Cultura auto-sostenibile

Un'intervista a George Yúdice di Heloísa Buarque de Hollanda



George Yúdice


Nel suo ultimo libro, “L'incidenza della cultura: usi della cultura nell'era globale”, pubblicato recentemente dalla casa editrice Universidade Federal Minas Gerais, l'americano Gorge Yúdice cerca di spiegare un mondo in cui manager, produttori e organizzatori sono più importanti degli artisti. Yúdice si occupa della centralità delle industrie culturali di massa per l'economia globalizzata di oggi. A seguire, “Idéias” 1riporta parte della conversazione tra lui e la professoressa Heloísa Buarque de Hollanda dell'Università Federale di Rio de Janeiro. “Io posso essere artista ‘puro', ma quando espongo la mia arte in un museo, contribuisco alla crescita del PIL”, dice Yúdice. “Che si voglia o no, l'arte sarà sempre una risorsa economica”. L'intervista completa (in Portoghese) può essere letta nel portale letterario (http://portalliteral.terra.com.br).

Il suo nuovo libro, L'incidenza della cultura, mostra un George diverso da quello degli anni '80. C'è un netto cambiamento di ambientazione, di tema, di campo di studi. Cos'è che ha attirato la sua attenzione portandola ad interessarsi alle politiche pubbliche, alla discussione dello Stato Neoliberale, alle questioni della cultura come soggetto economico?

È stata la svolta stessa degli anni '90 nell'ambito della cultura. Era una cosa molto evidente. Mi sono reso conto che tutta la cultura necessita di un sistema di supporto economico. Lavoravo inoltre all'interno di una fondazione, ciò mi portò a prendere in considerazione queste realtà.

C'è stata qualche influenza di Nestor Canclini 2 in questa svolta?

Si. Ho conosciuto Canclini all'inizio degli anni '90, a un congresso nel 1993 in Messico. Lui mi ha aiutato in questa transizione. Mi ricordo di aver visto allora, in televisione, una campagna di preparazione per il Nafta (Trattato di libero commercio del nord America). In televisione c'erano pubblicità del tipo: “Messicani, entriamo nel primo mondo, non sporchiamo le strade, arriviamo al lavoro puntuali”. Questo tipo di “pubblicità progresso”. Era piuttosto strano. Ho cominciato a parlare di queste cose solo l'anno seguente. Sono entrato nella commissione della Fondazione Messico-Stati Uniti cominciando a indagare più a fondo sui sistemi di finanziamento. Negli Stati Uniti, la questione privata è molto più importante in termini di finanziamento rispetto all'area pubblica. È stato a partire da quel momento che ho proposto un progetto per la Fondazione Rockfeller sugli effetti del fenomeno della privatizzazione della cultura. È cominciato intorno alla metà degli anni '90. Nel 1998, io già scrivevo testi su questi fenomeni. La realizzazione del libro ha occupato molto più tempo, perché io dovevo esaminare i macro-cambiamenti del mondo, per capire i micro-cambiamenti delle fondazioni, dei finanziamenti e nella cultura. Le fondazioni volevano che questi finanziamenti avessero una ripercussione sociale.

Marketing sociale?

Si è questo, ma non solo questo. C'è anche una preoccupazione per la ripercussione del cambiamento riguardo alla realtà di questi gruppi sociali. Poi, loro stessi si sono resi conto che la sola cultura non ridurrà necessariamente la povertà. La cultura non ha questo potere. I progetti culturali che volevano aumentare l'autostima degli abitanti delle favelas in nome di risultati concreti, come la formazione professionale, al fine di ottenere impieghi e lavori, non hanno dimostrato l'efficacia immediata che ci si aspettava.

Come si forma un intellettuale pubblico oggi?

Negli ultimi cinque, sei anni, partecipando a consigli, assessorati e riunioni con le imprese, con il governo e con le ONG, mi sono reso conto che molte persone che pensavo fossero solo intellettuali dell'area di studi culturale ora sono sempre più coinvolte in questo tipo di lavoro.

Allora stiamo assistendo alla fine dell'intellettuale confinato nell'università?

Dipende. Nel contesto statunitense questo tipo di intellettuale continuerà ad esistere, perché questo fa parte del nostro progetto di università. Ma il suo impatto sociale è minimo; credo che nell'America latina e in Europa l'intervento dell'intellettuale nella società stia aumentando. Il Canclini ne è un esempio. Anche Ottavio Getino. Lui ha fatto il film L'ora delle campane, con Fernando Solanas, negli anni '60. Ora sta coordinando gli studi di cultura e economia. Negli Stati Uniti, gli unici intellettuali che hanno forza sono quelli di destra. Gli altri sono molto emarginati.

Quando ci saranno nuove possibilità di azione per l'intellettuale del 21° secolo?

Nel mio libro analizzo questo argomento. Dopo il crollo del muro di Berlino e dell'Unione Sovietica, negli Stati Uniti diventò difficile scoprire nuove forme di legittimazione per l'arte e la cultura. In questi ultimi anni è emersa un tipo di arte che rispondeva direttamente al sistema di finanziamento, che era un'arte con un proposito comunitario, sociale, civile e che sarebbe dovuta servire per i fini dell'economia e dello sviluppo. Era una politica di governi regionali e comunali, di ditte private, di fondazioni e finanziatori. La “grana” viene da lì, non dallo Stato. Un'arte rivolta al sociale e alle comunità. Il materiale erano le persone.

