La nuova California


Lima Barreto






Nessuno sapeva da dove venisse quell'uomo. L'impiegato delle poste poteva solo riferire che rispondeva al nome di Raimundo Flamel, poiché così era intestata la corrispondenza che riceveva. Ed era tanta. Quasi ogni giorno, il postino andava dall'altra parte della città dove abitava lo sconosciuto, soppesando un robusto fascio di lettere arrivate da tutto il mondo, grosse riviste in lingue incomprensibili, libri, pacchetti…
Quando Fabricio, il muratore, tornò da un lavoro in casa del nuovo cittadino, nella bottega tutti gli chiesero che lavoro gli avesse commissionato.
"Farò un forno", disse il negro, "nella sala da pranzo".
Immaginate lo spavento della piccola cittadina di Tubiacanga nell'apprendere la notizia di una simile stravagante costruzione: un forno nella sala da pranzo! Nei giorni successivi, Fabricio poté raccontare di aver visto palle di vetro, coltelli senza lama, vasi come quelli delle farmacie - una serie di oggetti stravaganti che erano messi in mostra sui tavoli e sulle credenze come fossero utensili di una batteria da cucina con cui il diavolo in persona cucinasse.
Nella città scoppiò l'allarme. Per alcuni, i più emancipati, era un fabbricante di denaro falso; per altri, i creduloni e i sempliciotti, un tipo che aveva a che fare con il maligno.
Chico da Tirana, il carrettiere, quando passava davanti alla casa dell'uomo misterioso con il carro che cigolava, e guardava il comignolo della sala da pranzo che fumava, non tralasciava di farsi il segno della croce e di recitare un "Credo" sottovoce. E, se non fosse stato per l'intervento del farmacista, il Sottodelegato avrebbe messo una recinzione alla casa di quell'individuo sospetto, che inquietava l'immaginazione di tutta una popolazione.
Basandosi sulle informazioni di Fabricio, il farmacista Bastos, aveva concluso che lo sconosciuto doveva essere uno studioso, un grande chimico, rifugiatosi lì per portare avanti le sue ricerche scientifiche con maggiore tranquillità.
Essendo Bastos un uomo colto e rispettato nella città, consigliere, medico anche, perché il dottor Jeronimo non amava fare le ricette e se l'era fatto socio per vivere meglio in pace, la sua opinione portò la tranquillità in tutte le coscienze, e fece sì che la popolazione circondasse di una silenziosa ammirazione la persona del grande chimico, che era venuto ad abitare in quella città.
Al pomeriggio, se lo vedevano passeggiare lungo la riva del Tubiacanga, seduto ora qui, ora lì, mentre guardava perdutamente le chiare acque del fiumiciattolo, meditando davanti alla penetrante malinconia del crepuscolo, tutti si toglievano il cappello e non era raro che al "buona sera", aggiungessero "dottore". E toccava profondamente il cuore di quella gente la profonda simpatia con cui egli trattava i bambini, la maniera in cui li ammirava, sembrando impietosirsi perché erano nati per soffrire e morire.
Era davvero ammirevole, nella dolcezza soave del pomeriggio, la bontà da Messia con cui egli accarezzava quelle creature nere, con la pelle così liscia e i modi così tristi, immerse nella loro prigionia morale, e anche quelle bianche, dalla pelle sbiadita, screpolata e aspra, che vivevano al riparo nella inevitabile fiacchezza dei tropici.
A volte, gli veniva voglia di pensare quale fosse la ragione per cui Bernardin de Saint-Pierre avesse speso tutte le sue energie con Paolo e Virginia e si fosse dimenticato degli schiavi che aveva intorno…
In pochi giorni l'ammirazione per lo studioso se non era ancora diventata generale, era solo perché c'era qualcuno che non aveva grande considerazione per i meriti del nuovo cittadino.
Capitan Pelino, maestro elementare e redattore della Gazzetta di Tubiacanga, organo locale affiliato al partito di maggioranza, non sopportava lo studioso. "Vedrete", diceva, "chi è quel tipo… Un profittatore, un avventuriere o forse un ladro scappato da Rio".
