Aurelia si alzò. Mentre firmava a Marcia una copia del suo ultimissimo romanzo, chiese il suo numero di telefono a scuola. Marcia non riuscì a pensare a una ragione per non darglielo.
Aurelia disse: "Grazie per essere venuta a trovarmi; darò un'occhiata ai suoi capitoli". Alla porta disse: "Verrà a una festa che darò? Forse parleremo ancora. Le farò spedire l'invito".
Dall'altro lato della strada Marcia si fermò a guardare la casa illuminata e l'attività che ferveva lì dentro, finché non vennero chiuse le persiane.
Marcia aspettò accanto a Sandor, alla sua scrivania da portiere, finché lui non finì il lavoro alle sette. Andarono a bere nel pub dove si erano conosciuti. Sandor ci andava ogni sera a guardare lo sport alla televisione via cavo. Lui non chiese perché lei si fosse presentata così d'improvviso, e non nominò Aurelia Broughton, sebbene lei gli avesse telefonato per dirgli che stava andando a farle visita. Parlò di quanto amasse Londra e la sua liberalità; a nessuno importava chi o cosa fossi. Disse che se avesse mai avuto una casa l'avrebbe arredata come il pub in cui erano seduti. Parlò di quello che stava leggendo, Hegel, anche se in un modo così confuso che lei non ebbe idea di cosa stesse dicendo e perché lo interessasse. Le raccontò storie di delinquenti che aveva conosciuto e del fatto che lui faceva l'autista durante le fughe.
Le chiese se voleva andare a letto. La richiesta fu fatta in un tono di voce che diceva chiaramente che non era un problema se lei preferiva di no. Lei esitò solo perché il palazzo in cui lui aveva una stanza poteva essere considerato un museo dedicato agli anni cinquanta; senza contare che la sua stufa elettrica a due barre non riusciva a scalfire neanche un po' il blocco di ghiaccio mortale che si stagliava al centro della stanza. C'era anche il fantasma della proprietaria che si sedeva ai piedi del letto a mezzanotte.
"Non preoccuparti, le ho appena dato da leggere Delitto e Castigo." Sandor rise mentre seguiva Marcia nella propria stanza. C'erano pile di libri sul pavimento accanto al letto. La sua biancheria era appesa alla spalliera di una sedia. Tutto ciò che possedeva era qui. A letto con lui, si accorse delle fette di pane bianco e delle buste di latte sulla cassettiera.
"È tutto il tuo cibo?"
"Pane e burro mi saziano. Poi leggo per quattro o cinque ore. Non ho altre preoccupazioni."
"Non è un granché come vita."
"Perché?"
"Non sei in prigione."
Lui la guardò sorpreso, come se non gli fosse mai venuto in mente che non era in prigione e non doveva per forza adattarsi a tutto.
Lui la baciò e lei pensò di invitarlo a casa per il fine settimana. Era una persona gentile. Avrebbe fatto giocare Alec. Ma avrebbe finito per cominciare a contare su di lui; avrebbe preteso sempre di più, da lui. Se qualcuno gli avesse chiesto di volere di più, di cambiare, di modificare le cose, lui se ne sarebbe andato. Lei magari non lo voleva veramente, ma in ogni caso non voleva essere abbandonata.
Dopo, si alzò per vestirsi e lo guardò mentre se ne stava disteso con la mano sugli occhi. Non avrebbe mai potuto passare la notte in un posto così.

