Il nonno

Enrique Oltuski

 


La strada era lastricata e l'acqua scorreva lungo entrambi i lati. Vi erano delle assi a mo' di ponticelli che univano le porte delle case con la strada. La strada era larga e dritta e terminava con un ponte sul fiume. Un lungo ponte di legno, non molto alto. Dall'altro lato del fiume si stendeva una vasta pianura verde dove pascolava il bestiame della gente del villaggio. L'altro estremo della strada terminava in una piazzola, al centro della quale c'era una pompa dell'acqua dove si rifornivano gli abitanti del vicinato.
C'era un negozio sulla strada. A volte mi mandavano a comprare sardine in scatola che poi mangiavamo con pane e cipolla. Vendevano anche semi di girasole tostati. Una piccola scala dava accesso all'ampia sala del negozio. Questa si trovava invariabilmente in penombra. Le cose che più spiccavano in quella oscurità erano le chiome rosse della moglie del padrone e di suo figlio, che aveva più o meno la mia età. I denti di sopra del bambino erano sporgenti, spuntavano dalle labbra dandogli un aspetto da coniglio. Eravamo nemici, senza sapere il perché. Non avevamo mai litigato, ma ci odiavamo. L'altro posto che risaltava sulla strada era la sinagoga. Vi si saliva da una grande scala che sbucava in un locale ben più piccolo nel quale i mobili individuali da preghiera sembravano soffocare per mancanza di spazio.
La casa di mio nonno faceva angolo, e uno dei lati dava su un vicoletto di servizio. La casa era ampia e solida, con il salone che affacciava sulla strada e le camere e la cucina che formavano un tutto compatto.
Dietro la casa c'era il cortile e in fondo la stalla. Il salone era l'anima della casa. Era collegato alla strada attraverso un ampio finestrone e la porta. Nel salone c'era il laboratorio. Vicino a un tavolo basso lungo e stretto lavoravano mio nonno e i miei zii. Erano artigiani che si dedicavano alla confezione di scarpe per i contadini della zona. Durante il giorno il salone era coperto di forme, pezzi di suole e pelle, scarpe a metà e il rumore dei colpi di martello era così familiare alle nostre orecchie che non lo notavamo nemmeno.
Durante la settimana si mangiava in cucina, ma il venerdì sera si spostavano da una parte gli attrezzi da lavoro e si procedeva a pulire scrupolosamente il salone. Poi si apparecchiava il grande tavolo con la sua magnifica tovaglia bianca, i piatti enormi e le grandi e antichissime posate d'argento. Tutti si lavavano e indossavano abiti puliti e cominciava il rito del sabato ebraico.
Le vacche erano solo due, ma grandi e solide come la casa stessa. Abitavano nella stalla in fondo al cortile, dove il loro odore si mischiava con quello del fieno che serviva loro da alimento. Tutte le mattine passavano a prenderle per portarle a pascolare dall'altro lato del fiume. Al calar della sera le vacche tornavano al villaggio in un grande gregge che i pastori andavano distribuendo casa per casa.
Il cortile, che si trovava tra la casa e la stalla, comunicava con il vicolo attraverso un largo portone d'ingresso da cui passavano le vacche o il carro che portava la legna. Nel cortile c'erano grandi e ordinate cataste di legna ed era facile vedere gli uomini di casa con l'ascia in mano che tagliavano i tronchi.
La strada era tranquilla e poco trafficata. Quando passava qualche veicolo tutti gettavano uno sguardo dalla finestra. E se il veicolo era a motore, allora tutti correvano a guardarlo.
In casa abitavano mio nonno, che era il capo della famiglia, e sua moglie, un figlio e due figlie, tutti e tre giovani e scapoli, e mia madre, mia sorella e io.
Mio nonno era di media statura e forte costituzione fisica e cominciava a diventare obeso. I capelli scuri e i piccoli baffi risaltavano sul largo viso roseo. Il suo buonumore era praticamente costante e raggiungeva l'apice in una risata lunga e vibrante. Rapido a spuntare come la sua risata era anche il suo cattivo umore, ma per fortuna era molto meno frequente.
Era un uomo forte e sincero e come tale era rispettato e amato nella piccola comunità ebraica che costituiva il suo mondo. La maggior parte dei suoi clienti era formata da contadini cattolici dei dintorni, vittime essi stessi di un sistema sociale in cui la tappa del feudalesimo non era stata del tutto superata. Attraverso di loro aveva un contatto più stretto con il mondo esterno rispetto agli altri membri della comunità. Ma questo contatto era così superficiale che influiva molto poco sul suo mondo interiore di ebreo millenario, ignorante e dogmatico.
Gli zii e le zie, giovani e forti, vivevano occupati a risolvere i problemi che procurava loro l'età. Mia madre era la maggiore delle sorelle. Era tornata alla casa paterna in cerca della salute perduta a Cuba. Si era sposata con mio padre pochi anni prima e si erano trasferiti a Cuba, considerata come la biblica terra promessa, fuggendo dall'imminente servizio militare che minacciava mio padre e abbagliati dalle ricchezze descritte dalle lettere dei parenti che erano emigrati in precedenza. A Cuba nascemmo mia sorella e io e nacquero anche gli acciacchi che avrebbe sofferto in futuro mia madre. I medici sentenziarono che un cambio di clima sarebbe stato benefico. In seguito a questa sentenza partimmo per l'Europa. Mia madre aveva recuperato la salute ed era di nuovo una donna bella e florida.
Mia sorella e io eravamo gli unici nipoti di mio nonno e, pertanto, oggetto di ogni tipo di coccole e attenzioni. Io ero il preferito del nonno. Il suo primo nipote maschio. Io ero l'unico essere conosciuto che si permetteva ogni tipo di libertà con lui. Ero il suo compagno inseparabile. Andavo con lui in cima alla strada, verso la sinagoga. E una volta lì, restavo vicino alla protezione delle sue gambe, che si alzavano ritmicamente sopra i suoi piedi, seguendo la cadenza della preghiera.
La domenica mattina aveva un significato speciale. Poiché era giornata di riposo, mio nonno era solito restare a letto fino a tardi. Quando mi svegliavo, sapevo che era domenica perché non udivo il martellare nel salone. Allora correvo in camera del nonno, saltavo su di lui e restavamo a giocare per molto tempo.
La domenica all'imbrunire, con indosso i nostri vestiti migliori, mi prendeva per mano e camminavamo per strade strane e sconosciute dove incontrava altri signori, anche loro vestiti a festa, con cui parlava a lungo, mentre io mi annoiavo accanto a lui.
Mio nonno era il mio eroe. Il mio primo eroe, il mio primo ideale. Io lo chiamavo padre, come facevano mia madre e i miei zii. Non ricordavo mio padre a Cuba, né potevo concepirne un altro che non fosse mio nonno.
Alla fine tornammo a Cuba. Un estraneo non faceva che baciarmi e mia madre disse che era mio padre. Io lo lasciavo fare, ma dentro di me lo respingevo. Mio padre! Mio padre era rimasto dietro.
Passarono gli anni. Io ne avevo dieci. Il ricordo di mio nonno, i lineamenti del suo viso, si andarono cancellando. Un pomeriggio, tornando da scuola, trovai mia madre stesa sul letto, che piangeva. Dalla sua mano penzolante era caduta una lettera.
Mi fermai sulla porta, ma mia madre si accorse della mia presenza e mi chiamò. Abbracciandomi ripeteva tra i singhiozzi "tatenu, tatenu". Padre, padre. Capii che mio nonno era morto.
Per bocca di mia madre ascoltai la storia. Quando i tedeschi avevano invaso il paese, mio nonno era fuggito in campagna con la sua famiglia e si era rifugiato in casa di uno di quei contadini per i quali faceva le scarpe. Aveva sentito parlare dei nazisti e del loro odio per gli ebrei. Ma in quei primi giorni non successe nulla e decise di tornare. Un giorno, diversi mesi dopo, i tedeschi radunarono tutte le famiglie ebree del villaggio. Nessuno sapeva perché. Ma mio nonno, con la figlioletta di uno dei suoi figli in braccio, riuscì a nascondersi sotto il ponticello di legno che dava accesso alla casa. Tre giorni dopo fu scoperto a causa del pianto della bambina, mezza morta di fame e di freddo.
Fu spogliato dei suoi vestiti e obbligato a camminare nudo per le strade del villaggio. Nelle vicinanze del paese, dall'altro lato del fiume, in una vecchia cava di calce abbandonata, scavò la sua tomba.
Quando mia madre finì di parlare andai nel bagno e chiusi a chiave. Mi sedetti sul bordo della vasca da bagno e chiusi gli occhi. Immaginai mio nonno, come lo ricordavo, degno, eretto, sereno, che camminava nudo per la strada. Immaginai il suo corpo bianco, ora indifeso nella sua nudità e piansi con le lacrime più amare che abbia mai pianto.


