Ricchi, ricchi/Poveri, poveri


Maurizio Chierici


Le città sono il laboratorio dove politica, cultura e confronto sociale trasformano nei secoli la nostra vita. Ma possono diventare la trappola delle illusioni, il porto nel quale rifugiarsi dopo l'ultimo fallimento. Fra quarant'anni tre miliardi di persone andranno ad abitare in città lasciando campagne e montagne: i più si disperderanno nelle baracche, fra le immondizie che assediano i grattacieli, i giardini delle belle case e i riccioli dei palazzi dove la storia elabora il potere. Un miliardo di emarginati già li guarda cosi. Ogni anno se ne aggiungono 30 milioni, il doppio degli abitanti di Tokyo, mentre 270 mila stracci impantanati nella terra di nessuno - né campagna, né città - muoiono di malattie con tanti nomi da ricondurre a parole semplici: fame, analfabetismo, abbrutimento della violenza che conclude la violenza endemica di questo tipo di esistenza. Guerra invisibile senza caschi blu, dieci volte più micidiale delle statistiche che contano chi cade sparando, o dei maremoti che scuotono la compassione.
Ecco come si trasformeranno le città dove invecchiano i nostri figli e cresceranno i nipoti. San Paolo, Brasile, è uno dei prototipi, neanche il peggiore, ma l'inquietudine è già cominciata. Ricchi-ricchi, poveri-poveri si sfiorano per strada, si spiano da lontano: aspettando.
L'opulenza dei ricchi-ricchi cresce in parallelo all'allargarsi delle povertà. Appunti di un viaggio nel privilegio. Comincia nel condominio che ricorda un gigantesco mobile dai cassetti aperti in modo disuguale: terrazze più larghe, terrazze più corte vogliono dire piscine più larghe, piscine più corte dal primo al trentesimo piano. Terrazze dove chiacchierare soffocati da un verde che fa pensare all'Amazzonia mentre la figlia piccola nuota e il cameriere serve il caffè. Scostare le fronde dalla siepe, filtro fra terrazza e realtà, vuol dire affacciarsi su una favela della quale non si vede la fine.
Su e giù ai piedi delle colline del Morumbi, il quartiere dove l'alta società paulista riposa nei giardini blindati. Si chiama Paraisópolis, città del paradiso. Centomila abitanti, forse più. Nessuno li ha mai contati, non vale la pena. Bisognerebbe mandarli via. Tanta miseria stona nell'angolo esclusivo della capitale. L'altra sera sono bruciate due strade. Che pena, povera gente, ma un posto così bello, soffocato da lamiere e cartoni è una vergogna che disturba piscine ed alberghi e i palazzi impettiti attorno. II condominio dalle terrazze disuguali si appoggia ad una casa con balconi dalle piscine mignon: risalgono con l'arco di una parentesi fino all'ultimo piano. Guardano i campi da tennis ben recintati dirimpetto alla collina dei potenti: Place des Voges edifici austeri, con mansarde che gonfiano mostruosamente le dimensioni della bohème parigina. Cancelli dalle punte d'oro. La piazza è protetta come una cassaforte. Inferriate da cortina di ferro; anche la portineria ricorda il Checkpoint Charlie, vecchia Berlino. Guardie in divisa, mille monitor. Si entra a zig zag, tre sbarramenti che impacchettano tre volte i passi di chi va in visita ad un amico. Poi comincia il paradiso: tappeto di prati e lo sguardo si allarga nei giardini del palazzo del governo dello stato di San Paolo.
Non siamo nel cuore dei ricchi-ricchi. Solo l'anticamera. Dalle loro finestre si ammirano le auguste dimore. Il comfort di Place des Voges viene considerato tutto sommato modesto dalla classeche conta: 120 metri quadrati, 600 mila euro, anche se in Brasile è una cifra enorme resta lontana dai miliardi delle residenze importanti. Non importa se può sfamare per un anno cinque strade della favela. Appena lontano, l'edera dei vecchi miliardi protegge i parchi Versailles, Baby Pignatari e i più ricchi fratelli di banca. Ma le ville recenti hanno dimensioni accettabili. Una signora italiana è cresciuta nel cortile della fabbrica che il padre aveva aperto con pochi operai, anni '50. Ormai è un gigante. Nell'eredità, Sandra Papaiz conserva il buonsenso della famiglia arrivata con le valige di cartone. Nessuna follia per onnipotenza di denaro. Rimprovera l'esibizione