Quella notte, per la prima volta, desiderò che Alec non fosse nel letto di sua madre. Marcia dormì con il volto tra i vestiti non lavati del bambino. Il mattino dopo non scrisse. Aveva perso il desiderio di scrivere, che coincideva con il suo desiderio di vivere. Quali speranze illusorie aveva investito in Aurelia? L'averla incontrata aveva privato Marcia di qualcosa. Lei si era svuotata e ora Aurelia era piena. Dove avrebbe trovato le risorse e il motivo per andare avanti?
Aurelia le aveva chiesto di portare qualcuno al party; un altro insegnante, un insegnante "puro" aveva detto, intendendo dire non un insegnante che finge di essere uno scrittore. Forse Marcia avrebbe dovuto dire di no. Ma voleva lasciare la porta aperta con Aurelia, per vedere cosa sarebbe potuto uscirne fuori. Aurelia avrebbe potuto leggere i suoi tre capitoli ed esserne esaltata. E poi Marcia voleva andare al party.
"Come è andata con la Broughton?" le chiese la madre la volta successiva che andò a trovarla. "Abbiamo parlato al telefono, ma non l'hai nominata."
"È andata bene, è stato grande."
Sua madre disse: "Sei imbronciata, sembri di nuovo una ragazzina".
"Non so cosa dire."
Sua madre chiese, con più dolcezza: "Che ne è venuto fuori?"
"Avresti dovuto vedere la casa. Almeno cinque camere da letto!"
"Sei salita di sopra?"
"Ho dovuto. E tre salotti!"
"Tre! Che ci fanno in tutto quello spazio? Pensa alle cose che potremmo farci noi!"
"Le corse dei cavalli!"
"Potremmo..."
"I fiori, mamma! Le persone che ci lavorano! Non ho mai visto niente di simile!"
"Ci scommetto! Era su una strada principale?"
"Appena fuori. Ma vicina ai negozi. Hanno tutto a portata di mano."
"Autobus?" chiese la madre.
"Non credo proprio che prenda l'autobus." "No," disse la madre. "Io non andrei mai più su un autobus se non fossi obbligata a farlo. Posto macchina?"
"Sì. Spazio per due automobili direi," aggiunse Marcia. "Abbiamo parlato un po' nella sua libreria e ci siamo conosciute meglio. Mi ha invitato a un party."
"A un party? E non ha invitato me?"
"Non ti ha neanche nominato," disse Marcia. "Né l'ho fatto io."
"Sono sicura che non le dispiacerebbe se venissi con te. Metterei il vestito buono!"
"Ma perché?" disse Marcia.
"Per uscire. Incontrare gente. Potrebbero trovarmi interessante."
Prima, questo avrebbe potuto essere una specie di scherzo, concluso il quale sua madre sarebbe ritornata alla solita aria tetra. Stava sicuramente diventando più sana, se pensava di potere interessare qualcuno.
"Ci penserò," disse Marcia.
"Non vedo l'ora!" gorgheggiò sua madre. "Un party!"

Aurelia telefonò dalla sua auto. La linea non era granché, Marcia afferrò che Aurelia era "nei dintorni" e voleva "passare per una tazza di tè".
Marcia e Alec stavano mangiando bastoncini di pesce e fagioli lessi. Aurelia doveva essere vicina; Marcia aveva appena sparecchiato e Alec non aveva finito di lanciare i suoi giocattoli dietro il divano, quando l'auto di Aurelia arrivò.
Sulla porta passò a Marcia un'altra copia firmata del suo nuovo romanzo, entrò e si mise seduta sul bordo del divano.
"Che bel bambino," disse di Alec. "Bei capelli, quasi bianchi."
"Lei come sta?" disse Marcia.
"Stanca. Ho fatto letture e rilasciato interviste, non solo qui ma anche a Berlino e Barcellona. I francesi fanno un film su di me e gli americani vogliono fare un film sulla mia Londra... Scusi," disse. "La sto facendo impazzire?"
"Si figuri."
Marcia sospirò. Oggi sembrava brillante, fremente di intensità. Non voleva parlare, né ascoltare. Quando Marcia le confessò che la sua voglia di lavorare era crollata, disse: "Vorrei che fosse crollata anche la mia".
Si alzò e sbirciò tra gli scaffali dei libri di Marcia.
"Lei mi piace," disse Marcia, nominando una scrittrice più o meno della stessa età di Aurelia.
"Non sa scrivere. Però pare sia una brava scultrice dilettante."
"Davvero?" disse Marcia. "Mi è piaciuto il suo ultimo libro. Ha letto i capitoli che le ho dato?" Aurelia la guardò senza espressione. Marcia disse: "I capitoli del mio romanzo. Glieli ho lasciati".
"Dove?"
"Sul suo tavolo."
"No. No, non li ho letti."
"Forse sono ancora lì."
Marcia capì che Aurelia voleva solo vedere come viveva, che non guardava lei ma attraverso di lei e che pensava alle frasi e ai paragrafi che avrebbe tratto da lei. Era una spietatezza ammirevole.
Davanti alla porta Aurelia la baciò su entrambe le guance.
"Ci vediamo al party," disse.
"Non vedo l'ora."
"Non dimentichi di portare qualcuno di pedagogico."
Marcia mise il romanzo di Aurelia sullo scaffale. I libri di Aurelia erano tra file di altri libri; libri pieni di storie, storie piene di personaggi, scritte con abilità, che aspettavano di essere portate alla vita da qualcuno che sapesse cosa farne. O forse no.

