Tre racconti


Julio Ramón Ribeiro






Gli avvoltoi senza piume

Alle sei del mattino la città si alza in punta dei piedi e comincia a muovere i primi passi. Una nebbia sottile dissolve il contorno degli oggetti e crea come un'atmosfera incantata. Le persone che attraversano la città a quest'ora sembrano esser fatte di un'altra sostanza e appartenere a un ordine biologico spettrale. Le beghine si trascinano faticosamente fino ai portali delle chiese che le inghiottono. I nottambuli, macerati dalla notte, tornano a casa avvolti nelle sciarpe e nella loro malinconia. Gli spazzini cominciano lungo la avenida Pardo la loro lugubre passeggiata, armati di scope e di carretti. A quest'ora si vedono anche operai dirigersi al tram, poliziotti che sbadigliano contro gli alberi, strilloni illividiti dal freddo, cameriere che mettono fuori i bidoni della spazzatura. A quest'ora, infine, come per un misterioso accordo, compaiono gli avvoltoi senza piume.
A quest'ora il vecchio don Santos si mette la gamba di legno, seduto sul pagliericcio, e comincia a sbraitare:
- Alzatevi! Efrain, Enrique! È ora.
I due ragazzi corrono al rigagnolo del cortile stropicciandosi gli occhi cisposi. Con la tranquillità della notte l'acqua ristagna e sul fondo trasparente si vedono crescere erbe e sguisciare agili infusori. Dopo una sciacquata di faccia afferra ognuno la sua latta e s'avventano in strada. Don Santos, nel frattempo, si avvicina al porcile e col lungo bastone saggia il dorso del porco che si rivoltola nel brago.
- Ti ci vuole ancora un po', maiale! Ma aspetta che arriverà il tuo turno.
Efrain ed Enrique si soffermano lungo il percorso ad arrampicarsi sui gelsi per strappar more e raccogliere pietre di quelle affilate che fendono l'aria e feriscono di dorso. È ancora l'ora celeste quando arrivano nel loro dominio, una lunga strada costeggiata di ville eleganti che sbocca sul lungomare.
Non sono gli unici. In altri cortili, in altri sobborghi qualcuno ha dato la sveglia e si sono alzati in molti. Chi porta delle latte, chi degli scatoloni di cartone, a volte basta un giornale vecchio. Senza conoscersi formano una specie di organizzazione clandestina che si è suddivisa l'intera città. Alcuni perlustrano gli edifici pubblici, altri hanno scelto i parchi o gli scarichi d'immondizie. Perfino i cani hanno assunto le loro abitudini, i loro itinerari, addestrati dalla perspicace miseria.
Efrain ed Enrique, dopo un breve riposo, iniziano il lavoro. Ognuno sceglie un marciapiedi della strada. I bidoni della spazzatura sono allineati davanti alle porte. Bisogna vuotarli completamente e poi cominciare la ricerca. Un bidone è sempre uno scrigno di sorprese. Si trovano scatolette di sardine, scarpe vecchie, pezzi di pane, pappagalli morti, immondi batuffoli di ovatta. A loro interessano solo gli avanzi. Nel porcile, Pascual, accetta qualsiasi cosa e predilige la verdura un po' guasta. La piccola latta che ognuno di loro porta si va riempiendo di pomodori marci, di ritagli di grasso, di strane salse che nessun libro di cucina contempla. Non è raro, comunque, fare una scoperta preziosa. Un giorno Efrain trovò delle bretelle con le quali si fabbricò una fionda. Un'altra volta una pera quasi intatta che divorò all'istante. Enrique, invece, ha fortuna con le scatolette di medicine, con le boccette di vetro, con gli spazzolini da denti usati e altri oggetti simili che colleziona avidamente.
Dopo una selezione rigorosa rimettono la spazzatura nel bidone e si lanciano sul seguente. Conviene fare alla svelta perché il nemico è in agguato. A volte sono sorpresi dalle cameriere e devono scappare lasciando in terra sparso il bottino. Ma piú spesso è l'automezzo della Nettezza Urbana ad apparire e allora la giornata è persa.
