Un discorso infinito



Giorgio Caproni




"Le parole a cosa servono, - diceva. - I morti rimangono con la bocca aperta per esalare perfino l'ultima parola ch'è in noi. Quando non rimane in essi nemmeno una minima parola, è allora che i morti parlano alfine. Bisogna cominciare ad ascoltarli quando anche l'ultima parola è esalata dalla loro bocca".
Eravamo nel cristallo profondo del plenilunio - non c'erano che montagne di pietra intorno a noi e, nel profondo nitore lunare, le salme con la nuca spaccata sul sasso della strada. Una strada compatta come il fiume ghiacciato, come gli enormi lastroni color bottiglia sconvolti e fermi nel gelo sul letto del fiume. E accanto alle salme c'eravamo noi di guardia - c'ero io con Athos, col Pinto e Tredici; ed era Athos che diceva quelle cose opache, con la barbetta bionda e gli occhi anch'essi pieni di ghiaccio. Stava fermo con la mano alzata, in un mezzo gesto, anche lui sembrando una salma seduta; senonché non c'era il sangue incupito intorno alla sua nuca e il suo viso non aveva quel tremendo livor di cera dei morti: aveva un viso pallido e un poco verde nell'albore lunare ma le sue labbra erano tepide - usciva una nuvola di vapore tepido dalla sua bocca.
"Noi dobbiamo stare attenti per che cosa combattiamo, - diceva. - Noi combattiamo per la liberazione, per la libertà, per la giustizia, anche; ma dobbiamo stare attenti di non combattere per le parole, nemmeno per queste parole. Le parole inventano un altro mondo - sono anzi un altro mondo distinto da quello dei fatti. Noi dobbiamo combattere per questo mondo, quello dei fatti".
Diceva tutte queste cose una dietro l'altra, in un treno di monotonia, senza mai alzare o abbassare la voce né muovere d'un palmo la sua persona che pareva proprio una salma seduta. E in noi aumentava, a udire quelle cose, la nostra lontananza dal mondo - noi eravamo veramente soli in quel teatro di pietre e di luna, con noi non essendoci piú che i morti e la loro nuca spaccata.
C'erano con noi salme nostre - erano sotto la luna sul ghiaccio i visi ormai finiti di quattro compagni nostri: di Balestra e d'Antonio, di Sardegna e di Lumarzo che avevano finito lí anche il loro nome finto. Ma c'era anche la salma del grande feld-weber morto contro di loro, col dente d'acciaio che pareva d'oro perché velato di sangue. E c'eravamo noi che dovevamo fare la guardia, mentre Athos parlava, anche perché non strappassero dalla bocca annerita del feld-weber quel dente illuminato d'oro nel buio della bocca. Athos non lo capiva che le sue parole erano uno sciame di mosche su noi e sulle salme?
"Le nostre parole", diceva Athos...
Ma allora scattò Pinto alfine.
"Tu vuoi bruciare le parole e ci addormenti nella caligine dei tuoi discorsi, - disse. - Te li abbiamo elargiti tutti, i tuoi studi, ma come commissario avete eletto me (un portinaio, un uomo che lava le scale!), e ora io ti dico per tutti che tu la smetta: di fronte a questi morti cosa credi ci dicano le tue parole?"
S'era improvvisamente irritato, era divenuto d'un tratto pieno di troppa passione; se n'era accorto subito e per questo aveva mitigato il rimprovero:
"Ti prego di stare zitto, Athos. Ti prego soltanto di stare zitto. Le tue parole, devi capirlo, ora sono un noioso sciame di mosche".
Io ero chiuso in un grande silenzio e guardavo una volpe batter tranquilla la strada: una volpe quieta come la voce opaca di Athos. Forse sentiva l'odore dei morti e avrebbe voluto venire a lambirli? Io pensavo che noi, così vivi, col nostro sangue acceso, eravamo come un falò per quella volpe - era dunque per questo ch'essa, benché tranquilla in apparenza, non osava giungere a lambire le salme. Faceva forse finta, con tutta la sua astuzia, d'avere un altro itinerario, ma a me
pareva di sentire ai reni la spinta frenata ch'era in lei, nei suoi muscoli: la spinta verso il sangue già un poco fetido dei morti. Presi lo sten e puntai ma mi deviò la raffica Pinto. Rimase per un po' il fragore della raffica nel plenilunio, riverberata di monte in monte, e soltanto quando cessò l'ultima eco potei vedere che la volpe non c'era piú. Non feci una parola né con Pinto né con gli altri, in me rimanendo acuto il disappunto di non aver colpito la volpe: soprattutto era in me il disappunto di questo: che nemmeno quello schianto secco, crollato duramente nel vallone, avesse potuto troncare un discorso il quale come poteva interessarmi?
