L'esilio - lungo viaggio liberatore

- La terra degli scrittori -


Milan Kundera


Vera Linhartova era negli anni '60 una delle scrittrici più ammirate in Cecoslovacchia, poetessa di una prosa meditativa, ermetica, inclassificabile. Dopo il 1968, avendo lasciato il proprio paese per Parigi, ha cominciato a scrivere e a pubblicare in lingua francese. Conosciuta per la sua natura solitaria, ha sorpreso tutti i suoi amici quando, recentemente, ha accettato l'invito dell'Istituto francese di Praga e al colloquio consacrato alla problematica dell'esilio ha pronunciato la sua comunicazione. E' quanto di più non conformista e di più lucido io abbia mai letto su questo tema.
La nostra seconda metà del secolo ci ha reso tutti estremamente sensibili al destino delle persone a cui è stato proibito di soggiornare nel proprio paese. Questa sensibilità piena di compassione ha avvolto il problema dell'esilio nelle nebbie di un moralismo lacrimevole e ha occultato il carattere concreto della vita dell'esiliato che, secondo la Linhartova, ha invece saputo spesso trasformare la sua messa al bando in un impulso liberatore verso un altrove, sconosciuto per definizione, aperto a tutte le possibilità.
La scrittrice, naturalmente, ha mille volte ragione!
Come comprendere altrimenti il fatto, in apparenza sorprendente, che dopo la fine del comunismo quasi nessuno dei grandi emigrati abbia fatto ritorno in patria? Né Milosz, né Brandys, né Kolakowski, né Kristeva, né Zinoviev, né Siniavski, né Skvorecky, né Forman, né Polanski, né Agnieszka Holland, né Sylvie Richterova. La fine del comunismo non li ha spinti a celebrare nel loro paese natale la festa del Grande Ritorno? E se, con grande delusione del pubblico, non ne hanno sentito il desiderio, non avrebbero dovuto almeno considerare il loro ritorno come un impegno morale? Linhartova: "lo scrittore è prima di tutto un uomo libero, e l'obbligo di preservare la sua indipendenza contro tutte le costrizioni viene prima di qualsiasi altra considerazione. E non parlo di quelle costrizioni insensate che un potere abusivo cerca d'imporre, ma delle restrizioni - tanto più difficili da eludere quanto più sono colme di buone intenzioni - che si richiamano ai sentimenti di dovere verso il proprio paese". In effetti si continua a rimuginare clichés sui diritti dell'uomo e si persiste allo stesso tempo a considerare l'individuo come una proprietà della nazione.
Ma la scrittrice va ancora più lontano: "Ho scelto il luogo dove volevo vivere, ma ho scelto anche la lingua che volevo parlare". Le si obietterà: lo scrittore, quantunque uomo libero, non è il custode della propria lingua? Non è forse questo il senso stesso della sua missione? Linhartova: "Spesso si pretende che, più di chiunque altro, lo scrittore non sia libero di muoversi, poiché egli è legato alla sua lingua da un legame indissolubile. Credo si tratti ancora di uno di quei miti che servono da giustificazione alle persone timorate...". Perché: "Lo scrittore non è prigioniero di una sola lingua. Una grande frase liberatrice. Solo la brevità della vita impedisce allo scrittore di trarre tutte le conclusioni da questo invito alla libertà.
Linhartova: "Le mie simpatie vanno ai nomadi, io non possiedo l'anima di una sedentaria. Anch'io posso dunque affermare che il mio esilio è venuto ad esaudire ciò che da sempre era il mio voto più caro: vivere altrove". Quando la Linhartova scrive in francese è ancora una scrittrice ceca? No. Diviene allora una scrittrice francese? Nemmeno. E' altrove. Altrove come un tempo Chopin. Altrove come più tardi, ciascuno a suo modo, Nabokov, Beckett, Stravinskij, Gombrowicz. Ben inteso, ognuno vive il proprio esilio in modo inimitabile, e l'esperienza della Linhartova è un caso limite. Ciò non toglie che dopo il suo testo radicale e luminoso non si possa più parlare dell'esilio come se n'è parlato fino ad ora.