Quando il sole spunta dalle colline, l'ora celeste svanisce. La nebbia si è dissolta, le beghine sono in piena estasi, i nottambuli dormono, gli strilloni hanno distribuito i giornali, gli operai si arrampicano sulle impalcature. La luce dilegua il mondo magico dell'alba. Gli avvoltoi senza piume sono tornati al nido.


Don Santos li aspettava col caffè pronto.
- Vediamo cosa mi avete portato.
Annusava le latte e se il bottino era buono faceva sempre lo stesso commento:
- Pascual oggi banchetta.
Ma il piú delle volte esplodeva:
- Imbecilli! Cosa avete fatto oggi? Ci scommetto che vi siete messi a giocare. Pascual morirà di fame!
Scappavano verso il pergolato con le orecchie in fiamme per le strizzate, mentre il vecchio si trascinava fino al porcile. Dal fondo del fossato il maiale cominciava a grugnire. Don Santos gli buttava il mangiare.
- Povero Pascual! Oggi farai la fame per colpa di questi farabutti. Loro non ti coccolano come me. Ma gliele darò, così imparano.


All'inizio dell'inverno il maiale era diventato una specie di mostro insaziabile. Tutto gli sembrava poco e don Santos si vendicava coi nipoti per la fame della bestia. Li obbligava ad alzarsi prima, a sconfinare in zone altrui alla ricerca di piú grossi bottini. Alla fine li costrinse ad andare allo scarico d'immondizie che stava in riva al mare.
- Li troverete piú roba. E poi sarà piú facile perché sta tutto insieme.
Una domenica, Efrain ed Enrique arrivarono alla scarpata. Gli automezzi della Nettezza Urbana, seguendo una pista di terra battuta, scaricavano la spazzatura lungo un dirupo di pietre. Visto dal lungomare, lo scarico formava una specie di gola oscura e fumante dove gli avvoltoi e i cani si muovevano come formiche. Da lontano i ragazzi tirarono pietre per spaventare i nemici. Un cane si allontanò abbaiando. Quando furono vicini sentirono un odore nauseabondo penetrargli i polmoni. I piedi sprofondavano in uno strato di piume, di escrementi, di materie putride o bruciate. Affondando le mani, cominciarono a setacciare. A volte sotto un giornale giallastro scoprivano una carogna semidivorata. Dalle scarpate vicine gli avvoltoi spiavano impazienti e alcuni si avvicinavano saltellando di pietra in pietra come se volessero accerchiarli. Efrain gridava per spaventarli e le sue grida riecheggiavano nell'anfratto facendo staccare sassi che rotolavano fino al mare. Dopo un'ora di lavoro ritornarono a casa coi secchi pieni.
- Bravi! - esclamò don Santos. - Dovrete tornarci due o tre volte la settimana.
Da allora il mercoledí e la domenica Efrain ed Enrique trotterellavano fino allo scarico e gli avvoltoi, abituati alla loro presenza, gli lavoravano accanto, gracchiando, svolazzando, scavando coi becchi gialli, come se volessero aiutarli a scoprire la vena della preziosa immondizia.
Fu al ritorno da una di queste scorribande che Efrain senti un dolore sotto la pianta del piede. Un vetro gli aveva fatto una piccola ferita. Il giorno dopo aveva il piede gonfio, ma continuò a lavorare. Quando tornarono non poteva quasi camminare, ma don Santos non se ne accorse perché aveva visite. In compagnia di un grassone con le mani macchiate di sangue, era intento a osservare il porcile.
- Verrò tra venti trenta giorni, - diceva l'uomo. - Per quella data credo che sarà a buon punto.
Quando se ne andò don Santos sprizzava fuoco dagli occhi.
- Al lavoro! Al lavoro! D'ora in poi la razione di Pascual va aumentata. L'affare promette bene.
Il mattino dopo, però, quando don Santos svegliò i nipoti, Efrain non ce la fece ad alzarsi.
- Ha una ferita al piede, - spiegò Enrique. - Ieri si è tagliato con un vetro.
Don Santos esaminò il piede del nipote. L'infezione era cominciata.
- Sono tutte storie. Lavati il piede nel rigagnolo e fascialo con uno straccio.