degli amici attorno, e brontola sulle figlie che si lasciano trascinare da mode costosissime. Sta per partire per la casa del weekend, a Campos de Jordão, Cortina brasiliana sulle montagne che dividono gli stati di San Paolo, Minas Gerais e Rio de Janeiro. Vanno tutti lì. Cortina nell'imitazione delle case in legno; Cortina nei negozi e nei prezzi, e un po' Crans sur Sierre per i ristoranti dell'hotel Frontenac: da Parigi ha portato i suoi antipasti. Trecento chilometri col traffico immobile che paralizza le autostrade, val la pena per un fine settimana? Sorride la signora. L'elicottero è pronto. Cinquanta minuti e gli altri possono cominciare a giocare a golf. Gli altri, lei no. Non le piace, preferisce leggere e camminare. San Paolo è la città terza nel mondo per numero di elicotteri privati: appena dopo New York e Tokyo. In un certo senso necessari con un'automobile ogni due abitanti, dieci milioni di macchine in eterna fila. Necessità che ritocca l'architettura di grattacieli e palazzi: come aureole dall'incomparabile bruttezza, le piattaforme trasformano ogni tetto in eliporto presidiato dai vigilantes. Nessuno si fida, neanche in paradiso. Nei ristoranti alla moda un nastro sottile d'acciaio assicura alle sedie le borse delle signore. I camerieri le legano prima di offrire il menu. Orde di scippi incontrollabili. II ladro dovrà scappare trascinando il mobilio. Ma i camerieri alzano le sopracciglia appena l'avventore straniero pretende un'acqua minerale brasiliana. "Solo Perrier e San Pellegrino, signore. I nostri frequentatori sono abituati così".
Sono abituati a supermercati che non devono somigliare a negozi, ma agli angoli di un sogno barocco dove il lusso diventa la regola alla quale è vietato sottrarsi. Ancora una signora dal nome italiano: Eliana Piva Tronchesi ha inaugurato da poco il supermercato Daslu. La parola "supermercato" la infastidisce. "Villa Daslu è un palazzo rinascimentale, logge e cortili che ricordano Firenze. Risponde alle esigenze di una clientela che pretende il lusso ed è innamorata delle cose belle". Boutique come in Via della Spiga, Via Condotti, Fifth Avenue; Milano, Roma, ancora New York. Ma per stemperare la noiosità di vetrine troppo borghesi, sparsi in saloni e salotti come oggetti dimenticati fra i libri, orologi e gioielli rubano il posto agli inutili volumi. Appoggiati con l'aria di chi ha fretta, vestiti che hanno appena sfilato a Milano e Parigi.
Valentino e Dolce a Gabbana, borse di Prada, trionfo di Louis Vuitton: nella "cattedrale del benessere" la sua più grande esposizione in America Latina. Nessuno cammina da solo. Una hostess incantevole accompagna ogni curioso. Due dita di champagne, e perché non assaggiare il piede di maiale nel ristorante "esclusivo"? Lo ha disegnato David Collins architetto di Madonna, mentre Peter Kent "ha trasformato in un piano hi-tech il reparto uomo". Se il cliente ammette d'essere alla prima visita, l'accompagnatrice diventa cicerone usando le parole di Vogue. E le buste e i pacchi di chi compra? Nessun problema: un tapis roulant li scarica in garage con l'etichetta incollata come nelle valigie degli aeroporti. E i facchini li sistemano nel bagagliaio. 0 li portano in albergo e in qualsiasi posto della città "in meno di tre ore". O li trascinano sui sedili degli elicotteri: "Necessari per non far perdere tempo a chi vuol comprare". Oltre a Porche e Jaguar, c'è la possibilità di farsi incartare anche un aereo leggero: consegna a domicilio, quarantotto ore dopo. Se la facciata grigia brutalizza nella banalità l'armonia fiorentina, la dimensione spaventa. Il palazzone si allunga con la maestosità di un incubo degli architetti di Stalin. Cupo, malgrado le colonne palladiane dell'improvvisazione che cambia secolo. Dentro, la musica è un sussurro e l'aria profuma di gelsomino: indispensabile a chi vende eleganza perché il supermercato si affaccia sul fiume Pinheiros, acque marce, fanghi avvelenati e nauseabondi.
Aggrediscono i poveri clienti mentre corrono all'elicottero col naso in un fazzoletto spruzzato di rosa. Non sono abituati a respirare le fogne come chi vive nella favela dirimpetto.