La sua opinione non era basata su niente o, anzi, si basava su un dispetto recondito, avendo visto sulla terra un rivale per la fama di erudito di cui godeva. Non che Pelino fosse chimico, tutt'altro; ma era erudito, era un grammatico. Nessuno poteva scrivere a Tubiacanga senza ricevere una stilettata dal Capitan Pelino e, anche quando si parlava di qualche uomo illustre di Rio, egli non ometteva di dire:"Non c'è dubbio! Il tizio ha talento, ma scrive "uno altro", "dello resto"…". E contraeva la bocca come se avesse ingoiato qualcosa d'amaro.
Tutta la città di Tubiacanga si era abituata a rispettare il solenne Pelino, che correggeva ed emendava le maggiori glorie nazionali.
All'imbrunire, dopo aver letto un poco Sotero, Candido de Figuereido oppure Castro Lopes, e avere passato più di una volta la tintura sui capelli, il vecchio maestro elementare usciva pacatamente da casa, tutto abbottonato nel suo cappotto di rigatino di Minas, e s'incamminava verso la bottega di Bastos a scambiare quattro parole di prosa. Conversare è un modo di dire perché Pelino era avaro di parole, limitandosi solo ad ascoltare. Quando, però, dalla bocca di qualcuno scappava la più piccola imperfezione linguistica, interveniva e correggeva. "Io assicuro", diceva il postino, "che…"; lì il maestro elementare interveniva con mansuetudine evangelica: "Non dica "assicuro" signor Bernardes, in portoghese si dice "garantisco".
E la conversazione continuava una correzione dopo l'altra. Fu così che molti interlocutori si allontanarono, ma Pelino, indifferente, sicuro dei suoi doveri, continuava il suo apostolato purista. L'arrivo dello studioso lo distraeva leggermente dalla sua missione. Tutti i suoi sforzi si concentravano ora per combattere quel rivale che era comparso così inopinatamente.
Vaghe furono le sue parole e la sua eloquenza: non solo Raimundo Flamel pagava regolarmente i suoi conti, ma era anche generoso - padre dei poveri -, e il farmacista aveva letto su una rivista di medicinali il suo nome citato come chimico di valore.

II
Già da alcuni anni il chimico viveva a Tubiacanga quando, una bella mattina, Bastos lo vide entrare nella farmacia. Il piacere del farmacista fu immenso. Lo studioso non si era mai degnato di andare a far visita a chicchessia e, un certo giorno, quando il sacrestano Oreste aveva osato entrare in casa sua chiedendogli un'offerta per la festa di Nossa Senhora da Conceição, fu con palese scortesia che egli lo aveva accolto.
Vedendolo, Bastos uscì da dietro al bancone e corse a riceverlo con le migliori attestazioni di chi sa con chi ha a che fare e, quasi esultando, disse:
"Dottore, sia il benvenuto".
Lo studioso sembrò non sorprendersi né della dimostrazione di riverenza del farmacista, né del titolo universitario. Guardò un istante lo scaffale pieno di medicine e dolcemente rispose:
"Desideravo parlarle in privato, signor Bastos".
Lo stupore del farmacista fu grande. In cosa avrebbe potuto essere utile all'uomo il cui nome correva per il mondo e di cui i giornali parlavano con tanto limpido rispetto?
Era il denaro? Forse… Un ritardo nel pagamento delle rendite, chissà? E così condusse il chimico all'interno della casa sotto lo sguardo atterrito dell'apprendista che, per un momento, lasciò riposare il pestello nel mortaio, dove stava macerando qualche tisana.
Alla fine, trovò in fondo, molto in fondo, una stanzetta che usava per le visite mediche più minuziose o per le piccole operazioni, perché Bastos operava anche.
Si sedettero e Flamel non tardò a spiegare:
"Come lei saprà, mi dedico alla chimica e ho anche una certa fama nel mondo degli scienziati…".
"Lo so bene, dottore, ne ho anche informato i miei amici".
"Grazie. Dunque: ho fatto una grande scoperta, straordinaria…".