Sua madre si rifiutò di tenere Alec. Era la prima volta che lo faceva. Era il giorno prima del party.
"Ma perché, perché?" disse Marcia, al telefono.
"Ho capito che non mi avresti portata al party, anche se non ti sei preoccupata di farmelo sapere. Ho fatto altri piani."
"Non ti avrei mai portata a quel party."
"Non mi porti mai da nessuna parte."
Marcia tremava dall'esasperazione. "Mamma, io voglio vivere. E voglio che tu mi aiuti."
"Ti ho aiutata per tutta la mia vita."
"Cosa? Tu?"
"Chi ti ha cresciuta? Tu hai avuto un'istruzione, tu..." Marcia riagganciò.
Telefonò ad amici e a un paio di persone del gruppo di scrittura, perfino al ragazzo che aveva scritto il racconto sul verme solitario. Nessuno era disposto a badare al bambino. Mancava mezz'ora prima di uscire; l'unica persona a cui ancora non aveva chiesto era suo marito, che viveva vicino. Lui ne fu sorpreso, e reagì con sarcasmo. Parlavano raramente, ma quando era necessario facevano scivolare dei biglietti sotto la porta d'ingresso delle rispettive case.
Disse che aveva intenzione di passare la serata con la sua nuova fidanzata.
"Che cosa dolce," disse Marcia.
"Che vuoi che faccia?" disse.
"Non potreste venire tutti e due?"
"Sei disperata. Deve essere un nuovo uomo. Hai delle patatine... e degli alcolici?" "Prenditi quello che vuoi. Tanto lo hai sempre fatto." Era la prima volta che lasciava entrare in casa suo marito da quando se ne era andato. Se c'era lì la fidanzata, almeno non avrebbe ficcato il naso dappertutto.
Quando arrivarono, e la ragazza si tolse il cappotto, Marcia si accorse che era incinta. Marcia si cambiò di sopra. Poteva sentirli parlare in soggiorno. Poi sentì della musica. Era sulla porta, pronta per andare. Alec stava mostrando loro il suo berretto da baseball. Suo marito sollevò la copertina di un disco. "Questo è mio."
"Ho fretta," disse lei.
In automobile pensò che probabilmente era impazzita, ma quello che stava facendo, lo faceva per il bene della sua vita. La gente non corre abbastanza rischi, pensò. Comunque, non aveva portato un insegnante che potesse interessare Aurelia. Ma non l'avrebbe certo cacciata una volta che era lì. Marcia aveva fatto abbastanza per Aurelia. E Aurelia, aveva fatto abbastanza per lei?
Fu il marito di Aurelia a farla entrare e a offrirle un bicchiere di champagne, mentre Marcia si guardava intorno. Il party si svolgeva al piano terra della casa, e Marcia riconobbe diversi scrittori. Gli altri ospiti sembravano critici, accademici, psicanalisti ed editori.
Lo sforzo condotto per arrivare fin lì l'aveva resa nervosa. Bevve in fretta due bicchieri di champagne e si attaccò al marito di Aurelia, la sola persona, a parte Aurelia, che conoscesse.
"Vuole che la presenti come una scrittrice o come un'insegnante?" disse. "O nessuna delle due cose?"
"Nessuna delle due cose, per il momento." Gli prese il suo braccio. "Perché non sono né l'una né l'altra."
"Si tiene aperte le possibilità, eh?" disse lui.
La presentò a diverse persone, e parlarono in gruppo. L'argomento principale era la famiglia reale, un tema di cui lei era sorpresa di constatare che gli intellettuali fossero appassionati. Sembrava di essere a scuola.
Le piaceva il marito di Aurelia, che annuiva e sorrideva ogni tanto; le piaceva avere paura di lui. Lui capiva gli altri, sapeva quali fossero i loro desideri. Niente lo avrebbe sconcertato. Fu sconcertato un po' più tardi, nella serra, quando lei si protese per baciarlo. Lei stava dicendo: "Per favore, per favore, solo questo..." quando, dall'altro lato della stanza, vide il preside della sua scuola, e sua moglie, che parlavano con uno scrittore.
II marito di Aurelia la allontanò con delicatezza. Mi scusi," disse lei.
"Scuse accettate. Sono lusingato."
"Salve Marcia," disse il preside. "Ho sentito che è stata molto utile ad Aurelia."
Non voleva che il preside la vedesse ubriaca e in imbarazzo.
"Sì," disse.
"Aurelia verrà a scuola a vedere quello che facciamo. Parlerà con i ragazzi più grandi." Le avvicinò la bocca all'orecchio. "Mi ha dato la collezione completa dei suoi libri. Firmati." Lei avrebbe voluto dirgli: "Sono tutti firmati, stupido coglione".
Lasciò la casa e camminò un po'. Poi ritornò indietro e attraversò il party. Gli invitati stavano andando via. Altri parlavano intensamente. Nessuno badava a lei.