- Ma gli fa male, - intervenne Enrique, - non riesce a camminare.
Don Santos meditò un momento. Dal porcile arrivavano i grugniti di Pascual.
- E a me? - chiese battendosi la mano sulla gamba di legno. - Non mi fa male la gamba? Ho settant'anni e lavoro!... Niente capricci!
Efrain raggiunse la strada aggrappato alla spalla del fratello. Mezz'ora dopo tornarono coi secchi quasi vuoti.
- Non ce la faceva piú, - disse Enrique al nonno, - Efrain si è azzoppato.
Don Santos osservò i nipoti come se meditasse una sentenza.
- Va bene, va bene, - disse, grattandosi la barba rada e afferrato Efrain per il collo lo trascinò nella stanza. - I malati a letto a crepare sul materasso! E tu farai il lavoro di tuo fratello. Vai subito allo scarico!


Verso mezzogiorno Enrique tornò coi secchi colmi. Lo seguiva uno strano visitatore: un cane scheletrico pezzato di scabbia.
- L'ho trovato allo scarico, - spiegò Enrique e mi ha seguito.
Don Santos afferrò il bastone.
- Una bocca in piú in casa!
Enrique si strinse al petto il cane e fuggi verso la porta.
- Non fargli male, nonno. Gli darò un po' della mia razione.
Don Santos si avvicinò, affondando la gamba nel fango.
- Non voglio cani! Ci siete già voi!
Enrique apri la porta di casa.
- Se se ne va lui, me ne vado anch'io.
Il nonno si fermò. Enrique ne approfittò per insistere.
- Non mangia quasi niente,... guarda com'è magro. E poi ora che Efrain è ammalato, mi aiuterà. Conosce bene lo scarico e ha buon fiuto per la spazzatura.
Don Santos rifletté, guardando il cielo dove s'andava addensando la garúa1. Senza aprir bocca lasciò andare il bastone, afferrò i secchi e si diresse barcollando verso il porcile.
- Pascual, Pascual... Pascualito! - canticchiava il nonno.
- Ti chiamerai Pedro, - disse Enrique accarezzando la testa del cane ed entrò da Efrain.
La sua allegria sfumò: Efrain in un bagno di sudore si contorceva dal dolore sul pagliericcio. Aveva il piede gonfio come fosse di gomma e pieno d'aria. Le dita non avevano quasi piú forma.
- Ti ho portato questo regalo, guarda, - disse indicando il cane. - Si chiama Pedro, è per te, ti farà compagnia... Quando devo andare allo scarico te lo lascio così potete giocare insieme tutto il giorno. Puoi insegnargli a portarti le pietre con la bocca.
- E il nonno? - chiese Efrain allungando la mano verso l'animale.
- Il nonno non dice niente, - sospirò Enrique. Guardarono tutti e due verso la porta. Era cominciata a cadere la garúa. Arrivava la voce del nonno: - Pascual, Pascual... Pascualito!
Quella notte ci fu luna piena. I due nipoti erano inquieti, perché in quel periodo il nonno diventava intrattabile. Dal crepuscolo lo videro aggirarsi nel cortile, parlando da solo, colpendo col bastone il pergolato. Ogni tanto si avvicinava alla stanza, vi gettava un'occhiata e vedendo i nipoti silenziosi lanciava uno sputo carico di rancore. Pedro ne aveva paura e restava immobile come una pietra.
- Uno schifo! Un vero schifo! - ripeté tutta la notte il nonno, guardando la luna.
Il mattino seguente Enrique si svegliò col raffreddore. Il vecchio che lo senti starnutire all'alba, non disse niente. Eppure in cuor suo presentiva una catastrofe. Se Enrique si ammalava, chi provvedeva a Pascual? La voracità del maiale cresceva con la sua mole. Grugniva tutto il pomeriggio affondando il naso nel fango. Dal cortile di Nemesio che viveva a un isolato di distanza, erano venuti a protestare.
Il secondo giorno accadde l'inevitabile: Enrique non poté mettersi in piedi. Aveva tossito tutta la notte e l'alba lo sorprese tremante, che scottava di febbre.
- Anche tu? - chiese il nonno.