Imbarazzato dal proprio entusiasmo lo studioso fece una pausa e poi continuò:
"Una scoperta… Ma non è conveniente, per adesso, divulgarla al mondo scientifico, capisce?".
"Perfettamente".
"Per questo avrei bisogno di tre persone ragguardevoli che facessero da testimoni ad un esperimento e mi dessero un attestato formale, per salvaguardare la paternità della mia invenzione… Lei comprende, ci sono avvenimenti imprevisti e…".
"Certamente, non c'è dubbio!".
"Immagini che si tratta di fare oro…".
"Come? Cosa?", fece Bastos, spalancando gli occhi.
"Sì! Oro!", disse con fermezza Flamel.
"Ma come?".
"Lo saprà", disse il chimico seccamente. " il problema per ora sono le persone che devono assistere all'esperimento, non trova?".
"Certo, è necessario salvaguardare i suoi diritti, infatti…".
"Una di esse", interruppe lo studioso, "è lei. Le altre due, signor Bastos, deve indicarmele lei".
Il farmacista rimase un momento a pensare, passando in rivista le sue conoscenze e, dopo tre minuti, chiese:
"Il Colonnello Bentes può andare? Lo conosce?".
"No. Lei sa che non ho rapporti con nessuno qui".
"Le posso garantire che è un uomo serio, ricco e molto discreto".
"è religioso? Le faccio questa domanda perché avremo a che fare con ossa di morti che sono indispensabili…".
"Macché! È quasi ateo…".
"Bene! Accetto. E l'altro?".
Bastos tornò a pensare e questa volta impiegò un po' di più per interrogare la sua memoria… Alla fine parlò:
"Sarà il Tenente Carvalhais, l'esattore, lo conosce?".
"Come le ho già detto…".
"Già, è un uomo di fiducia, serio, ma…".
"Cosa c'è?".
"è massone".
"Meglio".
"E quando sarà?".
"Domenica. Domenica voi tre verrete a casa mia ad assistere all'esperimento e spero che non mi rifiuterete le vostre firme per autenticare la mia scoperta".
"Siamo d'accordo".
Domenica, com'era stato promesso, i tre rispettabili uomini di Tubiacanga andarono a casa di Flamel e, alcuni giorni dopo, misteriosamente, egli sparì senza lasciare tracce o spiegazioni del suo dileguamento.

III
Tubiacanga era una piccola città di tre o quattro mila abitanti, molto pacifica, nella cui stazione, di quando in quando, gli espressi facevano l'onore di fermarsi. Da cinque anni non si registrava un furto o una rapina. Le porte e le finestre si usavano solo… perché si usavano a Rio.
L'unico crimine annotato nel misero registro fu un assassinio in occasione delle elezioni municipali ma, essendo l'assassino del partito di governo e la vittima di quello all'opposizione, l'avvenimento non alterò le abitudini della città, che continuò ad esportare il proprio caffè e a specchiare le sue case piccole e basse sulle povere acque del fiume che l'aveva battezzata.
Ma quale non fu la sorpresa dei suoi abitanti quando si venne a verificare uno dei più ripugnanti crimini di cui si ha memoria! Non si trattava di uno squartamento o di un parricidio; non era l'omicidio di una famiglia intera o un assalto all'esattoria. Era una cosa peggiore, sacrilega agli occhi di tutte le religioni e di tutte le coscienze: venivano violate le tombe del "Riposo", il cimitero, il camposanto.
All'inizio, il becchino pensò che si trattasse di cani, ma, esaminando bene il muro di cinta non trovò che dei piccoli buchi. Li richiuse; fu inutile. Il giorno dopo, un pietra sepolcrale divelta e le ossa trafugate; il successivo, un'urna e una fossa comune. Erano esseri umani o il demonio? Il becchino non volle più continuare le ricerche da solo, andò dal Sottodelegato e la notizia si sparse ovunque.
