L'anno più bello della mia vita


Paul Theroux


Quando ricevetti la terribile notizia tutta la famiglia era riunita attorno al tavolo di cucina, accanto al telefono appeso alla parete. Mi guardavano, e intanto continuavano a masticare e a borbottare. Mancavano pochi giorni a Natale, e la casa era al completo, tutti e sei i miei fratelli e le mie sorelle, l'intero cast radunato sulla scena per quella che non definirei una tragedia - visto che la tragedia non colpisce quasi mai i giovani - quanto piuttosto una farsa crudele. Avevo da poco compiuto diciannove anni.
Così, a ulteriore prova di quanto possa essere sadico il destino, l'anno più bello della mia vita cominciava nel peggiore dei modi, e questo non faceva altro che rafforzare la mia convinzione che da qualche parte qualcuno si stava beando del mio dolore - uno spietato cospiratore, uno dei più perfidi alleati di Mamma, magari, se non Mamma in persona.
"È per te," disse Mamma passandomi la cornetta.
Tutta la mia vita stava per cambiare: sarei caduto in un buco e avrei vissuto un anno al buio. Tipico, pensai, visto che, per come vivevo allora - nello sconcerto, pronto a reagire con biasimo di fronte alla futilità, infastidito da tutto quel tempo sprecato che attorno a me vedevo srotolarsi e ondeggiare al vento - la vita mi sembrava disordinata e priva di trama: un'entità ostile, governata dal caso, che sfuggiva al mio controllo e il cui percorso, in un vago alternarsi di disordine e caos, portava dritti all'oblio. Guardandomi indietro adesso, dalla posizione vantaggiosa che si gode quando da un pezzo si è superata la mezza età - da queste cime rassicuranti che, con la loro aria pura, rappresentano una delle più grandi consolazioni dell'invecchiare - la vita di allora mi appare in realtà ben costruita e coerente, con la struttura elaborata e la sottile rete di motivi tipiche di un romanzo vittoriano, intessuta di abbellimenti, trame secondarie e coincidenze tali da sembrare quasi incredibili, eppure inevitabili. Quella mia vita - ma non è forse così per la vita di tutti? - era frutto di un disegno fin troppo perfetto: non c'era niente di casuale, niente che andasse sprecato. Il buco in cui ero caduto era una porta magica che mi avrebbe trasportato nel futuro.
Ma all'epoca, come ho detto, tutto aveva l'aspetto di un'inutile monocromia, fatta di rimpianto e vergogna, di direzioni sbagliate e sforzi vani. Qualunque cosa mi accadesse, mia madre, con quella sua voce acuta, gridava sempre: La colpa è solo tua, maledettamente tua! Quell'accusa mi sarebbe risuonata nelle orecchie per molto tempo ancora. A distanza di anni e anni dalla disgrazia che mi capitò allora, di fronte ai guai che via via incontravo, potevo dire, "Ho visto di peggio" - e pensarlo veramente. Molto peggio che ritrovarsi a trent'anni a Singapore in cerca di una casa in cui andare a vivere, dopo aver lavorato come insegnante ed essere stato da poco licenziato, senza più un soldo e con una moglie e due figli piccoli da mantenere; peggio che ritrovarsi nei guai fino al collo in India, lontano da casa, o che sentirsi perso in Cina, o vedersi sepolto vivo e al verde a Londra; peggio che farsi mettere le corna; peggio che sentirsi dire "Ti lascio perché ho trovato un altro" attraverso una cornetta che gracchia e puzza di sigaretta, in una cabina telefonica dall'odore di piscia e dall'aria soffocante; peggio di quella che più che una sentenza di divorzio mi sembrò una condanna a morte, tanto fu penosa, o peggio che perdere quella stessa casa che, all'inizio di questo paragrafo, avevo fatto tanta fatica a trovare; ancora peggio che perdere mio padre, perché morire da vecchi è una cosa naturale, anche se lo si fa un po' prima del tempo perché si è vissuti con una moglie assillante e in una famiglia dove non si faceva altro che litigare - peggio di qualunque altra cosa che mi sarebbe mai potuta capitare. Fu soltanto la stupidità di un ragazzo a causare quella disgrazia, proprio come avrebbe continuato a ripetermi Mamma in eterno: la colpa era solo mia, maledettamente, mia.
Quell'anno passavo la maggior parte del tempo ad Amherst, all'università, ma facevo ancora parte della famiglia e per le vacanze tornavo a casa a Medford. Lavoravo per pagarmi rette, vitto, alloggio e spostamenti.
"È per te," ripeté Mamma, arrabbiata questa volta, perché, troppo assorto nei miei pensieri, non le avevo tolto di mano la cornetta.
Anche se qualcun altro era più vicino al telefono di lei, era Mamma, la nostra guardiana, a rispondere. Doveva essere lei a smistare le chiamate, ed era lei a insistere perché il filo fosse corto, in modo che rimanessimo bene in vista e si sentisse quello che dicevamo.
"Una ragazza," spiegò Mamma al resto della tavola.