Enrique indicò il petto, gli usciva a sibili il respiro. Il nonno usci furibondo dalla stanza. Cinque minuti dopo tornò dentro.
- È una vergogna prendermi in giro così! - piagnucolava. - Ve ne approfittate perché non posso camminare. Perché sapete che sono vecchio e zoppo! Altrimenti vi manderei al diavolo e ci penserei io a Pascual!
Efrain si svegliò lamentandosi ed Enrique cominciò a tossire.
- Non importa, ci penso io. Siete merda, merda schietta! Dei poveri avvoltoi senza piume. Vi farò vedere io come ce la faccio meglio di voi: è ancora forte il nonno! Ma una cosa è certa, oggi restate digiuni. Non vi darò da mangiare finché non vi alzerete per andare al lavoro!
Dalla soglia lo videro afferrare rabbiosamente le latte e precipitarsi in strada. Mezz'ora dopo tornò a casa distrutto. Non avendo la sveltezza dei nipoti, l'automezzo della Nettezza Urbana l'aveva raggiunto. E poi i cani avevano tentato di morderlo.
- Pezzi di merda! Ve l'ho detto, non vi darò da mangiare finché non lavorerete.
Il giorno seguente ritentò l'operazione, ma dovette rinunciarvi. La gamba di legno non era piú abituata alle strade asfaltate e ogni passo era una coltellata all'inguine. All'alba del terzo giorno si abbatté sfinito sul pagliericcio, senz'altro fiato che per gli insulti.
- Se morirà di fame, - gridava, - sarà colpa vostra!


Cominciarono allora delle interminabili giornate. I tre trascorrevano tutto il giorno rinchiusi nella stanza, senza parlare, in una specie di reclusione forzata. Efrain non faceva che contorcersi, Enrique tossiva, Pedro si alzava e dopo un giretto nello spiazzo, tornava dentro con una pietra in bocca che depositava nelle mani dei padroni. Don Santos, semisdraiato, giocherellava con la gamba di legno, lanciandogli occhiate feroci. A mezzogiorno si trascinava fino all'angolo del terreno dove crescevano le verdure e si preparava il pranzo che divorava di nascosto. A volte lanciava sul letto dei nipoti delle lattughe o una carota cruda, col proposito di aizzarne l'appetito, credendo così di rendere piú raffinato il suo castigo.
Efrain ormai non aveva forza nemmeno per lamentarsi. Solo Enrique si sentiva crescere in petto una strana pena guardando gli occhi del nonno senza riconoscerli, come se avessero perso l'espressione umana. Di notte, quando spuntava la luna, si alzava, afferrava Pedro tra le braccia, stringendolo teneramente fino a farlo gemere. A quell'ora il maiale cominciava a grugnire e il nonno si lamentava come se lo stessero strangolando. A volte si metteva la gamba di legno e usciva nel cortile. Al chiarore della luna Enrique lo vedeva andare dieci volte dal porcile all'orto, coi pugni in alto, colpendo tutto ciò che incontrava lungo il cammino. Alla fine rientrava nella stanza e restava fisso a guardarli, come se volesse incolparli della fame di Pascual.


L'ultima notte di luna nessuno poté dormire. Pascual lanciava veri e propri ruggiti. Enrique aveva sentito dire che i maiali, quando avevano fame, impazzivano come gli uomini. Il nonno restò sveglio senza nemmeno spegnere il lumino. Stavolta non usci nel cortile, né imprecò tra i denti. Coricato sul pagliericcio guardava fisso la porta. Sembrava accumulare dentro una collera molto vecchia e giocherellarvi preparandosi a farla esplodere. Quando il cielo cominciò a stingersi sulle colline, spalancò la bocca, girando verso i nipoti quella nera cavità, emise un ruggito:
- In piedi, in piedi, ho detto! - cominciarono a piovere le bastonate. - Alzatevi sfaticati! Fino a quando resterete così? Fatela finita! In piedi! ...
Efrain si mise a piangere. Enrique si alzò, appiattendosi contro la parete. Gli occhi del nonno sembravano affascinarlo fino al punto da non fargli sentire le percosse. Vedeva il bastone sollevarsi e abbattersi sulla sua testa, come se fosse di cartone. Finalmente poté reagire.