La città degli stracci

Ecco l'altra città. Non solo favelas. Tre milioni di persone si svegliano al mattino col problema di mettere assieme almeno un pasto. Un milione vive per strada. Decine di migliaia di bambini segnati dall'AIDS. Barboni bruciati dalle squadre della morte della polizia per il fastidio che svergogna i marciapiedi. Violenza e droga. II Brasile ne è diventato il grande consumatore. Il Brasile di Cardoso, presidente prima di Lula, pur tra qualche esitazione aveva pensato di soffocare la droga con la mano robusta dei militari, adottando un modello perverso nell'illusione di ridurre mercato e consumo. Nessuna preoccupazione per prevenire e curare i ragazzi che ne sono oppressi. Sui marciapiedi della loro sottovita, crack o miscele di colla restano il pane quotidiano. Malgrado gli ammortizzatori che il governo Lula cerca di allargare, sopravvivono le regole USA, dottrina Reagan: repressione, solo repressione. Stanno cambiando, ma per milioni di adolescenti continua la deriva. Anche perché I'universo di questi ragazzi ha due facce come in ogni parte del mondo: spacciatori in cambio di dosi, prostituzione di adolescenti da offrire al sangue stanco dei turisti d'Europa, quegli italiani in vacanza a Fortaleza. E poi la fame e la disperazione dei contadini senza terra scacciati dai campi da un'oligarchia che paga tribunali e politici rivendicando proprietà fantasma: l'oro verde della soia val bene milioni di randagi ammassati nelle periferie.
Le storie si ripetono con crudele noiosità. Massacri attorno a San Paolo, soprattutto a Rio de Janeiro.
Bambini uccisi, corpi lasciati in bella vista per ventiquattro ore nella vetrina delle strade, ammonimento per chi infastidisce i commerci rubando mele o pane, o per chi non accetta le regole dei boss. A volte i massacri dimostrativi ricordano la cronaca di Bagdad. Nella notte del primo aprile 2005 squadre di poliziotti in borghese, scarpe e armi militari, hanno attraversato la favela di Queimados, al centro della Baixada Fluminense, non lontano dall'aeroporto internazionale. Viaggiavano su wolkswagen color argento, strana carovana preceduta da staffette in moto. All'improvviso hanno cominciato a sparare sui bambini che inseguivano un pallone, su chi prendeva il fresco sotto una pianta, sulle persone impegnate con le carte nei tavoli di un bar: trenta morti, nessun perché. Chi sono questi poliziotti? Agenti in doppio servizio. Nelle ore dello stipendio ufficiale portano la divisa; nelle ore dello stipendio parallelo pagato da commercianti o boss della droga in lotta fra loro, hanno mano libera: non devono far rispettare la legge, solo sparare su ogni bersaglio umano del quartiere in punizione.


Favelas residenziali

Lula confessa la disperazione di vivere in un paese ricchissimo dove un quarto della gente muore di fame e di violenza: le buone intenzioni del governo, di preti e animatori sociali, le prediche degli intellettuali servono ancora a poco. Perfino le parole cambiano significato. Paulo Freire, sociologo cattolico sul campo, nell'esilio francese durante la dittatura militare, scrive il saggio La pedagogia degli oppressi: la prefazione è rivoluzionaria se confrontata alle tradizioni scolastiche dell'Europa pre-'68. "I ragazzi delle favelas non sanno leggere e la prima parola da imparare deve essere favela, simbolo della loro vita...". Sinonimo di inferno. Eppure la favela ha smesso di essere l'ultimo girone dell'infelicità. La disperazione più profonda si chiude nei palazzi in rovina nel centro delle metropoli. Il suo nome suona meno drammatico: cortiço, alveare. Piccoli grattacieli disfatti dal tempo, banche e holding proprietarie non hanno la forza di restaurarle. Passano la mano a speculatori selvaggi: frazionano ogni piano in loculi, brande una sopra l'altra. Migliaia di inquilini occasionali. Affitti senza documenti, due dollari per un letto, una notte. Chi non paga torna in strada. E crescono favelas senz'aria, corridoi bui che la disperazione trasforma in trappole violente. E violenti diventano i marciapiedi che corrono sotto i palazzi fra negozi bene illuminati. Chi scende al mattino deve guadagnare i due dollari del dormire fra lenzuola sporche, coperte raccolte nelle discariche, più qualcosa per mettere sotto i denti.
Non è che la favela diventi un sogno, eppure impone qualche regola oltre all'obbedienza assoluta ai capi mafia: condizioni a volte insopportabili a chi sprofonda nella terra di nessuno, né città, né campagna, baracche lunghe chilometri dalle quali si intravedono le luci della città. Ma abitare nella favela vuol dire qualche documento per allacciare acqua o luce, anche se l'acqua e la luce da sempre vengono rubate. Servono soldi per pagare la protezione dei boss. Senza contare la differenza tra favelas disperate e favelas residenziali, definizione bizzarra ma senza ironia. La favela cresciuta in un angolo del campus dell'università di San Paolo raccoglie dipendenti dagli stipendi inadeguati agli affitti normali. Non è dunque l'ultimo girone e, in un certo senso, non lo è perfino il cortiço. II vagabondaggio dei bambini resta l'ombra oscura del Brasile che Lula sta cercando di cambiare, ma il problema degradato negli anni sembra irrisolvibile. Quanti sono? Numeri di gomma. Diecimila, centomila, un milione. Nessuno ha trovato il modo di contarli, ciurme in eterno movimento.