Papà prese la palla al balzo. Mangiò il pezzo di carne che aveva sulla forchetta e disse: "Qualche bionda da far girare la testa."
"Jay?"
La voce di Mona era piatta, smorta, e il peso insinuante delle sue parole, pronunciate con la forza della disperazione, mi costringeva ad ascoltare.
"Oh, ciao," risposi con entusiasmo, per mettere fuori strada i miei, visto che erano rimasti tutti e otto con le posate in mano e non stavano più neanche masticando, per sentire meglio.
"Non mi vengono le mestruazioni. Ormai sono già tre settimane. Non so cosa fare. Sono disperata" - la voce cominciò a vacillarle e a strozzarlesi in gola - "e a te non importa niente!"
"Sì, invece," risposi a voce alta, ma senza essere sincero, "Certo che sì", e intanto vedevo Mamma che mi scrutava. Mi sforzai di rimanere allegro, per quelli seduti al tavolo. "Ci vediamo tra qualche giorno."
"No! Domani! Dev'essere per forza domani. È una cosa seria, questa." Mona si mise a piangere, e i rumori che faceva col naso, la sua voce gracchiante, mi davano noia all'orecchio, rimbalzavano contro la fragile scatola cranica che conteneva il mio cervello.
Mentre riattaccavo, interrompendo così le urla di protesta di Mona, mi preparai un sorriso per il tavolo e mi girai verso le loro facce silenziose. Persino Gilbert, che aveva quattro anni, aveva smesso di fare confusione. Avevo lo sguardo vitreo. Alzai le spalle, come se niente fosse.
"Chi era?" chiese Mamma.
"Nessuno che conosci," dissi. "Nessuno di speciale."
"Ma certo. Ci credo sicuramente. Come no!", disse Floyd.
"Jay ha una ragazza", disse Hubby lentamente, con la voce soffocata che hanno i bambini quando parlano con la bocca piena. "E io lo so perché".
Franny, che era grassa e faceva spesso domande al posto di Mamma, disse: "E perché?"
"Perché così le può guardare le mutandine".
"Che sfacciato, smettila," disse Rose.
Mamma rivolse a Papà un sorriso cupo. "Non gliela lascerai mica passare liscia a quest'insolente?"
Papà sbatté la forchetta sul tavolo e vibrò il colpo. Fred e Floyd si spostarono all'indietro per evitarlo e Papà colpì la testa di Hubby con tutto il palmo della mano, buttandolo giù di lato dalla sedia. Nel momento stesso in cui assestava il colpo, mosso dalla compassione, Papà cercò di afferrare Hubby per il braccio, per arrestare la sua caduta, ma, avventato e maldestro com'era, finì per farlo sbattere contro il termosifone, tanto che Hubby si bruciò un braccio e urlò di dolore.
"I figli sono la rovina del matrimonio,"disse Papà per compiacere Mamma.
"Mangia," mi disse Mamma vedendomi fissare a occhi spalancati il braccio arrossato di Hubby. "Ti si fredda la cena."
Con un tono da predica Fred, il più grande, disse: "Io lo dico sempre a tutti di non chiamarmi all'ora dei pasti".
"È così che dovrebbe essere," disse Mamma.
Avevo l'impressione che sospettassero qualcosa, che la vergogna e il panico mi si leggessero in faccia. In realtà, era tutto talmente spaventoso che nemmeno la mia famiglia avrebbe potuto immaginare di cosa si trattasse.
Nessuno di speciale, avevo detto; e in effetti Mona era diventata proprio quello per me. Fino a quando non avevo sentito la sua voce al telefono, era come se fosse svanita dalla mia mente. Circa un mese prima l'avevo vista per quella che pensavo sarebbe stata l'ultima volta. Aveva in affitto una stanza in una grande casa di legno vicino al centro, di fronte a dove abitava Emily Dickinson. La nostra relazione era agli sgoccioli, ero andato da lei per dirle addio. Avevamo fatto l'amore, la nostra triste cerimonia d'addio. Ci sapevo fare così poco come amante che nemmeno mi preoccupavo che potesse accadere il peggio. Per me la gravidanza era il frutto della passione e dell'esperienza; e io andavo per tentativi ed ero troppo insicuro per ottenere un risultato del genere, capace a malapena di penetrare il corpo di Mona mentre lei, frustrata, si dimenava, come se quel mio strofinarmi contro di lei solo lontanamente si avvicinasse all'atto sessuale.
La prima volta che avevo notato Mona era stato a primavera, quando l'avevo vista attraversare la mensa vestita come una sguattera, con la divisa marrone, il cappello e il grembiule. Poi la rividi dietro il bancone che con la destra serviva il puré e con la sinistra versava la salsa. Alla mensa andava a mangiare chi, come me, viveva alla casa dello studente. Mi piacevano i suoi sguardi schietti, attenti, severi, il ricciolo biondo che le usciva da sotto il cappello, il naso stretto e ben delineato, l'espressione scettica delle labbra, le sue spalle magre e le dita sottili. Era bella. Pensavo che fosse la tipica ragazza di città, indifferente. Una persona del genere poteva sembrarmi distaccata e irraggiungibile, persino una lavapiatti mi avrebbe dato l'impressione di avere un'aria altezzosa. Non avevo idea che Mona, di due anni più grande di me, fosse in realtà una studentessa modello e frequentasse il terzo anno di università. Per un mese e più, alla mensa, continuai a osservarla, e non la vidi sorridere mai. Trovavo eccitante quella sua aria corrucciata.