- A Efrain no, non è colpa sua! Lascia andare solo me, ci vado io, andrò allo scarico.
Il nonno si fermò ansante. Ci mise molto a ricuperare il fiato.
- Immediatamente... allo scarico... porta due secchi, quattro secchi...
Enrique si ritrasse, afferrò i secchi e si allontanò di corsa. Lo spossamento della fame e della convalescenza lo facevano vacillare. Quando apri la porta del recinto, Pedro volle seguirlo.
- Tu no. Resta qui a fare la guardia a Efrain.
E si lanciò in strada respirando a pieni polmoni l'aria del mattino. Durante il tragitto mangiò erbe e per poco non masticò la terra. Vedeva tutto attraverso una nebbia fantastica. La debolezza lo rendeva leggero, etereo: volava quasi come un uccello. Nello scarico si senti un avvoltoio tra gli avvoltoi. Quando i secchi furono stracolmi s'avviò verso casa. Le beghine, i nottambuli, gli strilloni scalzi, tutte le secrezioni dell'alba cominciavano a invadere la città. Enrique, ritornato nel suo mondo, camminava felice tra loro, nel suo mondo di cani e fantasmi, toccato dall'ora celeste.
Entrando nel cortile senti un'atmosfera opprimente, repulsiva che lo costrinse a fermarsi. Era come se li sull'uscio finisse un mondo e ne cominciasse un altro fatto di melma, di ruggiti, di assurdi castighi. La cosa sorprendente era però che nel cortile regnasse una calma densa di cattivi presagi, come se tutta la violenza fosse sospesa in equilibrio, sul punto di abbattersi. Il nonno, fermo sul bordo del porcile, guardava nel fossato. Sembrava un albero spuntato dalla gamba di legno. Enrique fece rumore, ma il nonno nor si mosse.
- Ecco i secchi!
Don Santos gli voltò le spalle e restò immobile. Enrique lasciò i secchi e corse incuriosito nella stanza. Efrain, appena lo vide cominciò a lamentarsi: - Pedro... Pedro...
- Che succede?
- Pedro ha morso il nonno... il nonno ha preso bastone... e poi l'ho sentito abbaiare.
Enrique usci dalla stanza.
- Pedro, vieni qua. Dove sei, Pedro?
Nessuno gli rispose. Il nonno era rimasto immobile, girato di spalle. Enrique ebbe un cattivo presentimento. Con un balzo si avvicinò al vecchio.
- Dov'è Pedro?
Il suo sguardo si abbassò sul porcile. Pascual divorava qualcosa nella melma. Restavano ancora le zampe e la coda del cane.
- No! - gridò Enrique coprendosi gli occhi. - No, no! - e attraverso le lacrime cercò lo sguardo del nonno. Il vecchio distolse gli occhi girandosi maldestro sulla gamba di legno. Enrique cominciò a ballargli intorno, afferrandogli la camicia, gridando, scalciando, cercando di guardarlo negli occhi, di avere una risposta. Il nonno non rispondeva. Alla fine, spazientito, diede uno spintone al nipote facendolo rotolare in terra. Dal suolo Enrique osservò il vecchio che, ritto come un gigante, guardava ostinatamente il festino di Pascual. Allungando la mano trovò il bastone che aveva la punta macchiata di sangue. Afferratolo, si alzò piano piano avvicinandosi al vecchio.
- Voltati, - gridò. - Voltati!
Quando don Santos si voltò, vide il bastone fendere l'aria e colpirgli lo zigomo.
- Prendi, - strillò Enrique rialzando la mano. Ma subito si fermò, impaurito da ciò che stava facendo e buttò via il bastone, guardando il nonno quasi pentito. Il vecchio, tenendosi la faccia, indietreggiò di un passo, la gamba di legno toccò la terra melmosa, scivolò e con un grido cadde di spalle nel porcile.
Enrique si allontanò silenziosamente come si era avvicinato. Forse il nonno riuscí a scorgerlo perché, mentre correva verso la stanza, gli sembrò che lo chiamasse per nome, con un tono affettuoso che non gli aveva mai sentito.
- Enrique, vieni dal nonno...