Esmeralda

Il suo nome intero è Esmeralda do Carmo Ortiz. Sorride dai banchi della libreria di San Paolo che ha messo in vetrina il suo diario: "Porque não dancei", perché mi è andata bene. Gilberto Dimenstein ne ha curato l'edizione: poche parole per raccontare il miracolo di un'adolescente che ce l'ha fatta a riemergere "quando ha cominciato a capire che la vita poteva offrire almeno due cose belle: la curiosità di un'esistenza sconosciuta e un bagno caldo e profumato". II mistero della redenzione si rivela uscendo dalla vasca di una casa di accoglienza. "Sono pulita come ogni ragazza che va in giro elegante. Non importa se non vesto come loro o se dormo per strada e non in un letto morbido dei palazzi. In questo momento nessuno potrebbe capire la differenza". Ma è un lampo che subito si spegne: tante ragazze sono tornate alla vita di prima. Esmeralda è l'eccezione. Racconta delle compagne vagabonde: "Muoiono distrutte dal crack prima della prima mestruazione; i vapori di colla bruciano il cervello e poi c'è la malattia della morte, I'AIDS che la violenza della prostituzione distribuisce con disattenta follia".
Esmeralda do Carmo, Esmeralda del convento delle Carmelitane, non ha padre e non ricorda una vera casa. Dormiva per strada accucciata contro la madre. La madre la costringeva alla carità. Voleva i soldi per scaldarsi e bere sui marciapiedi gelati dall'inverno. Una bambina stringe i cuori quando allunga la mano e se non l'allunga, botte. Per due volte gli assistenti sociali riescono a mandarla in orfanotrofio. "Mi sentivo soffocare, sono scappata". Ricomincia da sola a 12 anni. Magra, capelli crespi, nera come la notte, coltello sotto la camicia. A 13 è già stata arrestata 22 volte. Temperamento duro. Trova "molli e inconsistenti i ragazzi e le ragazze più grandi". Le piace dare ordini. Organizza furti, ricatta vecchi bavosi coi quali si lascia andare per i soldi del crack, o la voglia di un giubbetto, oppure per dimostrare alla banda di essere una disinvolta senza paura. Non importa l'età. "Rischiavo sempre di più, la vita mi faceva schifo quando non ero eccitata. E se non mi eccitavo con avventure pericolose, meglio morire come fanno i kamikaze. Io, kamikaze senza una guerra o una rivoluzione".
Poi incontra per strada persone che la incuriosiscono. Non impongono niente. Può fare la doccia nelle loro case d'accoglienza. Nessuno la trattiene. Entra ed esce quando le fa comodo. Mai domande ma se ha voglia di parlare l'ascoltano. Non l'annoiano coi buoni consigli, eppure se vuoi sapere qualcosa, rispondono. E di risposta in risposta Esmeralda rivela e contemporaneamente scopre cosa nasconde sotto la frenesia della violenza. Le piace recitare. Ama i colori e le danno i pennelli. Ballare la fa sentire felice. Per la prima volta le dicono: sai raccontare bene, perché non impari a scrivere la tua vita? "La mia vita? Mi sento girare la testa. A chi può interessare...". Ad Esmeralda piace scoprire le parole che non conosce. "Le nuove parole", ripete. Una sera, mentre raccoglieva maglie e coperte per andare a dormire nel vecchio mercato dove a volte i vigilantes uccidono i bambini che considerano ladri, Gilberto Dimenstein, un giornalista che allora dirigeva un progetto-laboratorio del Senac per il recupero di bambini di strada, le dice di dormire li, se vuole.
Esmeralda si ferma. E cambia pagina: "Fino a pochi mesi prima mi sentivo vecchia e talmente esperta da annoiarmi ogni volta che rubavo, o che mi facevo o mi sbattevo per soldi. Mi accorgo all'improvviso d'essere una bambina insicura. Voglio imparare per capire e raccontare". Colla e droga sfumano da sole: non le serve la testa confusa. Con la stessa furia della prima vittima frequenta un corso di comunicazione. Sta per compiere 18 anni ed impugna il libro con la sua foto in copertina. Le piacerebbe preparare gli esami per entrare all'università, ma i sogni sono lenti. Ha capito che bisogna aspettare.