Poi, una sera, la incontrai in un bar - stava bevendo qualcosa in compagnia di amici - e trovai il coraggio di andare a parlarle. I suoi amici se ne andarono. Bere ci faceva sentire alla pari. "Ti credi molto intelligente," mi disse quando, esprimendo un'opinione, citai Les Fleurs du Mal; all'epoca Baudelaire era il mio eroe. Però apprezzò il fatto che il fine settimana lavorassi all'allevamento di polli dell'università, dove raschiavo e lavavo le gabbie. "Tutti gli altri vanno a vedere le partite di calcio," disse, condividendo con me il proprio disprezzo. Si vedeva che, malgrado la sua intransigenza, era dalla mia parte, una studentessa lavoratrice, che si dava da fare per mantenersi e che magari aveva anche una madre come la mia che la opprimeva.
Dopo circa una settimana mi fece entrare di nascosto nella sua stanza. Ci sdraiammo sul letto , a guardare la casa di Emily Dickinson, e io recitai "Wild Nights - Wild Nights!" Facemmo l'amore. Per me era la prima volta, e lei se ne accorse. Aveva bevuto, e quando scoprì quanti anni avevo mi rimproverò aspramente per averla ingannata. Eppure ci incontrammo nella sua stanza qualche altra volta ancora prima di decidere di non vederci più. Era stato prima del Ringraziamento. Adesso era quasi Natale, ed era per questo che la telefonata ("Non mi vengono le mestruazioni") era stata così inaspettata.
La famiglia di Mona viveva in un altro sobborgo di Boston, un lungo giro lento in autobus su strade fatte di ghiaccio sporco e di neve ricoperta di fuliggine. Appena arrivato, mi disse: "Non l'ho detto a nessuno. Non posso dirlo ai miei genitori - mi ucciderebbero. Tu sei l'unico a saperlo. Devi aiutarmi."
Queste piccole frasi disperate divennero per me uno sgradito ritornello. Ogni volta che chiamava - e lo faceva quasi ogni giorno ("Ancora lei", cantilenava Mamma) - speravo che mi dicesse "Finalmente!" Ma non lo disse mai. Le sue frequenti lettere ("Ce n'è un'altra per te," diceva Mamma. "È lei?") erano lunghe e deprimenti, e in esse accusava me e tormentava se stessa. Ma come ho fatto a lasciarmi confondere da un pivello come te? Da un punto di vista tecnico ero ancora un adolescente. Con il suo cinismo di uomo di mondo Baudelaire si prendeva gioco di me. Le lettere di Mona, le bruciavo.
Passarono settimane. Eravamo in gennaio, e Mona era di due mesi. Eppure ogni lettera, ogni telefonata riaccendeva le mie speranze, e subito le soffocava. Ero tornato alla casa dello studente. La mattina mi svegliavo intontito, e certe volte felice, convinto in un primo momento che la difficile situazione in cui mi trovavo non fosse stata altro che un brutto sogno; pregavo perché ci fossero buone notizie, ma non cambiava niente. E per Mona era ancora peggio. Ero il suo unico confidente, la sola persona con cui poter condividere il peso di quelle pene.
Mio fratello Fred studiava legge a New York City. A New York il mondo era più grande, mi dicevo; alle gravidanze la gente lì sapeva trovarla, la soluzione. Andai da lui in febbraio, dormivo a casa sua e passavo il tempo a visitare ambulatori medici - entravo e uscivo subito. Ha un appuntamento? Non avevo idea di come funzionassero quelle cose. Sapevo che l'aborto era illegale. Non vidi mai neanche un dottore, e forse fu un bene; come avrei fatto a fargli la domanda cruciale?
"Oh, Dio!", disse Fred quando alla fine confessai. "Oh, Gesù". Si reggeva la testa con la mano. I capelli ondulati, pieni di brillantina, avevano un aspetto frivolo rispetto alle dita, divenute così bianche. "Lo devi dire a mamma e papà", disse.
"No", risposi. Vedere Fred che annaspava in preda al panico mi spaventò. "Non sapranno come fare ad aiutarci. Non sapranno cosa fare. Diventeranno delle furie." Riuscivo già a sentirli. Conoscevo perfettamente il tono accusatorio che avrebbero avuto le loro parole.
Incapace di agire e profondamente turbato, Fred, sentendosi complice perché al corrente di tutto, mi chiese di lasciare New York. Mi sentivo ferito, ma non ero sorpreso. Era un mio problema. E poi non mi faceva bene restarmene a New York, in mezzo a tutta quella gente ricca che invidiavo e odiavo, perché capace di risolvere quel genere di problemi con una semplice strizzatina d'occhio e una busta piena di soldi.