- Presto, - esclamò Enrique precipitandosi verso il fratello. - Presto, Efrain. Il vecchio è caduto nel porcile. Dobbiamo andarcene via.
- Dove? - chiese Efrain.
- In un posto qualsiasi, allo scarico, dove si può mangiare qualcosa, dove stanno gli avvoltoi.
- Non ce la faccio ad alzarmi!
Enrique afferrò il fratello con tutte e due le mani e se lo strinse contro il petto. Abbracciati stretti che sembravano una sola persona, attraversarono lentamente il cortile. Quando aprirono il portoncino si accorsero che l'ora celeste era finita e che la città, sveglia e viva, apriva davanti a loro la sua gigantesca mandibola.
Dal porcile arrivava lo strepito di una battaglia.


Nota 1: garúa - Copiosa rugiada che in sostituzione della pioggia cade d'inverno a Lima.

 



I moribondi

Due giorni dopo l'inizio della guerra cominciarono ad arrivare a Paita i primi camion di morti. Mio fratello Javier mi portò a vederli all'ingresso dell'ospedale. I camion sostavano qualche momento davanti al portone e gli infermieri uscivano a dargli un'occhiata. A volte trovavano un moribondo nel mucchio di cadaveri, l'adagiavano su una barella e lo trasportavano dentro in fretta mentre il camion proseguiva per il cimitero.
- Quelli che hanno i gambali sono gli equatoriani, - diceva Javier, - quelli con gli stivali sono i peruviani.
Ma io non facevo caso a questi dettagli, perché l'unica cosa che m'interessava era vedere come i morti nel morire cercavano di aprire la bocca e di mostrare i denti, anche quand'erano denti rotti, attraverso la fessura delle labbra. Mi colpiva il riso dei morti, un riso che trovavo non so perché un po' provocatorio, come quello di chi ride controvoglia, solo per infastidirci. Non suscitavano in me nessun'altra sensazione, forse perché ce n'erano troppi e quell'abbondanza distruggeva l'effetto patetico che produce il morto singolo. Sembravano scarafaggi o pesci.
- E perché li portano fin qui? - chiesi a Javier. - Perché non li lasciano a Tumbes o non li sotterrano alla frontiera?
- Non so, - mi rispose, - credo che li trasportino vivi, ma che muoiano lungo il tragitto.
Quando tornammo a casa m'indicò due negozi con le porte chiuse. Su tutte e due c'era scritta col gesso la parola SCIMMIA.
- Gli equatoriani li chiamano scimmie, - mi spiegò. - Questi negozi sono di scimmie che non li aprono perché hanno paura o se ne sono andati. A Paita e a Tumbes ci sono parecchie scimmie. A noi in Equatore ci chiamano galline perché abbiamo perso tutte le guerre, quella col Cile, quella con la Colombia e non so quali altre... ma questa non la perderemo.
A casa mia sorella Eulalia stava piangendo perché il fidanzato Marcos, che è tenente, era stato destinato alla frontiera. Quella mattina aveva ricevuto una sua lettera da Tumbes in cui le raccontava la battaglia di Zarumilla e la presa di Puerto Bolívar. La mamma le dava la valeriana per calmarle i nervi e accendeva candele a tutti i santi. Papà, invece, non faceva che imprecare dalla mattina alla sera. Le lezioni al Collegio nazionale, dov'era professore, erano state sospese a causa della guerra e per questo motivo si aggirava ciondoloni per casa senza sapere cosa fare con quell'enorme mattinata vuota davanti.
- Cosa m'importa della guerra! - esclamava. - Se tutti sapessero leggere e conoscessero le tabelline non avrebbero motivo di starsi ammazzando. E io che pensavo di interrogare Pérez in botanica!
Presto non ci fu piú posto per i morti al cimitero, né per i feriti all'ospedale. I morti cominciarono a sotterrarli vicino al fiume e i feriti vennero alloggiati nel municipio e nel Collegio nazionale. Papà usci come una furia quando lo seppe per vedere che ne era della sua aula. Ci aspettavamo tutti che tornasse arrabbiato, ma arrivò tutto tronfio con un bracciale rosso sulla manica della camicia.