(Brano tratto dal libro Pescando recuerdos, Besa editrice, Lecce, 2005. Traduzione di Francesca Sammarco.)


Enrique Oltuski (L'Avana, 1930) è stato a capo del Movimento 26 Luglio a Santa Clara, nell'antica provincia di Las Villas. Durante la sua attività clandestina, svolta sotto la copertura di impiegato della Shell, ha raccolto fondi per aiutare a sostenere la guerriglia sulle colline contro il regime di Batista, ha realizzato sabotaggi alle istallazioni nemiche, ha appoggiato l'attività politica tra gli operai e i giovani combattenti, in quella che fu chiamata "guerra della pianura".
Dopo il trionfo della Rivoluzione ha occupato la carica di Ministro delle Comunicazioni del primo Governo Rivoluzionario e, in seguito, è stato vice ministro dell'Industria e vice presidente della Junta Central de Planificación agli ordini del Che per cinque anni.
Ha poi lavorato nell'allevamento del bestiame e nell'industria zuccheriera. Attualmente occupa l'incarico di vice ministro dell'Industria della Pesca.
Ha scritto su periodici e riviste internazionali. Nel 2000 è uscito il suo primo libro, Gente del llano, tradotto e pubblicato anche negli Stati Uniti.



.

         Precedente         Copertina