In un giorno di marzo, mi trasferii nella piccola stanza di Mona lontano dal campus. Era più gentile di prima con me. Mi disse: "Voglio che tu sappia questo. Se mi resterai vicino fino in fondo non ti chiederò mai più niente. Capito? Io non voglio sposarti. Voglio solo avere il bambino"
"E poi?"
"Poi lo darò via," disse, sbattendo le palpebre per respingere le lacrime. "Lo darò in adozione. Esistono delle agenzie."
Non ne rimasi scioccato. Era un atto semplice e disperato, una specie di crimine. Il problema più grosso era come riuscire a farla franca.
Mona si pigiò le nocche sugli occhi e assunse un'espressione dura. "Se i miei lo scoprono mi uccidono."
Mona smise di andare a lezione. Trovò lavoro in una serra nella campagna al di là del campus. Coltivavano rose. Così nessuno l'avrebbe vista. Io studiavo, sbrigavo il mio lavoro, imparavo a odiare Baudelaire e passavo il giorno a preoccuparmi. Per quanto continuassi a frequentare le lezioni, consegnassi le relazioni e leggessi i libri richiesti, lo facevo con distacco, quasi astraendomi dal mio stesso corpo, come se quello non fossi io ma un altro - un tipo più giovane e meno complicato di quello che ogni mattina si svegliava sgomento e confortava Mona. Quando scrivevo a casa, e ripetevo le solite frasi banali sul tempo e sui miei studi, ero un'altra persona ancora, ero prudente, ma in quanto membro della famiglia mi comportavo come dovevo.
E così facevano tre persone diverse. Ma io ero un altro uomo ancora: il raccoglitore di asparagi. Avevo trovato lavoro in una squadra di addetti alla raccolta degli asparagi. Era stato uno studente squattrinato come me a dirmi che c'era questa possibilità e l'agricoltore, che aveva bisogno di uomini, era stato contento di vedermi. Il raccolto era maturato in anticipo, e vedere gli asparagi mi fece una strana impressione. Tante lance lunghe venti centimetri che sbucavano a gruppi dai grandi campi spogli - senza foglie, nudi, solo dei sottili germogli appuntiti. Me ne stavo accovacciato con accanto altre sei paia di braccia da lavoro, e affondavo il coltello nella terra per tagliare le lance a qualche centimetro dalla superficie. Tutti gli altri uomini, per la maggior parte giovani, erano di lingua spagnola. Tagliavano gli asparagi e parlottavano tra loro, ridevano a volte, mentre riempivano le cassette e, facendole prima dondolare, le posavano sul pianale del rimorchio. Con me non parlavano se non quando salivamo sul retro del camion, diretti verso un altro campo.
Poi mi dissero che erano di Porto Rico e che per otto mesi all'anno vivevano da emigrati, spostandosi lentamente verso nord a partire dalla Florida e dalla Georgia, raccogliendo qualunque cosa fosse abbastanza matura per essere raccolta - arance, pesche, mirtilli, mais, pomodori. Quando scoprirono che parlavo un po' di spagnolo si mostrarono molto gentili con me, diventammo addirittura amici. La Porto Rico piena di sole che descrivevano sembrava lontana ed esotica. Là tagliavano la canna da zucchero e raccoglievano gli ananas. Ad alcuni mancava la moglie, ad altri la fidanzata. Sarebbero tornati a casa verso settembre, oppure ottobre, con i soldi che avevano guadagnato.
"Isla bonita", dicevo.
"Isla barata", rispondeva qualcuno. Allora si intromettevano anche gli altri, facendomi degli esempi perché capissi quanto costasse poco la vita a Porto Rico.
Raccolsi asparagi ogni mattina per tre settimane finché, a metà maggio, Mona, già grossa e inequivocabilmente incinta, mi disse: "I miei genitori vogliono sapere quando torno a casa. Vedrai che vengono a trovarmi. Dobbiamo andarcene di qui."
Andammo in autobus fino a New York, e una volta arrivati telefonai a Fred. Non avevo osato chiamarlo prima: avevo paura che, lasciandogli il tempo di ragionare, si sarebbe inventato una scusa per voltarci le spalle. Non sapevamo dove altro andare. Ma mi bastò stare da lui solo due giorni per capire che Fred non ci voleva. Non voleva sapere troppo. Anche questa volta era agitato, e vederlo spaventato mi faceva preoccupare.
"Senti, vi serve un piano," mi disse.
Nella vetrina di un negozio vidi un cartello con scritto "San Juan $49". Mi parve semplice. I soldi ce l'avevo. Mi vennero in mente tutte quelle voci che gridavano "Màs barata". Andammo in aereo fino a Porto Rico e per le primissime notti dormimmo in uno degli alberghi meno cari. Poi prendemmo una stanza con balcone in una palazzina del centro storico di San Juan. Era stata una decisione affrettata, è vero, ma sembrava funzionare. Su quell'isola ci sentivamo al sicuro; era come se ce lo fossimo sognato.