Pinto teneva ancora la mano sul mio sten ma guardava Athos.
"Devi capirlo, - (lo guardava profondamente), - devi proprio capirlo, - disse; - le tue parole ora sono come uno sciame noioso di mosche".
Athos invece pareva proprio che non lo capisse. E ora pareva che non lo capisse piú, d'un tratto, nemmeno Tredici.
"Io invece voglio che parli, - rimbeccò proprio in quel punto Tredici. - Io voglio che dica fino in fondo ciò che pensa. Anche stare zitti non serve a nulla e poi, Pinto, non ti pare di dargli ragione proprio condannando le sue parole?"
Pinto voleva appoggiarsi a me e mi guardava ma io ero troppo lontano ancora - non se n'accorgeva ch'io ero ancora con tutto il pensiero raccolto nel punto dove la volpe non c'era piú? Ma forse era pure un'illusione mia ch'io fossi con tutto il mio pensiero puntato lì: io potevo anche essere, guardando lí dov'era scomparsa la volpe, con tutto il mio pensiero puntato sui quadrettini neri di polvere da sparo che parevano pustole sul viso morto di Lumarzo; potevo anche essere, con tutto il mio pensiero, sul dente velato di sangue o d'oro nella bocca del feld-weber; potevo anche essere davvero con tutto il mio pensiero puntato su quella parola che aveva detto Athos in modo da apparirmi, senza capirne il perché, d'un senso diverso dall'usato. Potevo infine pensare anch'io che la libertà...
Invece pensavo a Conti. Mi parlava anche lui della libertà e una volta, prima ch'io fossi nelle file, era entrato in casa mia - era un uomo così innaturale con la camicia bianca e le pistole tra i mobili della mia camera dove filtrava il sole. M'aveva chiesto dei manifestini per la libertà e io glieli avevo scritti. Glieli avevo scritti a mano falsificando la mia grafia, perché allora una paura senza confine era in me nel sole. Erano manifestini pieni di quella parola da lui voluta e da me scritta con così enorme paura. E ora perché Athos, di fronte ai morti per tale parola, diceva quelle cose opache? Le diceva anche per il feld-weber? Io ora non pensavo piú alla volpe e nemmeno a Conti. Ora io pensavo, nel plenilunio gelido sulle salme, soltanto a quella parola. E Athos e Tredici perché m'irritavano allo stesso modo? Noi dovevamo fare la guardia, proprio dovevamo vigilare perché non rubassero (gli uomini nostri!) quel piccolo dente d'acciaio che velato di sangue pareva d'oro nella bocca buia del feld-weber. Io pensavo che già uno di noi aveva tentato di strapparlo: uno che combatteva come noi per la libertà; come Conti ora chissà dove, come Athos, come Pinto, come Tredici, come i morti che ora avevano finito anche il loro nome finto.
Ma pensavo anche a cosa aveva finito il feld-weber. Il feld-weber non aveva forse finito nulla - forse aveva cominciato ad esser pari a noi, dico alle nostre salme. Avrebbe invece finito tutto la volpe se l'avessi colpita - ero ben certo che sarebbe morta soltanto per sviare un discorso. E potevo perfino pensare che il feld-weber fosse morto per spengere quella parola dal nostro testo: anche lui morto insomma per la stessa parola, quasi come la volpe, sebbene non comprendessi cosa c'entrasse la volpe. Capivo che c'entrava, che entrava anche la volpe nel discorso infinito di Athos: ma non capivo piú in là. Allora Athos perché non parlava piú - perché non continuava ora a parlare? Anche Pinto ora voleva che continuasse a parlare.
"Allora se lo vuole Tredici cantaci fino in fondo la solfa, Athos, - aveva detto Pinto. - Ti starà a sentire Tredici e noi continueremo a guardare i morti. Noi staremo a sentire i morti, come dici tu".
C'era un silenzio immenso nel plenilunio vasto e gelido su noi e il fiume ora pieno di detriti di ghiaccio e di lastroni color bottiglia; e in noi, nel nostro petto, c'era un silenzio piú profondo di quello dei morti. Anche la bocca di Athos, semiaperta e tepida, era piena di buio e pareva senza piú una parola come quella dei morti. Athos s'era alzato e non poteva ora nemmeno rassomigliare a una salma. Aveva però il viso allontanato nei suoi pensieri e le dita piene di perplessità nel muoversi indolenzite dal gelo intorno a un fuscello. E come la strada era sotto il fianco tagliato del monte, di quando in quando aumentavano il silenzio i tonfi soffici di qualche zolla di neve che franava d'un tratto, mossa chissà da quale spinta. Dalla stessa spinta che non muoveva piú il cuore dei morti? E qualcuna di quelle zolle veniva a sfarsi fin quasi ai piedi nudi delle salme, lividi e quasi d'un verde brunito nel plenilunio. (Anche i piedi del feld-weber erano nudi, senonché avevano le unghie dure e gelide assai curate: le unghie degli altri invece erano orlate di nero e, qualcuna, spaccata e incupita nella fenditura dal sangue).