Rifugiati nella banalità

di Massimo Rizzante


Qualche anno fa, quando uscì su un quotidiano francese il breve testo di Milan Kundera sull'"esilio liberatore", mi trovavo a Parigi. Avevo scelto di andarmene dall'Italia. Nessuna dittatura mi aveva costretto a quel passo. Mi trovavo, insomma, dalla parte più banale e meno tragica dell'esilio. Avevo letto qualche giorno prima su una rivista, L'Atelier du roman, il saggio della Linhartova, Pour une ontologie de l'exil, da cui Kundera prendeva le mosse per il suo intervento.
La cosa che più mi colpì fu che la scrittrice poneva l'accento sulla possibilità di non subire passivamente il proprio esilio, ma di trasfigurarlo, di trasformare la propria condizione di non appartenenza in un esercizio quotidiano di libertà. Queste parole mi ricordavano una delle non poche verità espresse verso la fine degli anni '80 da Brodskij nella sua conferenza La condizione che chiamiamo esilio, dove il poeta aveva affermato, con la solita sferzante lucidità, che uno scrittore in esilio è quasi sempre "un essere retrospettivo e retroattivo... Come i falsi profeti di Dante, il nostro uomo ha la testa perpetuamente rivolta all'indietro e le lacrime o la saliva, gli scorrono giù tra le scapole". Mi sembrava che Linhartova, Kundera e Brodskij, seppure con tonalità differenti, cercassero di rivendicare il lato non tragico dell'esilio, inteso non tanto come vagheggiamento orgoglioso e perverso del proprio passato, quanto come potente lente d'ingrandimento degli eventi presenti, capace di osservare i segni premonitori del futuro.
Se l'esilio assomiglia all'Inferno, pensavo, è perché è soprattutto una scuola di chiaroveggenza e di modestia. Allo stesso tempo mi domandai: le cose, oggi, stanno ancora così? La tua esperienza dell'esilio può avere ancora, dopo la fine del comunismo, qui in Europa, dei tratti comuni non dico con quella di Ovidio, Dante, Joyce, Seferis, ma con quella dei tuoi maestri più prossimi, Kundera, Brodskij, e di tutti quegli intellettuali che negli ultimi cinquant'anni hanno dovuto o hanno scelto di vivere "altrove"? Per avere un altrove bisogna avere una patria, mi dicevo. Non tanto intesa come suolo nazionale, ma come identità storica e culturale, preziosa e incommensurabile. La banalità del mio esilio non era dovuta all'assenza di tragicità, ma al fatto che il luogo da dove venivo era terribilmente simile all'"altrove" in cui mi trovavo. Entrambi questi luoghi stavano diventando interscambiali, stavano perdendo la loro specificità storica e la loro diversità culturale. L'intera Europa stava realizzando il suo sogno di unità. Oscuramente sentivo che un altro capitolo della storia europea, quello dell'esilio, si stava chiudendo.
Ritornai in Italia. Il tema dell'esilio, se non abbandonato, se ne stava in un angolo della coscienza, silenzioso. Un fatto, recentemente, lo ha risvegliato: la lettura dell'ultimo romanzo di Sylvie Richterova, una delle poche personalità letterarie dell'Europa centrale che, fin dagli inizi degli Anni '70, ha scelto l'Italia, come suo paese d'adozione. Il romanzo si intitola Second adieu ed è stato pubblicato nel 1999 in Francia da Gallimard. Tutti i personaggi della storia scrivono la loro storia, "come se da questo dipendesse la loro vita" e la loro identità. Credono nella parola scritta e nel dialogo che questa instaura, un dialogo errante nel tempo e nello spazio. Tutto il romanzo è infatti un continuo partire e ritornare, un continuo andirivieni di padri, figli, amici, amanti, lettere, da una parte all'altra dell'Europa e del mondo: ma dappertutto lo stesso paesaggio, la stessa indefinibile frontiera tra bellezza e squallore, tra passato e futuro, lo stesso presente "unico e definitivo" senza un altrove spaziale o temporale dove andare o dove ritornare.
I personaggi della Richterova vivono l'esilio come una condizione ormai acquisita, inalienabile, permanente: annunciano la definitiva banalità dell'esilio, ho pensato. Le loro teste, come quelle dei falsi profeti di Dante, sono rivolte all'indietro, ma quello che vedono in realtà è ciò che sta loro davanti. Il loro eterno errare sarebbe quello degli odierni turisti del globo, se essi non fossero animati da quell'ansia di "nascondere scrupolosamente" la loro vita segreta, se non fosse per quell'ostinato e irresistibile istinto di darle forma. Sono esuli che incarnano l'addio a un'epoca, quella in cui l'esilio poteva essere ancora compreso come castigo o liberazione.


Milan Kundera



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