Era la prima volta che provavo la sensazione di come viaggiare potesse farti diventare una persona diversa. Lontani da Fred e dalle nostre famiglie ci sentivamo più grandi, indipendenti, vivevamo inosservati. Partendo ci eravamo risparmiati la noia di vederci invadere il mondo. Quando la gente comincia a farti domande cui non puoi rispondere, pensai, devi cercare gente nuova. Così lontani ci sentivamo quasi felici, con accanto persone che sembravano stare peggio di noi, in un posto disordinato che si adattava perfettamente al mio stato d'animo. Avevamo soldi abbastanza per un mese. Nel frattempo mi sarei trovato un lavoro.
"Sto lavorando su un mercantile," scrissi in una lettera a casa. "Siamo appena attraccati a San Juan. Sarò a casa verso agosto, o settembre."
E così adesso ero un'altra persona ancora: il mozzo. Mamma accettò quella spiegazione, anche se poco convincente. Era contenta perché non le stavo chiedendo niente, o forse era troppo presa - con tutti quei figli. Di me non è che le importasse granché. Probabilmente anche solo sentirsi dire che riuscivo a badare a me stesso l'aveva rassicurata.
Il Caribe Hilton di Puerta Tierra cercava personale. Mi presentai per il posto di bagnino, ma quando il responsabile del personale mi sentì parlare inglese mi consigliò di fare domanda al ristorante, piuttosto. La maggior parte dei turisti che lo frequentavano parlava inglese. Fui assunto.
Lavoravo la sera, dalle sei a mezzanotte; poi prendevo l'autobus e me ne tornavo nel centro storico di San Juan. Adesso avevo uno stipendio. Mona si iscrisse a un corso di spagnolo. Più di quello non poteva fare: era troppo grossa, aveva caldo e si sentiva troppo impedita.
I portoricani erano gentili con noi. Avevano due facce: quella ossequiosa, solenne e remissiva che offrivano ai gringo - "Come vuole lei, capo" (avevo imparato a riconoscerla quando raccoglievo asparagi) - e quella chiassosa, scanzonata e disponibile che si riservavano l'un l'altro. Trattavano me e Mona come due di famiglia. Abituati com'erano alle questioni complicate, non chiedevano spiegazioni. Mi sentivo grato, anche se ci misi un po' a capire che erano gentili perché vedevano una giovane pallida e incinta con un uomo ancora più giovane - che probabilmente non era suo marito - che prendevano l'autobus, se ne stavano seduti in piazza, entravano e uscivano dal portone di un vecchio palazzo, accanto al ristorante La Zaragozana, dove si spendeva tanto e noi non mangiavamo mai. Ci compativano.
I miei erano convinti che lavorassi su una nave. Ai suoi Mona aveva detto di aver trovato un posto di maestra a New York City. Nessuno avrebbe scoperto la verità. Eravamo troppo lontani. Era Fred a occuparsi delle lettere di Mona, a rispedirle quelle ricevute in un unico pacco una volta a settimana.
E così passarono due mesi.
Trovavo confortante vivere in un posto sconosciuto come San Juan. I portoricani ci accettavano così come eravamo e non c'era nessuno che ci conoscesse. Quell'anonimato mi piaceva, era un po' come non avere colpa. Lì ero soltanto un ragazzo pelle e ossa che viveva, assieme a una giovane donna incinta, in una stanza di Calle San Francisco, e che tutte le sere alle cinque prendeva l'autobus per Isla Verde, diretto al Caribe Hilton. Per pranzo mangiavamo quasi sempre zuppa in scatola. La notte, se accendevamo la luce, sul pavimento sfrecciavano le sagome purpuree e lucenti degli scarafaggi. L'aria era satura di polvere e rumore; le finestre della stanza erano alte e sembrava che la strada passasse loro attraverso; persino il mare ne riempiva i contorni. Ma nessuno ci conosceva, per cui non avevamo più vergogna, ci rimaneva quella lotta penosa che condividevamo con tutti gli altri.
Delle volte pioveva forte - acquazzoni estivi che duravano poco. Portavo l'ombrello e mi mettevo in testa un panama - era tutta una posa, volevo avere un aspetto trasandato. Stavo leggendo Graham Greene e Lawrence Durrel. Ormai conoscevo abbastanza bene lo spagnolo e non avevo quasi più bisogno di ricorrere all'inglese. Cercavo di imitare l'accento portoricano, mangiandomi la "s", meemo invece di mismo, e strascicando la "y", joe invece di yo. Prima che arrivassi al ristorante era come se nessuno mi vedesse, e una volta entrato scoprivo che anche lì ero quasi invisibile: ero soltanto un uniforme, giacca camicia e cravatta a farfalla. Il mio lavoro consisteva nel prendere le prenotazioni per telefono, accompagnare al tavolo i clienti, distribuire i menù e augurare a tutti una piacevole serata. Mi pagavano abbastanza per pagare l'affitto, comprare da mangiare per me e Mona e mettere da parte quel poco che restava per il viaggio di ritorno. Adesso avevo capito come una decisione improvvisa potesse significare un cambio di vita totale e irreversibile.
