Un coniglio storpio

- Brano tratto dal romanzo autobiografico Questo buio feroce (Storia della mia morte) -

Harold Brodkey

(...) L'Aids non è mai stato uno dei nostri seri timori. Non era una delle mie segrete paure. Sono così scosso da quello che è successo che ho la tendenza a ricordare in modo folle o come una persona sotto tortura. Ho perso gran parte della disciplina del ricordo, eppure mi rammento di quello che fin d'allora avrebbe dovuto sembrare significativo. A Berlino, e poi a Venezia, dove Ellen e io ci trovavamo per incontrare editori e traduttori, qualcuno - anzi, tutti - dissero che ero troppo magro. Ellen incominciò a preoccuparsi quando sulla mia guancia destra apparve una macchia nerastra e incavata, ma io la attribuii alla dieta macrobiotica che stavo cercando di seguire. La poesia di essere riconosciuto e accettato come scrittore importante, prima a Berlino e poi a Venezia, mentre mi stavo ammalando in un modo che non riuscivo a capire, ha per me la fosca bellezza del naufragio totale. Inoltre, quando Barry mi comunicò la notizia, credo che in una parte della mia mente avesse già preso forma l'idea letteraria della morte o del suicidio come giusto esito.
Avevo scritto un romanzo nel giro di un anno, un romanzo che mi piaceva, di cui andavo fiero e mi ero aspettato che lo sforzo mi uccidesse. Ero soggetto a strane forme di sfinimento e mi girava la testa sull'aereo, ma a parte questo ero stressato al di là delle mie forze dalla differenza di trattamento e di stima che mi era stata riservata nei vari paesi - grande artista qui, imbecille là, importante scrittore, infimo impostore, furfante, virtuoso, stronzo, eroe.
La vita è una specie di orrore. È OK, ma è stancante. Nemici e ladri non demordono mentre ti indebolisci. I malvagi prosperano insistendo nella loro crudeltà proprio allora. Se sei malato, devi avere un buon avvocato. Quando ti viene consegnata una condanna a morte, è accluso anche il piano di battaglia ridisegnato. A seconda delle tue condizioni, in alcuni casi devi indietreggiare e metterti sulla difensiva. Sei debole. La morte sembra preferibile a una ritirata quotidiana.
Senza dubbio, la gente che mi sorride gentilmente per strada mentre cammino a fatica o le assistenti di radiologia che mi chiamano tesoro o amore si rendono conto di questa infermità. Una donna di mia conoscenza che morì qualche anno fa, la definiva l'inevitabile pietà per la debolezza. Lei la odiava. Non voglio parlare della mia morte con tutti, o non fare altro che parlarne. Chissà se il mio atteggiamento, alla fine, è solo vanità - e ancora vanità? In un certo senso, ogni mio giorno è un giorno rubato, ma lo rubo senza alcuno sforzo. E lì, semplicemente, con la pioggia o con il sole, di sera o di mattina. Per lo meno sto ancora vivendo una specie di vita, e non voglio essere ridotto a un'immagine ormai, o pensare tra me che sto passando tutto il mio tempo a morire invece di vivere, con un minimo di soddisfazione, quel poco che mi resta. Se ti abitui a guardare a queste cose da scrittore - questa vulnerabilità, quando l'equilibrio viene meno e le difese sono distrutte al punto che si è facili prede dei virus e della loro frenetica esaltazione - allora affrontarle diventa quasi normale. Avrai a disposizione il materiale autentico, e nascerà da questo ricordo ottuso, e per te nuovo, dell'essere sballottato dalla violenza medica e naturale fin sull'orlo estremo della vita.