Athos perché continuava a tacere? Non teneva piú nemmeno la bocca semiaperta - anzi aveva ora un viso naturale.
"Nessuno ha rubato le scarpe al feld-weber, - dissi io d'un tratto. - Le scarpe le hanno rubate agli uomini nostri ma lui era scalzo, già prima: prima di morire dico. S'era levato le scarpe per correre meglio - è una storia che so soltanto io".
"È una storia che non c'interessa un corno, - ribatté piccato Pinto. - Io ho detto a Athos, - continuò con una voce quasi venata, - che se lo vuole Tredici ci canti fino in fondo la solfa. Ora perché stai zitto, Athos ?"
"Sì, Athos, - pregò anche Tredici, - dicci fino in fondo quello che pensi".
"Ho portato per un pezzo quel tedesco sulla canna della mia bicicletta, - continuai invece io. - E per questo..."
Ma perché Athos non muoveva la bocca ? Anche a me non importava nulla in quel punto della storia del feld-weber. Invece nessuno m'interrompeva e io avevo dovuto raccontarla fino in fondo. A chi? Ero certo che nessuno m'era stato a sentire, erano rimasti tutti muti ad aspettare che Athos aprisse la bocca; ed io volevo capire perché delle mie parole non avevano provato nemmeno un po' di fastidio, come l'avevano provato prima di quelle di Athos.
Io avevo già finito il mio racconto e Athos non parlava ancora. Era un silenzio che non potevo sopportare piú.
"Pensavo poco fa, - dissi, - che se avessi colpito la volpe anch'essa sarebbe morta per la medesima parola, la libertà. Vorrei sapere, Athos, perché pensavo una cosa così stralunata".
Volevo porgere un gancio ad Athos e dissi ancora:
"Ora tu sembri davvero una salma: hai il loro silenzio".
Athos s'era rimesso a sedere col bavero del pellicciotto tirato su e aveva fissato su me i suoi occhi d'un celeste debole, di ghiaccio nel plenilunio. Li sentii acuti d'un tratto nei miei occhi e poi li vidi allontanarsi di nuovo - distogliersi da me e puntarsi in un luogo vago mentre teneva le mani giunte tra le ginocchia, con le dita intrecciate e inquiete.
"Io volevo dirti proprio questo, - disse alfine. - Io volevo proprio dirvi che non bisogna morire nel buio d'una parola come la volpe o come il feld-weber. Certamente la volpe sarebbe morta a causa di quella parola per cui combattiamo: ma anche il feld-weber è morto certamente per quella parola. La volpe sarebbe morta a causa di quella parola senza tuttavia saperlo. Il feld-weber sarebbe invece morto sapendo di morire per quella parola. Mi sentite: io non dico egli è morto contro quella parola: dico proprio che è morto per quella parola, per la stessa parola che diciamo noi: la libertà. I suoi compagni diranno davvero cosí: egli è morto per la libertà. Una parola può avere qualunque significato e noi non dobbiamo combattere (volevo infine dire soltanto questo) per una parola. Noi dobbiamo sapere per che cosa combattiamo".
Era Pinto che soffriva di piú fra noi nella nuvola opaca di questo discorso, e in me nasceva una pena grande per Pinto - avrei voluto che Pinto capisse ciò che forse nemmeno io avevo chiaramente capito; ma infine io che bisogno avevo di capire o di non capire? Io avevo in quel momento un solo desiderio: che venisse il giorno, che la terra si illuminasse una buona volta di luce reale e che io uscissi con le salme da quella nebbia di parole e di luna gelida. Era Pinto che aveva bisogno di capire; e io sentivo anche che nel giorno quel bisogno non l'avrebbe piú avuto nemmeno Pinto. Pure Athos non avrebbe nemmeno parlato nella luce diurna. Soltanto nel plenilunio Athos poteva dire:
"Voi non dovete appoggiarvi a una parola. Voi dovete capirlo dai morti per che cosa combattete. Voi dovete stare a sentire i morti - ciò che un uomo esprime quando in lui non è piú nemmeno una parola".
