Del trapezio e di altre cose

- un capitolo del romanzo Marcela mi amò per quindici mesi e undici mila scudi, niente meno -

J. M. Machado de Assis



… Marcela mi amò per quindici mesi e undicimila scudi, niente meno. Mio padre, non appena gli arrivò il venticello degli undicimila scudi, si spaventò davvero; pensò che il caso oltrepassava i confini di un capriccio giovanile.
"Questa volta", disse, "andrai in Europa. Frequenterai l'Università, probabilmente a Coimbra. Voglio che tu sia un uomo serio e non un vagabondo e un ladruncolo". E siccome io feci un gesto di meraviglia: "Ladruncolo, sissignore. Un figlio che mi fa questo non può essere definito altrimenti…".
Tirò fuori dalla tasca i miei pagherò, che aveva già riscattato, e me li sbatté in faccia. "Vedi fannullone? È cosi chê un giovane si prende cura del nome della sua famiglia? Pensi che io e i miei avi ci siamo guadagnati il denaro in case da gioco o vagabondando per le strade? Mascalzone! Questa volta, o metti giudizio o resti con un bel niente".
Era furioso, ma di un furore mite e breve. Io lo ascoltai in silenzio e non feci resistenza al viaggio che mi aveva imposto, come avevo fatto altre volte. Ruminavo l'idea di portare Marcela con me. Andai a parlarle, le esposi la crisi e lê feci la proposta. Marcela mi ascoltò con gli occhi al cielo, senza rispondere subito. Siccome insistetti, mi disse chê restava, che non poteva andare in Europa. "Perché no?".
"Non posso", disse lei con aria dolente, "non posso respirare quel clima, perché mi ricorderebbe il mio povero padre, morto per Napoleone…".
"Quale padre: l'ortolano o l'avvocato?".
Marcela aggrottò la fronte, canticchiò una seghidiglia a mezza bocca, poi si lamentò del caldo e ordinò un bicchiere di aluà . Glielo portò la schiava su un vassoio d'argento che proveniva dai miei undicimila scudi. Marcela mi offrì gentilmente la bibita; la mia risposta fu di colpire con la mano il bicchiere e il vassoio. Il liquido le si rovesciò sul grembo, la negra lanciò un urlo, io le gridai che se né andasse. Rimasti soli, rovesciai tutta la disperazione del mio cuore. Le dissi che era un mostro, che mai mi aveva amato, che aveva lasciato che mi abbassassi a tutto, senza avere almeno l'attenuante della sincerità. La ricoprii d'insulti facendo altrettanti gesti sgarbati. Marcela rimase seduta a schioccare le unghie tra i denti, fredda come un
pezzo di marmo. Ebbi l'impeto di strangolarla, di umiliarla almeno, soggiogandola ai miei piedi. Forse l'avrei fatto, ma l'azione si trasformò in un'altra: fui io che mi gettai ai suoi piedi, contrito e supplice. Glieli baciai, ricordai quei mesi della nostra felicità solitaria, le ripetei i vezzeggiativi cari di un tempo. Seduto per terra, con la testa sulle sue ginocchia, stringendole forte le mani, ansimante, accalorato, le chiesi in lacrime che non mi abbandonasse… Marcela rimase alcuni istanti a guardarmi, tacevamo entrambi. Fin quando, affabilmente, mi allontanò, e con un'aria seccata:
"Non annoiarmi", disse.
Si alzò, scrollò il vestito, ancora bagnato, e camminò verso l'alcova. "No!", gridai io, "non devi entrare… non voglio…". Stavo per afferrarla: troppo tardi, lei era entrata e si era chiusa dentro.
Quando me ne andai ero fuori di me. Passai due ore micidiali a vagare per i quartieri più eccentrici e deserti, dove era difficile trovarmi. Ruminavo la mia disperazione con una specie di voracità languida. Evocavo i giorni, le ore, gli istanti del delirio; ora mi compiacevo nel credere che erano eterni, che tutto quello era un incubo, ora, ingannando me stesso, tentavo di respingerli da me come un peso inutile. Allora decidevo di imbarcarmi immediatamente per tagliare la mia vita in due metà e mi compiacevo all'idea che Marcela, saputo della mia partenza, si sarebbe tormentata di nostalgia e di rimorsi. Perché la sciocca mi aveva amato e doveva sentire qualcosa, un ricordo qualsiasi, come quello del sottotenente Duarte… E, qui, il dente della gelosia mi affondava nel cuore. La natura tutta gridava che dovevo portare Marcela con me.
"Per forza… per forza…", dicevo io lanciando un pugno in aria. Infine, ebbi un'idea salvifica… Ah! Trapezio dei miei peccati, trapezio delle concezioni astruse! L'idea salvifica lavorò su lui, come quella dell'unguento (capitolo II). Era niente meno che l'idea di affascinarla, affascinarla profondamente, abbagliarla, corteggiarla. Mi suggerì di convincerla con un mezzo più concreto della supplica. Non misurai le conseguenze: ricorsi ad un ultimo prestito.
Andai in via degli Ourives , comprai il più bel gioiello della città, tre grossi diamanti incastonati su un pettinino d'avorio. Corsi a casa di Marcela.
Marcela era distesa su un'amaca, la posa molle e stanca, una delle gambe penzolava mostrando il piedino che indossava una calza di seta, i capelli sciolti, scomposti, lo sguardo quieto e sonnolento. "Vieni con me", dissi, "ho trovato dei mezzi… Abbiamo molto denaro, avrai tutto ciò che vuoi… Guarda, prendi".
E le mostrai il pettine di diamanti. Marcela ebbe un lieve sussulto, sollevò il busto a metà e, appoggiata su un gomito, guardò il pettine per alcuni brevi istanti. Poi distolse gli occhi; si era dominata. Allora le presi i capelli, li raccolsi, li annodai velocemente, improvvisai una pettinatura senza alcuna armonia e la fermai con il pettinino di diamanti; indietreggiai, mi riavvicinai, le aggiustai le ciocche, le abbassai su un lato, cercai una qualche simmetria in quel disordine, tutto con la minuziosità e la tenerezza di una madre.
"Ecco", dissi.
"Pazzo!", fu la sua prima risposta.
La seconda fu tirarmi a sé e pagare il mio sacrificio con un bacio, il più ardente di tutti. Poi tolse il pettine e ne ammirò molto la materia e la lavorazione, guardandomi a tratti e scuotendo la testa con un'aria di rimprovero: "Ah tu!", diceva.
"Vieni con me?".
Marcela si fermò un istante a riflettere. Non mi piacque l'espressione con cui volse gli occhi da me verso la parete e dalla parete verso il gioiello, ma la cattiva impressione svanì completamente quando mi rispose risolutamente:
"Vengo. Quando ti imbarchi?".
"Tra due o tre giorni".
"Vengo".
La ringraziai in ginocchio. Avevo ritrovato la mia Marcela dei primi tempi e glielo dissi, lei sorrise e andò a riporre il gioiello, mentre io scendevo le scale.



Note

1 Seghidiglia: aria, e danza, spagnola dal ritmo ternario.

2 Aluà: bibita refrigerante ottenuta dalla fermentazione del granturco o delle bucce di ananas.

3 Ourives: orefici.



(Tratto dal romanzo Marcela mi amò per quindici mesi e undici mila scudi, niente meno (títolo originale in Portoghese: "Memórias póstumas de Brás Cubas", Azimut, Roma, 2005, traduzione di Silvia Marianecci.)


Machado de Assis è considerato dalla critica internazionale il più grande scrittore brasiliano dell'Ottocento.



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