Mona era sempre più debole, come se la gravidanza fosse una malattia, e la piccola stanza in cui vivevamo le faceva venire nostalgia di casa. Si svegliava nel cuore della notte e singhiozzava. Le si gonfiarono le caviglie. Le venivano le irritazioni per il caldo. Di tanto in tanto mi faceva delle sfuriate, "Ma come ho fatto a confondermi con te!". Oppure mi diceva "Sei tutto quello che ho. Ti prego, non lasciarmi. Stammi vicino fino alla fine, ti chiedo solo questo."
Somigliavano alle battute di uno spettacolo teatrale a cui mi ero ritrovato ad assistere per caso, uno di quei sogni angoscianti che hanno origine nel profondo. E, proprio come succede in quei sogni, dove niente di quello che accade si può prevedere e tutto, per quanto assurdo, ha una sua logica, mi sembrava di vivere la vita di un altro.
Un giorno arrivai tardi al lavoro. Andai dal direttore del ristorante e gli dissi: "Mi dispiace, sono in ritardo. Mia moglie non si sente bene - è incinta."
Veniva dal Perù e con quel suo naso adunco, la mascella pronunciata e gli occhi neri sembrava un capo Inca. Mi fissò con una serietà tale da mettermi in imbarazzo. Poi mi batté la mano sulla spalla.
"Non lo dire 'Mi dispiace'. Non lo dire mai". Agitava l'indice in segno di monito. "Un uomo non deve mai dire che gli dispiace". Qualche giorno dopo mi domandò: " Tua moglie come sta? Spero meglio".
Qualcosa gli risposi, ma non sapevo che cosa gli stessi dicendo, e neppure chi stesse parlando. Pensavo, scegli tu chi vuoi che io sia. Sto vivendo contemporaneamente cinque vite diverse, e naturalmente in una di esse, lavoro anche su un mercantile. Nessuna di quelle vite rappresentava davvero la persona che sapevo di essere.
Io e Mona cercavamo di risparmiare il più possibile, e di soldi in più da spendere non ne avevamo. Eravamo esattamente come tutti gli altri abitanti di San Juan: andavamo in giro a piedi, prendevamo l'autobus, mangiavamo i fagottini di carne fritti che chiamavano pastelillos, ci concedevamo un gelato, andavamo a letto presto. Non avevamo radio né televisione. La TV del bar all'angolo trasmetteva solo partite di calcio e incontri di boxe. Il giornale non lo leggevamo mai, anche se a volte davo un'occhiata ai titoli sulla locandina del quotidiano El Imparcial. Non avevamo idea di cosa stesse accadendo nel resto del mondo, al di fuori di Porto Rico. Un giorno la padrona di casa ci disse che a Santo Domingo avevano assassinato il dittatore Trujillo, e per l'eccitazione prodotta dalla notizia nella piazza vicino a casa nostra si respirò aria di festa, con gli uomini lì radunati a ridere e chiacchierare.
Cominciai ad amare il disordine che ci nascondeva, la folla di gente amica, i marciapiedi stretti, persino il caldo e il sole, che sembravano rendere più calma la gente, ammorbidirne gli umori. Lì dove l' intonaco era giallo e pieno di crepe, e le pareti tutte coperte di scritte io mi sentivo a casa. Lì, oltre la merlatura delle mura di cinta della città, in quel quartiere squallido chiamato La Perla. La Perla - dove la gente se la passava molto peggio di noi: bambini scalzi, donne vestite di stracci e uomini ubriachi.
Un giorno vidi un uomo che riconobbi essere lo stesso che ad Amherst aveva tenuto una conferenza di argomento politico dai toni provocatori; era il periodo in cui io e Mona vivevamo insieme. Si trattava del noto radicale William Sloane Coffin, accompagnato da altri due uomini. Stavano parlando, si fecero largo tra la gente e, sorpassandoci, entrarono nel La Zaragozana. Visto che quello era un ristorante che noi non potevamo permetterci, per me quell'uomo non poteva più essere considerato un radicale. Era un privilegiato che apparteneva all'altro mondo.
Scrissi qualche altro dispaccio da inviare a casa, spiegando che la mia nave, il mercantile, si trovava in porto. Mi immaginavo marinaio: per i dettagli prendevo spunto dalla lettura di Kerouac. Mona scriveva ai suoi con regolarità, mandando le sue lettere a Fred che le affrancava e le rispediva a loro.
E ogni mattina mi risvegliavo da un sonno profondo; l'aria calda e umida aveva formato una patina che adesso mi copriva il viso. Di colpo mi ricordavo che vivevo con Mona, in una stanza del centro storico di San Juan, che lei era incinta e che alle cinque e mezzo dovevo essere all'Hilton, a lavorare; e ricadevo nel torpore a forza di ripetermi 'Resisti, stai calmo, i giorni passano e nessuno sa niente.' Mona portava in grembo un bambino; dentro di me c'era solo il buio, e sull'anima sentivo gravarmi il peso dell'angoscia. Al centro dei miei pensieri c'eravamo noi, io e Mona; ma era questo che mi angosciava: la mia famiglia non doveva venire a conoscenza di questa faccenda sporca e vergognosa.