Si vedeva proprio che Pinto soffriva.
"I morti dunque, Pinto, - interloquí Tredici con tutto il viso teso e una mano sulla guancia, - i morti non mettono nessuna agitazione in te? Non senti da essi nessuna spinta, nessuna certezza che prima, dico quand'erano con te nel mondo, non avevi cosí ferma? Volevi dir questo, Athos?"
"Potevo dire anche così, Tredici, - rispose Athos; - perché la stessa cosa si può dire in cento modi diversi. Io però vorrei che anche questo capisse Pinto: che ogniqualvolta una cosa è detta essa diventa un'altra cosa; e che noi non dobbiamo combattere per la libertà che è detta ogni giorno da tutti e che ogniqualvolta è detta è un'altra cosa: ma per quella libertà che è al di là del confine di tutte le parole dette. Ciò che resta nei morti dopo che essi hanno esalato fino all'ultima tutte le parole nostre. Tu forse m'intendi, Tredici, ma Pinto ch'è d'accordo con me perché è tanto duro a capirmi?"
"Io sono un uomo che lava le scale con la pomice, Athos, - disse appena Pinto. - I morti mettono in me soltanto una smania di vendicarmi. Forse la libertà, quella per cui noi dobbiamo combattere, è ciò che io..."
"La libertà, - aveva ricominciato Athos interrompendo-lo subito, - è proprio ciò che i morti..."
Ma ora che Athos parlava perché io non lo ascoltavo piú? Non lo ascoltava piú nemmeno Tredici - nemmeno Pinto lo ascoltava piú. Sulla fronte di Pinto nasceva una ruga profonda, quasi come un odio, e io mi domandavo soltanto perché, appena eravamo riusciti la prima volta a interrompere Athos, subito avevamo voluto riagganciare il discorso che, proprio noi, quasi premendo con tutta la forza della nostra spalla a quel desiderio, avevamo troncato. Il silenzio inquietava piú di quel discorso di Athos? Non poteva essere nemmeno questo il filo nella cruna d'una verità: perché anch'io avevo par-lato - io avevo fatto il racconto del feld-weber: ma le mie parole non le aveva sentite nessuno - era rimasto anche per me il silenzio compatto come i lastroni del fiume nel plenilunio.
Le parole di Athos invece davano fastidio, erano dunque qualcosa quelle parole se le sentivamo come un vento che ci portava lontano in una zona di disagio.
Il discorso di Athos era infinito: anche per il senso era infinito; il mio racconto invece aveva avuto un principio e una fine. Era per questo, era forse per questo che il mio racconto era passato senza diroccare il silenzio. Era passato su noi e sulle salme, nel plenilunio profondo, come la raffica del mio sten dopo gli echi riverberati di monte in monte nel plenilunio; mentre il discorso di Athos non passava piú, nemmeno quando Athos taceva. Era penetrato in noi, accanto alle salme, come il gelo: ed era diventato un dubbio in noi, nel nostro petto proprio accanto alle salme al cui posto potevamo essere noi. Forse proprio per questo il discorso di Athos non poteva passare mai.
Non lo voleva udire piú nemmeno Tredici, nemmeno Pinto.
Io avevo detto alfine:
"Non abbiamo nemmeno pensato a coprire il viso dei morti". E toltomi il fazzoletto rosso dal collo l'avevo posto sul viso d'incupita cera d'Antonio.
Allora come uscendo da una nuvola fece lo stesso Pinto: stese il suo fazzoletto rosso sul viso di Balestra. Sul viso di Lumarzo ce lo stese Tredici e anche Athos si tolse il fazzoletto rosso dal collo: lo stese sul viso di Sardegna. E come era rimasto scoperto soltanto il viso del feld-weber, col dente velato d'oro nel buio della bocca, un nuovo sentimento indicibile insorse in noi, nessuno peraltro volendo essere il primo a fare un gesto. Soltanto Pinto disse: "Boia, tu guarda la luna". Ma non era montato coi tacchi sul viso del tedesco com'erano montati, annerendolo, gli alpini sul viso di Sardegna. Anzi disse ancora: "Non è nemmeno giusto: ora non ci dev'esser nulla a distinguerti". E aveva coperto anche quel viso, con un qualunque straccio cavato chissà da dove. E noi potemmo alfine pensare ad altro - ad accendere un fuoco nel plenilunio, con Athos ritornato a noi mentre il suo discorso ora soltanto vagamente continuava in noi, però senza la primitiva paura.



(Tratto dall'antologia Racconti della Resistenza, a cura di Gabriele Pedullà, Einaudi editrice, Torino, 2005)


Giorgio Caproni





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