Nella cittadina l'indignazione colse ogni razza e ogni spirito. Il culto della morte li precede tutti e sarà sicuramente l'ultimo a morire nelle coscienze. Contro la profanazione protestarono i sei presbiteriani del luogo, i biblici, come vengono chiamati dal popolo. Protestava Agrimensol Nicolau, vecchio cadetto e adepto del rito Teixeira Mendes; protestava il Maggiore Camanho, presidente della Loggia Nuova Speranza; protestavano il turco Miguel Abudala, negoziante di mercerie, e lo scettico Belmiro, vecchio studente che viveva alla giornata, sbevazzando acquavite nelle osterie. La stessa figlia dell'ingegnere responsabile della ferrovia, che viveva disdegnando quel paesino, senza neanche notare i sospiri dei corteggiatori locali, sempre nell'attesa di veder scendere dall'espresso un principe che la sposasse, la bella e disdegnosa Cora non poté fare a meno di condividere l'indignazione e l'orrore che tale avvenimento aveva provocato in tutti gli abitanti del paesino. Che c'entrava lei con la tomba di antichi schiavi e umili contadini? Cosa poteva interessare ai suoi begli occhi scuri il destino di ossa così umili? Forse, il loro sacrilegio avrebbe turbato il suo sogno di far splendere la bellezza della sua bocca, dei suoi occhi e del suo corpo sulle strade di Rio?
No di certo. Ma era la Morte, la Morte implacabile e onnipotente, di cui anche lei si sentiva schiava e che non si esimerebbe un giorno di portare il suo bel visetto alla pace eterna del cimitero. Lì, Cora, desiderava che le sue ossa risposassero tranquille, quiete, e comode, in una cassa ben fatta e in una tomba sicura, dopo che la sua carne fosse stata la delizia e il piacere dei vermi…
Il più indignato, però, era Pelino. Il professore ne fece un articolo di fondo, imprecando, sbraitando, gridando: "Nella storia del crimine", diceva, "già abbastanza ricca di fatti ripugnanti come lo squartamento di Maria de Macedo, lo strangolamento dei fratelli Fuoco, non se ne registra uno che lo sia altrettanto come il saccheggio alle tombe del "Riposo"".
E la cittadina viveva in agitazione. Sui volti non si leggeva più la pace, gli affari erano paralizzati, i corteggiamenti sospesi. Sulle case per giorni e giorni incombevano nuvole nere e, la notte, tutti sentivano rumori, gemiti, schiamazzi soprannaturali… Sembrava che i morti chiedessero vendetta…
Il trafugamento, tuttavia, continuava. Ogni notte due, tre tombe venivano aperte e svuotate del loro funebre contenuto. Tutta la popolazione decise di andare in massa a sorvegliare le ossa dei loro avi. Si recarono presto ma, in breve tempo, cedendo alla fatica e al sonno, iniziò a ritirarsi uno, poi un altro e, all'alba, non c'era più nessun vigilante. Anche quel giorno il becchino verificò che due tombe erano state aperte e le ossa portate verso un destino misterioso.
Si organizzò quindi una guardia. Dieci uomini determinati giurarono davanti al Sottodelegato di vigilare tutta la notte la dimora dei morti.
La prima notte non successe niente di strano, né la seconda e la terza. Ma la quarta, quando già si accingevano a sonnecchiare, uno dei vigilanti pensò di aver scorto un volto che se la svignava dal recinto delle fosse.
Si misero a correre e riuscirono ad acchiappare due dei vampiri. Non contennero più la rabbia e l'indignazione, fino ad allora assopite nei loro animi, e diedero tante bastonate ai macabri ladri, che li lasciarono stesi come morti.
La notizia corse subito di casa in casa e quando la mattina si trattò di stabilire l'identità dei due malfattori, vennero riconosciuti davanti all'intera popolazione come l'esattore Carvalhais e il colonnello Bentes, ricco proprietario terriero e presidente della Camera. Quest'ultimo era ancora vivo e alle ripetute domande che gli fecero riuscì a dire che raccoglieva le ossa per fare l'oro e il compagno che era fuggito era il farmacista.
Ci fu spavento e ci furono speranze. Come fare l'oro con le ossa? Era possibile? E quell'uomo ricco e rispettato perché avrebbe dovuto mettersi a fare il ladro di morti se la cosa non fosse stata vera!
Se fosse stato possibile, se da quelle misere spoglie funebri si fossero potuti ricavare qualche milione di reis, che cosa buona sarebbe stata per tutti loro!
