I silenzi del Forte

(Forte dei Marmi, via Cesare Battisti angolo via Nazario Sauro)

- (Racconto tratto dalla raccolta La tartaruga di Gauguin) -



Andrea Bocconi



Lui la vacanza la faceva sempre nella seconda metà di giugno: non troppo caldo, non troppo affollato, non troppo rumoroso. Anche il mare era più bello, gli sembrava di un azzurro simile a quello della sua infanzia. Il Forte della memoria era un tessuto di odori e di tatto, sensazioni forti che non avevano parentela con quelle di città: la sabbia incandescente obbligava a trovare sollievo nell'ombra delle tende dei vicini, in momenti di sosta intimidita, prima di continuare verso riva. Pomeriggi ombrosi nel giardino della grande casa, toccare la corteccia dei pini, staccarla dove traballa e giocare col dito appiccicoso di resina. Fruscii di bici, ma nell'aggiustamento del ricordo nessuno suonava mai il campanello. Suo padre metteva camicie colorate che lo sorprendevano. La mamma diventava nerissima al sole e aveva vestiti scollati, il fratello maggiore dormiva fino a tardi e non veniva mai in spiaggia prima dell'una. Tutti facevano tardi, anche i bambini.
La casa di Forte dei Marmi era sopravvissuta alle rovine della guerra, ma non a quelle dell'economia familiare. Nessuno spiegava le cose ai bambini. Un giugno erano partiti con la Millecento carica di valigie e la casa del Forte era sparita dalla sua infanzia, come un nonno morto troppo presto. Sua madre non ci era tornata più, si diceva che i nuovi proprietari avessero buttato giù la casa e ricostruito, mangiandosi un buon pezzetto della pineta, per farci un albergo. Era tornato da grande in via Battisti angolo via Nazario Sauro. La casa era lì ma non era quella, non c'era da dispiacersene. Un anno che si era appassionato alle grotte delle Apuane era tornato da quelle parti, però in campeggio.
"Quello sì che è un vero snob" avevano commentato a Lucca. Si era sistemato in un campeggio con molti stranieri, c'era tornato, aveva finito per lasciare lì fissa una roulottina, ricostruendosi a poco a poco una sua maniera di stare al Forte, più di pineta che di spiaggia, più di silenzio che di mare. Le uniche concessioni che faceva alla sua storia erano le focaccine di Valè e qualche bridge alla Capannina; ci andava in bicicletta verso le sei e rifiutava immancabilmente ogni invito a cena. Sapeva di essere ormai "un originale ", o anche peggio, " un personaggio caratteristico ", accettato per il cognome e per la qualità affilata del suo bridge silenzioso. Del campeggio gli piaceva tutto, ma in particolare amava i bagni: farsi la barba accanto a degli sconosciuti, sentire i rumori dei gabinetti, un'intimità estrema, ma senza parole. Finché non erano arrivati i telefonini. Li aveva odiati da subito. Da qualche parte aveva letto che ce n'erano più in Italia che in qualsiasi paese del mondo. Ne era convinto, visto che squillavano sui sentieri, in spiaggia, allo spaccio, perfino nei bagni. Lo risucchiavano nella vita degli altri, lui che aveva fatto di tutto per restare in un suo altrove, un territorio vago in cui la roulotte del campeggio era uno dei pochi segni visibili della sua esistenza.
Suo malgrado ascoltava:
"Tutto bene, bel tempo anche da voi? È venuto l'elettricista?"
"Il bambino ha avuto la diarrea, no, non mangia schifezze, forse è stato troppo al sole, certo protezione 50, gliela ho messa, gliela ho messa."
"Ero in collina. Non c'era segnale, per questo non mi hai trovato. No che non c'era un telefono." Si era fissato sulla varietà delle suonerie, lo facevano imbestialire. Specie le note elettroniche dell'attacco della Quinta, due tende più in là ogni sera si raccontava il nulla ad alta voce.
Una mattina aveva visto un bambino pedalare piano nel vialetto su una bici con le ruotine, la testa piegata per raccontare al telefono, ai nonni, la propria dieta. Aveva chiuso la porta della roulotte con un gran colpo ed era partito di furia per le Apuane. Aveva scelto il Pisanino, escursione impegnativa, e poi era già tardi, sarebbe arrivato in cima col sole a picco, non rischiava davvero l'affollamento, li.
Aveva camminato con rabbia, continuando a rimuginare la sua insofferenza, e poi l'insofferenza per l'insofferenza, perché non gli doveva mai andare bene niente? Perché si arrabbiava sempre? Alla sua età non aveva ancora imparato?
Poi la fatica prese il sopravvento, la sana fatica dell'ascesa assorbì forze e pensiero, grondava sudore, il sole quella mattina non faceva sconti; sentiva che gli avrebbe fatto bene riprendere fiato, ma non ce la faceva a fermarsi. Doveva spingere fino alla vetta. Guardò il cronometro. Ci aveva messo quaranta minuti meno del suo miglior tempo, nuovo record. Sentiva solo il suono del respiro, tutto era fermo, il mare dall'alto appariva vuoto. Sorrise e tirò fuori dal tascapane una Gitanes. A valle suonavano i telefonini, ma nessuno rispondeva.


(Racconto tratto dalla raccolta La tartaruga di Gauguin, Guanda editrice, Parma, 2005.)


Andrea Bocconi è nato a Lucca nel 1950 e vive ad Arezzo, dove esercita come psicoterapeuta. Ha scritto diversi testi teatrali, il romanzo Il monaco di vetro e, insieme a Patrizia Lacerna, il saggio Il matto e il mondo. Sono usciti recentemente anche i titoli Viaggiare e non partire e Il giro del mondo in aspettativa.





.
          Precedente         NUOVI LIBRI    Pagina precedente