Sembra che lei ancora difenda una estetica meno strumentalizzata. È così?

Infatti sono stato sempre molto critico riguardo all'uso dell'arte per fini pratici. Ma credo che a questo punto sono io che devo ricredermi. Sento che sto già pensando diversamente. L'arte sarà utilizzata che si voglia o no. Oggi penso che la cultura sia una risorsa. E quando pensi che la cultura è una risorsa, l'unico gioco che esiste è quello dell'amministrazione, della gestione delle risorse. È come nell'ecologia. Io potrei anche continuare con la mia idea di arte come trascendenza, un'arte per fini non strumentali, ma nonostante ciò l'arte continuerà a essere usata. Posso essere anche artista “puro”, ma nel momento in cui espongo la mia arte in un museo, contribuisco all'incremento del PIL della città. Quando le persone pensano di creare un nuovo museo, lo giustificano col bisogno di arte, ma comunque questo museo finirà per contribuire all'economia della città. Quindi, anche non volendo, l'arte sarà sempre una risorsa.

Sarebbe meglio che lei definisse più concretamente questo concetto di “cultura come risorsa”.

La cultura ormai non è più arte. L'arte è solo la punta dell'iceberg della cultura. La vera cultura è la creatività umana. Questo è un discorso che viene dagli anni '90 ed è quasi egemonico. La questione è come dinamizzare questa creatività, renderla fattibile, per ottenere una serie di risultati: autostima, lavoro, fine del razzismo. E questo è molto vincolato al lavoro delle ONG e alla cooperazione internazionale. E la cultura è il luogo dove più si manifesta questa creatività. Allora, per la sua stessa natura, la cultura serve per far leva sulla creatività. Vogliamo creare quello che c'è già in Inghilterra, che è incentivare le industrie della creatività. Industria creativa oltre a quelle ben note: pubblicazioni di libri, televisione, cinema, musica. Include anche tutte le industrie che hanno bisogno della creatività, che possono essere disegno, pubblicità, software, artigianato etc.

E sulla questione dei diritti di autore, che per me è la più affascinante di questo momento, come la mettiamo? Fino a che punto il mercato sopporta nozioni come Creative Commons, pirateria creativa o copyleft?

Copyright è per vendere. Il diritto della copia. E questo produce molta ricchezza. Per questo, le grandi compagnie stanno sempre ampliando il diritto di copyright. Oggigiorno con la post-modernità, la tecnologia e la globalizzazione molto di quello che si considera creatività è, in realtà, sampler, è l'uso delle creazioni altrui. Qualcuno propone un sistema flessibile, che da una parte fornisca all'autore un accesso alla creazione altrui, è necessario però che il risultato di questa nuova opera sia di dominio pubblico, a disposizione di tutti. A questo punto gli interessi economici si scontrano.

Dal punto di vista concreto, una prospettiva di cambiamento come questa non avrà anche conseguenze nella produzione stessa dell'autore?

Credo che sia sempre più evidente l'organizzazione dei creatori verso livelli superiori di gestione. Per esempio, il produttore che lavora con artisti e allo stesso tempo gestisce e quasi crea insieme a loro il loro prodotto. Nell'arte, la figura più importante non è l'artista, è l'organizzatore e il direttore del museo, della biennale. Queste sono le persone importanti, perché l'artista è una risorsa utile per gli organizzatori.

E lei come considera tutto questo? 

Io ancora non so se è un passo avanti o indietro, so solamente che le cose stanno cambiando. E per questo è meglio fare come in ecologia, con la questione della sostenibilità. Perciò, dobbiamo formare gestori che ci aiutino a trovare punti di equilibrio tra i diversi componimenti di questo tipo di creazione nell'arte, letteratura, cinema, danza, rituali indigeni. Tutto questo richiede un coordinamento affinché si realizzi una sostentabilità, in modo che queste persone non diventino surrogati di se stessi.


Note

1 Supplemento culturale del “Jornal do Brasil” di Rio de Janeiro.

2 Importante teorico della comunicazione di origine messicana, autore di culture ibride: Strategie per entrare ed uscire dalla modernità e Le culture popolari nel capitalismo.



(Traduzione di Julio Monteiro Martins insieme ai suoi studenti dell'Università di Pisa: Gaia Bertoneri, Simona Bruno, Nunzia De Palma, Alessandro Giometti, Laura Locatori, Elena Molossi, Maria Teresa Maré, Laura Marletti, Silvia Mencarelli, Eva Jori Ori, Gianluca Piana, Sonia Scappini, Maria Serena Serra, Claudia Sgadò).


George Yúdice è professore di Spagnolo e di Portoghese alla New York University, e direttore del Centro di Studi Latinoamericani e del Caraibi. È l'autore di The Expediency of Culture: The Uses of Culture in the Global Era e di We Are Not the World: Identity and Representation in an Age of Global Restructuring tra altri importanti saggi sul panorama della cultura oggi.



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