Il postino, il cui antico sogno era la laurea del figlio, fiutò subito il modo per pagare gli studi. Castrioto, lo scrivano del giudice di pace, che l'anno precedente era riuscito a comprare una casa ma non aveva potuto recintarla, immaginò il muro che avrebbe protetto il suo orto e le sue bestie. Agli occhi dell'allevatore Marques, che da anni si affannava per rimediare un pascolo, apparve subito il campo verde del Costa, dove i suoi buoi sarebbero ingrassati e si sarebbero ripresi…
Quelle ossa che valevano oro avrebbero dato risposta e soddisfazione e felicità alle necessità di ognuno, e quelle due o tremila persone, uomini, bambini, donne, giovani e vecchi, come se fossero stati una sola persona, corsero a casa del farmacista.
A fatica il Sottodelegato riuscì ad impedire che irrompessero nella farmacia e che rimanessero ad aspettare sulla piazza l'uomo che possedeva il segreto di tutto un Potosì. Non tardò a comparire. Arrampicato su una sedia, con in mano una piccola barra d'oro che riluceva al sole forte del mattino, Bastos chiese la grazia promettendo che, se gli avessero risparmiato la vita, avrebbe rivelato il segreto. "Vogliamo saperlo subito", gridarono. Allora spiegò che era necessario trascrivere la formula, indicare lo svolgimento del processo, i componenti, un lavoro lungo che poteva essere redatto e consegnato solo per il giorno seguente. Ci fu un mormorio, alcuni si misero a gridare ma il sottodelegato prese la parola e si assunse la responsabilità del risultato.
Docilmente, con quella dolcezza tipica delle moltitudini furiose, ognuno s'incamminò verso casa con in testa un unico pensiero: trovare immediatamente la maggiore quantità di ossa di morti che fosse possibile.
La notizia dell'accaduto giunse in casa dell'ingegnere della ferrovia. Durante il pranzo non si parlò d'altro. Il dottore mise insieme quello che ancora ricordava dei suoi studi e affermò che la cosa era impossibile. Era cosa da alchimisti, roba passata. L'oro è oro, un corpo semplice, l'osso è osso, un composto, fosfato di calcio. Pensare che si potesse ricavare una cosa dall'altra era un'assurdità. Cora approfittò dell'occasione per ridere sprezzante della crudeltà di quei bifolchi. Ma sua madre, Dona Emilia, riteneva che la cosa fosse possibile.
La notte, tuttavia, l'ingegnere vedendo che la moglie dormiva, saltò dalla finestra e corse in direzione del cimitero; Cora, a piedi nudi, con le pantofole in mano, andò a cercare la domestica perché andassero insieme a raccogliere le ossa. Ma, non trovandola, andò sola. E Dona Emilia, ritrovatasi da sola e immaginando dov'erano, li raggiunse. E così accadde in tutta la città. Il padre, senza dire niente al figlio, usciva; la moglie, pensando d'ingannare il marito, usciva; i figli e le figlie, i servi, tutta la popolazione, alla luce offuscata delle stelle, corsero al satanico rendez-vous nel "Riposo". E non mancò nessuno. C'erano il più ricco e il più povero. C'era il turco Miguel, c'era il professor Pelino, il dottor Jeronimo, il Maggiore Camanho, Cora. La bella e sfolgorante Cora con le sue splendide mani d'alabastro rivoltava la putredine nelle tombe, strappava le carni marce ancora tenacemente attaccate alle ossa e se ne riempiva il grembo che finora non le era servito. Raccoglieva la dote, e le sue narici, che si aprivano come ali rosate e quasi trasparenti, non sentivano il fetore dei tessuti imputriditi in poltiglia puzzolente…
La discordia non tardò a comparire. I morti erano pochi e non bastavano per soddisfare la fame dei vivi. Ci furono coltellate, spari, botte. Pelino accoltellò il turco per un femore e anche all'interno delle famiglie sorsero liti. Solo il portalettere e il figlio non litigarono. Andarono d'amore e d'accordo e ci fu persino un'occasione in cui il piccolo, uno sveglio bambino di undici anni, consigliò al padre: "Papà, andiamo dov'è sepolta mamma, lei era così grossa…".