Michéle

Dietro la cresta verde che abbraccia Rio, nella Baixada dove imperversano le squadre della morte, quarant'anni fa si aprivano le colline del cacao e del cotone. Oggi Nova Iguaçu raccoglie tre milioni di persone. Baracche senza vere strade, nessun indirizzo. Su uno sperone c'è una chiesa, sagrato circondato da mura e reticolati ma non è una prigione. Dieci anni fa, verso sera, padre Renato Chiera, piemontese, accendeva il neon di una insegna assurda: "Qui non si uccidono bambini". È il primo mattone delle case di accoglienza che l'associazione di Cuneo "Dalla strada alla vita" ha poi aperto nel Brasile dei bambini impauriti. I ragazzi randagi che i vigilantes inseguono per il colpo alla nuca, il corpo senza vita esposto come ammonimento accanto al negozio del furto mancato; i ragazzi randagi appena scende il buio scavalcano e dormono nel sagrato di padre Chiera. Alle prime luci del mattino il sagrato torna vuoto. Volano via. Ricominciano il su e giù lungo il mare tra Botafogo e Copacabana alla ricerca di turisti dal cuore tenero o dai cattivi pensieri.
Nel cortile il fotografo Danilo De Marco incontra una bambina bionda, capelli lunghissimi: Michéle. Quanti anni? "Forse nove, forse undici", non lo sa. Stringe la mano della sorella piccola. Da tempo infinito non tornano a casa dalla madre. Non credendo al suo racconto del prete che vive pericolosamente raccogliendo soldi e costruendo le case dove i ragazzi possono acquietarsi e studiare, una notte De Marco la segue. Michéle e tre amiche dormono al cimitero. Se piove, nell'obitorio. "I morti sono i soli adulti a non far male ai bambini". Ma le notti nascondono un gioco oscuro. II fotografo sbalordiva ascoltando il racconto del missionario e va a vedere.
Nella favela la mortalità infantile è la prima tragedia della vita ai margini della società. Neonati che muoiono come mosche. Li seppelliscono vestititi da bambole, nelle scatole da scarpe dei supermercati. Michéle e le altre aspettano il tramonto. Scavano e giocano fino al mattino. Non hanno mai abbracciato una bambola vera. Ron legge il servizio e scrive una canzone: "Angeli - sono qui - domani chissà - forse una nuvola". Come una nuvola Michéle scompare all'improvviso mentre un'assistente sociale e il sacerdote facevano progetti sul suo futuro. Ed è riapparsa nelle immagini che un altro fotografo porta a Milano dal Brasile, due anni dopo. L'aveva ritrovata per caso: più grande, quasi donna, pelle raggrinzita, uno scheletro che continuava a sorridere. Stava per morire, la solita malattia.
Chissà se chi compra nei salotti di Villa Daslu, reparto giocattoli elettronici, moto a benzina e moto a batteria per i più piccoli sa delle Michéle vagabonde nelle strade. Possono due umanità tanto lontane convivere nelle stesse città senza rischiare il finimondo? L'analisi di Luiz Gonzaga Belluzzo, economista dell'università di Campinas, sconfina nella sociologia partendo dai numeri: "II peccato dei notabili brasiliani si manifesta con la forma raffinata del nascondere le tragedie del nostro tempo favorendo la crescente separazione tra potere reale e potere democratico". La pena di tutti e privilegi per una piccola parte: difficile vivere con dignità quando c'è chi pretende di allargare ricchezze già larghe facendo finta di non vedere.