La gente adora parlare di quel che è veramente successo... A New York, tra la gente del mio tipo, vige il presupposto che si possa sapere tutto delle reciproche esistenze. Si prende qualche indizio, lo si considera con una certa raffinatezza, e si sa tutto. In fondo, questa è una città che non ammette misteri, una città decisa a depredare, ad arraffare o a rivelare. Trovo le chiacchiere newyorkesi orrende, le conclusioni personali stupide, e tanto l'idealizzazione, quanto la demonizzazione dell'esperienza altrui, odiosa e spregevole. E l'ipocrisia di fondo, i giudizi sparati come se tutto fosse noto, le bugie, l'inganno, l'infinito banditismo orale che vige qui tra ebrei e gentili del pari, la fredda ambizione, è, lo ripeto, invivibile.
Quello che non manca veramente in questa città è gente capace, gente competente, che man mano che si fa strada nel mondo si ritrova ad avere una vita professionale sempre più complicata. Come è logico, questo li consuma, e il mostruoso residuo che sopravvive è incapace di emozione, ma la desidera, con uno struggimento e un'inadeguatezza terribili e terrorizzati. Questo residuo mostruoso è incapace di amicizia, incapace di qualsiasi cosa. (Quello di cui è capace è un meraviglioso, quand'anche orchesco, cameratismo.)
Mi hanno fatto la predica a questo proposito, mi è stato detto che mi sbaglio quando dico che razza di feccia siano tutti loro, tutti noi, a che vile follia si sia ridotta la nostra maturità. Quanto ho sopra affermato mi è stato contestato da quasi tutti a New York. Ma non possono non sapere che è vero.
Non ho più reticenze ormai.
Senza nessuna isteria posso descrivere i trastulli anali che probabilmente hanno portato alla trasmissione di questo virus e alla mia morte: sì, sono andato a letto con uomini, uomini senza nome, senza fama, che non potevano chiedermi niente né darmi la colpa di niente né aspettarsi da me la rivelazione. Potrei fornire un elenco degli uomini che ho avuto (e delle donne, quanto a questo). Ma la verità è che in questo paese il sesso non viene ancora considerato una delle tante componenti della vita.
L'arte del ventesimo secolo non ha descritto la realtà del sesso e dell'amore come si manifesta nella vita, nel corso reale dei giorni, nel corso reale del tempo, ha invece sviluppato la tendenza a reinventarla sotto forma di felicità socialista, o di paradiso prima che l'incubo colpisca, o a decretarla inesistente (Joyce e Beckett, gli irlandesi sessuali eppure asessuati), o come ossessione e vittimizzazione (Freud e Proust), o come un idillio di passione e altre sciocchezze. Per me, l'artista più abile nel ritrarre l'aspetto asessuato dell'arte eccelsa fu Balanchine, perché riuscì a cogliere e idealizzare con estrema fisicità la rabbia, lo struggimento e il tentativo di sfuggire alla solitudine. E poi c'è Eliot; non bisogna dimenticare che Lawrence fu allontanato dall'Inghilterra mentre l'arido, asessuato Eliot divenne un idolo. E forse giustamente. Il sesso, dopotutto, è malaccorto: guardate me. La natura sventata dell'amore sessuale l'abbiamo sempre sotto gli occhi. Dovere civico, ambizione, libertà personale persino, vi si oppongono. Si finisce con l'apprezzare l'incitamento a risanare e reprimere, e poi l'apparato punitivo e la negazione dell'autenticità sessuale. (Pensate a come cantava Jon Vickers, per esempio. Lui imbarazzava il pubblico americano come Sinatra non aveva mai fatto. Metteva la gente a disagio come faceva Billie Holiday - la gente a volte definiva il suo impatto sinistro.)
Ma quel che succede in una città competitiva, tra persone che in realtà sono intelligenti imitatori, dilettanti (più o meno primati diligenti), è che la penuria di questa autenticità porta alla creazione costante di quel che si potrebbe definire un sesso fasullo, nevrotico e snervato. Il sesso fasullo costituisce un'ampia parte della personalità di New York. Qui la gente si ribella tramite un'invidiosa promiscuità, un'irrequieta invidia della possibile felicità altrui. Così non ci resta che vivere con l'istituzionalizzazione del terrore sessuale e dell'invidia sessuale.
Quanto a me, dirò stizzosamente di non essere mai stato accettato da nessuno come gay, incluso un uomo che ha vissuto con me pretendendo di essere il mio compagno. In effetti ero convinto che per me non fossero possibili rapporti decenti con le donne allora; le donne erano imbevute di aspettative su se stesse, infarcite delle loro idee di femminilità, della loro colpa. E io non riuscivo a individuare un ruolo maschile che fosse per me accettabile. Verso la fine della mia esperienza omosessuale, prima di conoscere Ellen, subii il più vergognoso confinamento a un ruolo di pura mascolinità, da dominatore, odiato e idolatrato.
Non sono mai stato bello. Ma fino a cinquant'anni, in privato non mi mettevo quasi mai niente addosso. La mia nudità aveva ogni tipo di significato, incluso quello di un corpo discreto per un uomo vanitoso che mancava del denaro per comprarsi dei bei vestiti. E un corpo per far da contrappeso alla testa perduta. Smisi di interessarmi al mio corpo cinque anni fa quando pubblicai Storie in un modo quasi classico - successe così, di punto in bianco. Adesso ho con la mia carne il legame più strano che si possa immaginare; il mio corpo per me è come un coniglio storpio che non voglio adottare, che dimentico di nutrire, che non ho tempo di conoscere e con cui non ho voglia di giocare, un inutile coniglio tenuto in gabbia, che sarebbe crudele liberare. La povera bestia non ha una preghiera per la sopravvivenza. Né alcuna speranza di una morte facile. È soltanto una preda già mezzo mangiata. Come un serpente o un coniglio catturati in un disegno di Audubon.
Comunque conosco gente, storpia e no, che si è sentita così per tutta la vita, quindi non è che mi stia lamentando, anzi trovo quasi divertente l'idea che potrei lamentarmi, sarebbe una bella ironia. Sto solo cercando di dire che ho delle remore nei confronti della nudità stampata - dell'incarnazione in bianco e nero.
Non costantemente, ma nemmeno incostantemente, al di sotto del sentimentalismo e dell'ostinazione dei miei atteggiamenti, ci sono, come c'è da aspettarsi, una rabbia intensa e un terrore davvero sconfinato, ancorati al disprezzo per voi, per la vita e per tutto quanto. Io credo che anche il mondo stia morendo, non solo io. E la fantasia non salverà nessuno. L'irrealtà mortifera dell'utopia, la mercificazione dell'utopia è perversa, veramente letale;. (...)




(Brano tratto dal romanzo autobiografico Questo buio feroce (Storia della mia morte), Rizzoli, Milano, 1999. Traduzione di Delfina Vezzoli.)




Harold Brodkey (1930-1996) è un'importante scrittore statunitense contemporaneo. Ha scelto di pubblicare pochissimo: volumi di racconti (Primo amore e altri affanni e Storie in modo quasi classico) e due romanzi, The Runaway Soul, monumentale opera autobiografica uscita nel 1991, e Amicizie profane (1994). Brodkey è stato per decenni una delle colonne del "New Yorker".



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