Sandor era steso sul letto con la mano sugli occhi. Lei si mise seduta accanto a lui.
"Sono venuta a dirti che adesso non verrò così spesso. Non che sia mai venuta spesso, se non di recente. Ma... verrò anche meno."
Lui annuì. La stava osservando. A volte rifletteva sulle cose che lei gli diceva. Lei continuò: "La ragione, se vuoi conoscere la ragione..."
"Perché no?" disse lui. "Ti offrirei qualcosa... ma temo che non ci sia niente."
"Non c'è mai niente qui."
"Ti porto fuori a bere qualcosa."
"Non voglio bere, ho bevuto abbastanza." Disse: "Sandor, questa è una cosa odiosa. C'è un'espressione che continuava a tornarmi in mente al party. Sono venuta a dirtela. Succhiare i noccioli. È questa. Ci rivolgiamo alle cose vecchie e ai vecchi posti, per trovare conforto. È lì che l'abbiamo sempre trovato. Anche se non c'è più niente, noi continuiamo. Ma dobbiamo trovare nuove cose, altrimenti quello che facciamo è solo succhiare noccioli; per me questo - indicò la stanza - "è arido, povero, morto"".
Gli occhi di lui seguirono il gesto di lei mentre condannava la stanza.
"Ma io ci sto provando," disse lui. "Le cose stanno migliorando, lo so."
Lei lo baciò. "Ciao, ci vediamo."
In auto pianse. Non era colpa di Sandor. Sarebbe ritornata un altro giorno.
Arrivò tardi a casa. Suo marito si era addormentato tra le braccia della fidanzata, con le mani sulla pancia di lei. Sul pavimento c'era una bottiglia di vino vuota e dei piatti sporchi; la televisione era accesa, con il volume alto.
Prese il disco dall'apparecchio, lo graffiò con le unghie e lo rimise nella copertina. Svegliò la coppia, li ringraziò, ficcò il disco sotto il braccio del marito e li mise alla porta.
Cominciò a salire le scale, ma si fermò a metà strada. Ritornò in salotto e si mise il cappotto. Uscì sul piccolo patio di cemento sul retro della casa. Era scuro e silenzioso. Il freddo fu uno shock, e la risvegliò. Si tolse il cappotto. Voleva il freddo, per punirsi.
Di mattina presto, durante le vacanze estive, a volte ballava qui, davanti ad Alec, alcuni pezzi del Romeo e Giulietta di Prokofiev.
Accese la luce della cucina e fece un quadrato di mattoni. Entrò in casa e raccolse le sue cartelle. Le portò fuori e le aprì. Bruciò i suoi racconti; bruciò la commedia, e i primi, pochi capitoli del romanzo. Era un mucchio di roba e fece un bel fuoco. Ci volle molto. Tremava e puzzava di fumo e cenere. Salì di sopra. Si preparò un bagno e rimase nella vasca finché l'acqua non divenne tiepida.
Alec dormiva nel suo letto. Mise il suo taccuino sul comodino. Lo avrebbe tenuto, usandolo come un diario. Ma a parte questo, avrebbe smesso di scrivere per un po'; almeno sei mesi, tanto per cominciare. Per lei era chiaro che non si trattava di masochismo, o di una forma di suicidio. Forse il sogno di scrivere era stata una specie di possessione, o di dipendenza. Sapeva che si può diventare dipendenti anche dalle cose buone. Stava facendo spazio. Era un vuoto importante, un vuoto che non avrebbe riempito con altre intossicazioni. Sapeva di potere diventare come sua madre, e succhiare noccioli davanti alla televisione, notte dopo notte, terrorizzata dall'eccitazione.
Dopo un po', sarebbero arrivate nuove cose.



(Racconto tratto dalla raccolta Mezzanotte tutto il giorno, Bompiani editrice, Milano, 2000)


Hanif Kureishi

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