Il bisogno di nasconderci era un'ossessione anche per Mona. E questo bisogno ci faceva stare più tranquilli, ci faceva essere più gentili l'uno con l'altra, come una coppia di criminali che si muovono furtivi, che se ne stanno acquattati per non essere intercettati: due che cercano di evadere la giustizia. Non smettemmo mai di considerarci degli impostori, e anche se parlavamo della gravidanza, del bambino non parlavamo quasi mai; si trattava di un problema che stavamo cercando di risolvere, niente di più.
Un giorno d' agosto Mona ricevette una lettera da un'agenzia di Boston che aveva un nome penoso: La Casa dei Piccoli Senza Famiglia. Diceva che avrebbero accolto Mona, l'avrebbero assistita fino al momento del parto e poi avrebbero preso il bambino. Famiglie piene di speranza non aspettavano altro. Potete star certa che troveremo una casa in grado di accogliere con amore il suo bambino. Mona pianse leggendo la lettera, ma ammise che era quello che voleva: un sollievo.
Quella notte si svegliò singhiozzando, perché le era venuto in mente che, siccome portavamo tutti e due gli occhiali, il bambino non ci avrebbe visto bene. Non poteva sopportare il pensiero di lasciare che questo bambino miope se ne andasse a tentoni in un mondo di sconosciuti.
Comprammo due biglietti per Boston. Dissi al direttore peruviano che sarei partito. "Proprio adesso che stavo cominciando ad abituarmi a te", mi disse.
"Lo siento", risposi, buttandola sullo scherzo.
Qualche giorno prima che lasciassimo San Juan, la padrona di casa ci consegnò una lettera con sopra un francobollo americano e l'indirizzo di Calle San Francisco - non era una di quelle che ci recapitava Fred. Era della madre di Mona. Cominciava così: "Sappiamo tutto". Il padre di Mona era andato a New York, a casa di Fred. Aveva chiesto di vedere sua figlia. Fred gli aveva raccontato tutta la storia e poi gli aveva dato il nostro indirizzo. "Papà è sul piede di guerra," scriveva sua madre, "e anche i genitori di Jay. Abbiamo parlato a lungo."
I giorni seguenti vivemmo in tensione. Quasi ci aspettavamo di vederci arrivare il padre di Mona. Ma eravamo troppo lontani, è logico. Andare a San Juan era stato un salto nel buio, ma ci aveva salvati. Non arrivò nessuno. Partimmo per Boston una notte che faceva caldo. Avevamo portato tutte le nostre cose - pentole, asciugamani, lenzuola - a La Perla, e le avevamo date a una donna che per questo ci fu molto riconoscente.
Mona, incinta di otto mesi, faticò a prendere posto sull'aereo. Atterrammo a Boston all'alba, facemmo colazione in un bar-ristorante di Boylston Street ed entrammo nel parco pubblico. Avevo imparato a camminare lentamente, per stare al passo con Mona. Disse che aveva la nausea, poi si sedette su una panchina e vomitò sull'erba. La tenni stretta mentre si puliva la bocca sulla mia spalla. Si appoggiò a me, con tutto il peso della fiducia e della rassegnazione. Quella calda mattina di agosto eravamo come due innamorati. Alle nove andammo sulla strada e chiamammo un taxi.
"Non venire con me," mi disse. Mi stava risparmiando. Salì in macchina e disse all'autista di portarla alla Casa dei Piccoli Senza Famiglia. "Joy Street," aggiunse. Quei nomi mi strapparono il cuore.
Chiamai a casa da una cabina di Sullivan Square e presi l'autobus fino a Elm Street, per poi risalire a piedi l'alta collina che portava a casa mia, con la testa che mi girava per il caldo e per la notte in bianco passata sull'aereo. Abbandonavo tutte le altre vite per tornare all'unica che odiavo davvero, e quello che mi aspettava mi faceva paura.
Con passo pesante e trascinando i piedi salii gli scalini di legno della veranda. Le assi annunciarono il mio arrivo. La porta d'ingresso era aperta. Non mi venne incontro nessuno. La zanzariera si richiuse di scatto. Le molle batterono contro il telaio. Sapevo che quegli scalini di legno, quella veranda e quella porta di legno erano per me il portale pieno di schegge che mi avrebbe condotto al Giorno del Giudizio.
"Sono qui," mi chiamò Mamma dalla cucina.
Era seduta con le braccia sul tavolo e aveva un'aria severa. Su una sedia appoggiata alla parete opposta sedeva Floyd che, per quanto avesse cercato di trattenersi, non poté fare a meno di ridere, in un'orrenda miscela di esultanza e compassione. Poi uscì dalla stanza cercando di fare meno rumore possibile e con lo sguardo mi disse: Sei nei guai.