La casa dei bambini senza futuro

Un mattino i giornali danno la buona notizia. L'occhio di un satellite scopre che "le favelas di San Paolo hanno smesso di allargarsi". La buona notizia riguarda i terreni dove possono crescere i palazzi dei nuovi quartieri giardino. Sepolta fra le righe c'è una notizia meno felice: le favelas si spostano verticalmente verso discariche sterminate dove dal mattino alla sera donne e ragazzi frugano per recuperare qualcosa da mangiare, scarti che l'appetito del popolo che beve acque minerali straniere non ritiene ormai commestibili. Quattro milioni di senza niente sopravvivono anche così. Migliaia di ragazzi con l'AIDS vagano nei marciapiedi affumicati da milioni di automobili.
Nel cucinone di don Julio Lancellotti, prete da strada, la cena è un po' di verdura. La sua rete di Case della Vita accoglie adolescenti col sangue avvelenato dalla solita malattia. Nati così. È un prete alto, solenne, silenzioso come un personaggio di Bergman. È tornato stanco coi bambini da un pomeriggio di preghiera che altri preti impegnati come don Julio hanno organizzato attorno alla cattedrale per ricordare cinque barboni bruciati vivi dalle squadre della morte, un mese prima, aprile 2005. Per la magistratura sono poliziotti in libera uscita. Non muoiono solo barboni: i corpi di quattro o cinque ragazzi ogni giorno vengono ritrovati nelle discariche. Sempre colpi d'arma da fuoco.
I bambini e gli adolescenti della Casa della Vita che apre il suo cancello in un quartiere storico della prima emigrazione italiana, Mooca, hanno gli occhi che si chiudono sulla minestra. Magliette colorate, pettinati con cura, dita sporche di biro. "Non devono avere l'impressione di vivere obbligatoriamente in una comunità di malati. È la loro famiglia allargata. Io ne sono il guardiano". Lo baciano prima di andare a letto. Un bambino biondo vuole leggergli la poesia scritta a scuola. Allegra, piena di galline. Le Case della Vita sono tante, legate dall'esperienza di don Julio che è stato il primo a cominciare nel 1992. Nella comunità che gli è affidata sono passati 109 bambini dai zero ai quattordici anni, maschi e femmine. Dieci sono morti. E la morte resta una presenza che accompagna subito la loro vita. Ne parlano in casa, ne parlano a scuola. Al principio venivano guardati con timore dai compagni senza problemi. Anche i vicini del quartiere sembravano intimoriti: chiedono al sindaco della città di mandarli via. Temevano frequentassero i loro figli, e adesso che li frequentano la diffidenza è passata. La casa è proprio una casa dove tornano finite le ore di scuola, o tornano più tardi per fermarsi a giocare in casa di amici. Devono solo telefonare, come fa ogni bambino di ogni famiglia in qualsiasi città del mondo. Una psicologa è una specie di madre alla quale i 34 ragazzi si rivolgono per scacciare le ombre. Una ragazza di quattordici anni è entrata nella Casa quando era nata da poco. Ha visto morire dieci compagne e compagni. Per il momento dall'AIDS non si guarisce: lo sa. In Brasile le statistiche danno una sopravvivenza di quattordici anni. Sa anche questo. "Ci stiamo occupando soprattutto di lei senza farglielo capire. Sta per partire per Roma: l'abbiamo scelta per un pellegrinaggio. Ed è felice. Non si arrende anche se la malinconia a volte la travolge. Non si sono arresi fino all'ultimo minuto i ragazzi che non ce l'hanno fatta. Una rabbia che non ha mai perso la speranza: 'Ti aspetto domani', mi hanno detto la sera in cui stavano spirando. E l'indomani, tornando dall'ospedale, ho dovuto spiegare ai ragazzi di casa che un amico ci aveva lasciato".
La voce di don Julio è un sussurro per non far ascoltare chi sta mangiando in fondo al tavolo. Accende la tv, canale italiano. II satellite regala il Porta a Porta dedicato a Ratzinger, nuovo papa. Sta parlando l'Antonio Socci dei miracoli di Excalibur. Ricorda il libro del cardinale da lui presentato due anni fa: "Spiritualismo profondo, dottrinalmente costruttivo, così lontano dalle teologie spicciole di certi fedeli dell'America Latina. Troppo facile affidarsi alla sociologia trascurando l'insegnamento profondo della chiesa". Don Julio alza gli occhi sul tavolo ormai vuoto: "Di questi ragazzi qualcuno se ne andrà entro l'anno. Ne arriveranno di nuovi, dovremo ricominciare". Sospira con rassegnazione: "Troppo facile...".


(Articolo tratto dall'antologia Favelas e grattacieli, Nuova Iniziativa editoriale SpA. e L'Unità, Roma, 2005, a cura di Maurizio Chierici con la collaborazione di Giancarlo Summa. Traduzione di Roberta Barni.)




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