Al mattino, il cimitero aveva più morti di quanti ne aveva accolti in trent'anni d'esistenza. Solo una persona non c'era andata, non aveva ucciso né profanato le sepolture: era l'ubriacone Belmiro.
Entrando in una bottega semi aperta e non trovandovi nessuno, riempì una bottiglia di acquavite e si fermò a bere seduto sulla riva del Tubiacanga, guardando scorrere mitemente le sue acque sopra il ruvido letto di granito. Entrambi, lui e il fiume, indifferenti a quello che avevano visto, persino alla fuga del farmacista con il suo Potosì e il suo segreto, sotto la volta eterna delle stelle.




(Traduzione di Silvia Marianecci)




Afonso Henriques de Lima Barreto nacque a Rio de Janeiro nel 1881. Fu impiegato pubblico, giornalista e scrittore. Figlio di un tipografo dell'Imprensa Nacional (Stampa Nazionale) e di una professoressa, entrambi mulatti, fu avviato agli studi dalla madre, che perse quando aveva sette anni.
Suo padre avrebbe voluto che il figlio diventasse medico, ma Lima Barreto optò inizialmente per l'ingegneria civile. Dovette però abbandonare gli studi, nel 1902, per assumersi la responsabilità ed il sostentamento della famiglia a causa della malattia mentale del padre, allora magazziniere della Colonia Psichiatrica nell'Ilha do Governador (Isola del Governatore). Entrò, per concorso, nella Segreteria della Difesa dove iniziò a lavorare come scrivano.
Nel 1905 cominciò a scrivere dei reportage per il Correio da Manhã (Corriere del Mattino). Nel 1909 pubblicò il suo primo libro, il romanzo "Recordações do Escrivão Isaías Caminha" ("Ricordi del cancelliere Isaias Caminha"). Nell'agosto del 1911, il "Jornal do Commercio" (Giornale del Commercio) comincia a pubblicare, a puntate, il suo romanzo "Triste fim de Policarpo Quaresima" ("Triste fine di Policarpo Quaresima") che aveva scritto dal gennaio al marzo di quell'anno.
Nel 1914 fu internato per la prima volta in manicomio (dal 18 de agosto al 13 di ottobre). Da lì in poi si sarebbero succeduti i ricoveri e le licenze mediche, quasi sempre derivanti dall'alcoolismo.
Nei primi mesi del 1916 esce, sotto forma di volume, il romanzo "Triste fine di Policarpo Quaresima" che include anche alcuni notevoli racconti come "A Nova Caliofòrnia" (" La Nuova California") e "O homen que sabia javanês" ("L'uomo che sapeva il giavanese") che vennero accolti bene dalla critica che vide in Lima Barreto il successore legittimo di Machado de Assis.
Passò a scrivere per il settimanale politico A.B.C. Nel luglio del 1917, dopo il ricovero in ospedale, consegna al suo editore J. Ribeiro dos Santos gli originali de "I Bruzundangas" , satire, pubblicato solo nel 1922, in mese dopo la morte dell'autore.
Gli fu preclusa una promozione all'interno della Segreteria della Difesa per aver partecipato, come giurato, al processo degli accusati nell'episodio denominato "Primavera di Sangue" (1910) che condannò i militari coinvolti nell'assassinio di una studentessa.
Influenzato dalla Rivoluzione Russa, a partire dal 1918 passò a militare nella stampa socialista, pubblicando nel settimanale alternativo A.B.C. un manifesto in difesa del comunismo. Nel 1919 fu internato per la seconda volta in manicomio.
Candidatosi per due volte a membro dell'Accademia Brasiliana di Lettere, la prima volta la sua richiesta non fu presa in considerazione, la seconda non riuscì a farsi eleggere.
A posteriori ricevette menzione onorevole dalla stessa Accademia.
Morì di cirrosi epatica; al suo funerale parteciparono in molti, ma non c'erano gli intellettuali e l'alta società; c'erano i poveri e gli anonimi della periferia dei quali scriveva.




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