A narici strette e labbra serrate, Mamma sembrava un falco. "Bene!" Mi fissò con l'intenzione di farmi abbassare lo sguardo e alla fine, in un sarcastico urlo di trionfo, disse: "Sarai orgoglioso di te, adesso!"
Mentre lei, aspra, mi rimproverava, abbassai la testa.
"E guardati la giacca!" Con le sopracciglia aggrottate fissava la macchia di vomito che avevo sulla spalla.
I giorni e le settimane successive furono più facili: io e Mona eravamo riusciti a mantenere il segreto sugli ultimi raggiri del crimine che stavamo commettendo - perché per noi si trattava di questo; era qualcosa di molto peggio di un errore. Solo io sapevo dov'era Mona, e andavo a trovarla di nascosto. Era impaziente e, tenendomi la mano, diceva "Non ci vorrà ancora molto, vedrai".
Furono i futuri genitori del bambino ad accompagnarla in ospedale per il parto - era un maschio. Andai a trovarla, tenni in braccio il bambino - un maschietto dalla faccia rossa e soddisfatta. La seconda volta che andai all'ospedale Mona mi disse: "Le altre mamme hanno riso quando te ne sei andato. Mi hanno chiesto ' Ma quanti anni ha? È solo un ragazzino!'"
Il bambino lo vidi una volta soltanto. E rividi Mona solo dopo che era già uscita dall'ospedale. Era la fine di settembre ed eravamo tornati ad Amherst, di nuovo due studenti, ma non gli stessi; portavamo il peso della triste storia del bambino che avevamo perduto. E non potevamo raccontarla a nessuno. Io ero triste ma sollevato. Mona era triste e basta. Certe notti mi scongiurava di andare nella sua stanza, solo perché la tenessi stretta mentre singhiozzava. Vestiti, ce ne stavamo sdraiati sul suo letto stretto.
Compii vent'anni. Mona si laureò presto, in gennaio, e se ne andò via, a insegnare. Mi scrisse un po' di volte, poi smise del tutto.
In un certo senso sapevo che non mi sarei mai più sentito così disperato, così disprezzato, così debole e biasimato quanto lo fui quell'anno. E non mi sbagliavo. Quell'esperienza non mi ha rafforzato, ma ha impresso nella mia memoria, perché in seguito potessi portarlo sempre dentro di me, il ricordo vivido dell'impotenza, il termine di paragone cui raffrontare ogni futura avversità. Delle volte, non sapendo che altro fare, sorridevo. Qualcuno veniva da me e mi diceva "Quello che ho da dirti non ti piacerà". Allora mi veniva in mente quell'anno e sapevo che l'avrei potuto sopportare.
Per quanto riguarda il bambino, ovunque fosse, stava senz'altro meglio. Di tanto in tanto sognavo che mi aveva trovato, che mi aveva messo con le spalle al muro e mi sbraitava contro per quello che avevo fatto - per il destino che gli avevo assegnato.
A volte delle persone raccontano di aver avuto una malattia da bambini e di aver letto moltissimo in quel periodo, o di aver imparato una lingua. Altre dicono di aver acquisito una nuova abilità in seguito a un terribile incidente. È un po' quello che è capitato a me. Avevo imparato a cavarmela: a sopravvivere, a fidarmi del mio istinto, a chiudermi in uno stretto riserbo. Sapevo che la mia vita era altrove. Quando Mona chiamò la prima volta, era già da parecchio tempo che avevo ragione di sospettare di non potermi fidare della mia famiglia. Qualunque cosa sapessero di me l'avrebbero usata contro di me, per ostacolarmi.
Da allora, non mi è mai capitato con nessuno di scendere nei particolari di quella vicenda. Non l'avrei sopportato. L'anno più brutto della mia vita, mi lamentavo sempre; ma più passava il tempo, più cominciavo a considerarlo, nonostante gli sforzi che aveva comportato, un anno grandioso. L'intera vicenda così strutturata - fatta di un inizio, una parte centrale e una fine - era stata vissuta da altri prima di me, ma avevo dovuto sperimentarla sulla mia pelle per capirlo, per sapere che il tormento può fare da analgesico, che il ricordo del dolore può diventare un antidolorifico. Quell'anno ha reso più facili gli anni a venire.




(Il racconto è apparso sulla rivista The New Yorker il 14 novembre del 2005. Traduzione di Federica Merani.)



Paul Edward Theroux è nato nel 1941 a Medford, Massachusetts. Figlio di un franco-canadese e di un'italiana, ha studiato scrittura creativa all'Università del Maine, si è specializzato a Syracuse e a Urbino e si è trasferito in Africa, dove ha insegnato e preso parte a missioni umanitarie. Ha scritto per numerosi settimanali e mensili, tra cui "Playboy", "Esquire" e "Atlantic Monthly". Ha pubblicato diversi romanzi e molti saggi sul tema del viaggio. Per Baldini Castoldi Dalai editore sono usciti: Ultimi giorni a Hong Kong, Il Gallo di Ferro, O-Zone, Hotel Honolulu, L'infermiera Wolf e il dottor Sacks, L'ultimo treno della Patagonia e Mosquito Coast.


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