- Faccio parte del corpo di requisizione stanze vuote, - disse. - Devo tornare nel pomeriggio a scuola a vedere dove sistemare i feriti. Oggi sono arrivate sette ambulanze.
Quella sera arrivò Marcos dal fronte. Lo avevano mandato a Paita in missione speciale. La prima cosa che fece fu venire a casa e vi rimase a chiacchierare fino a sera. Mia sorella lo palpava dappertutto, per assicurarsi che non fosse ferito, sorpresa che tornasse dalla guerra senza che gli mancasse un braccio o per lo meno un dito.
- Lasciami che mi fai il solletico, - protestava Marcos e continuava il suo racconto della battaglia di Zarumilla e della presa di Puerto Bolívar. C'erano dei vicini ad ascoltarlo.
- È vero che abbiamo lanciato dei paracadutisti? - gli chiesero.
- Ne abbiamo lanciati sei. Uno di loro è caduto in mare ed è stato catturato da una lancia equatoriana. Ma gli altri cinque hanno occupato il porto.
- Ma questa guerra la vinciamo o no?
- È già vinta.
- Viva il Perú, - gridò uno dei vicini. Nessuno gli fece caso.
Il giorno dopo mio padre arrivò a casa tutto allegro.
- Oggi ho sistemato sette feriti nella parrocchia e quattro a casa di Timoteo Velázquez che ha l'orto. E la smettano di scocciarmi e di guardarmi in cagnesco per strada perché gli metto in casa i feriti.
Ma venne il nostro turno. Fu la sera stessa che Marcos tornava al fronte e che mia sorella si aggirava per casa piangendo. Erano riusciti a calmarla e si era ristabilita la calma, quando bussarono alla porta. Qualcuno in strada diceva:
- Requisizione stanze vuote.
Poi sentii i miei genitori dirigersi all'ingresso.
- Ma hai detto che abbiamo stanze vuote? - chiedeva la mamma.
- Ho detto che avevamo un magazzino sgombro. Questi feriti deve avermeli mandati Timoteo Velázquez per vendetta.
- Bisognerà accettarli. Sono peruviani o equatoriani?
Mio fratello Javier si alzò e dischiuse la porta per spiare. Lo imitai e tutti e due vedemmo gli infermieri attraversare la stanza con due barelle. Papà in pigiama li guidava lungo il corridoio che conduce alla cucina.
- Tra un po' vado a vedere chi sono i feriti, - disse Javier, mettendosi le pantofole. - Tu non muoverti di qui.
Quando sentimmo andar via gli infermieri e papà e mamma rimettersi a letto, Javier usci dalla stanza con la pila. Tornò dopo cinque minuti.
- Sono peruviani o equatoriani? - gli chiesi. - Non lo so, - mi rispose confuso. - Non hanno gambali né stivali. Sono scalzi.
Il giorno dopo mi svegliai prestissimo. La presenza di quei soldati mi dava un senso di oppressione, come se la guerra avesse finito per mettere le grinfie in casa nostra.
Non appena mia madre usci per andare alla messa delle sei, mi alzai e mi diressi di corsa nel magazzino. Senza riguardi spalancai la porta e rimasi piantato là di fronte ai feriti. Li avevano buttati su dei pagliericci e malgrado l'ora avevano tutti e due gli occhi aperti e guardavano fissi le travi del tetto. Uno di loro era color cenere e sudava, l'altro aveva un braccio bendato fuori dal letto e le guance incavate. Tranne questo, non notai in loro niente di speciale. Sembravano due pastorelli di Cajamarca o due di quei mulattieri che avevo visto inerpicarsi instancabili su per i picchi delle montagne di Ancash.
"Sono peruviani, - pensai. - Gli equatoriani devono essere piú pelosi".
Stavo per andarmene, un po' deluso, quando uno di loro disse qualcosa. Voltandomi vidi quello pallido muovere le labbra:
- Acqua...
- Nel dirlo, tirò fuori dal lenzuolo una gamba e mi mostrò il ginocchio: vi era aperta una ferita rotonda e violacea, come un'ortensia fiorita.
Corsi in cucina, sentendo una specie di vertigine e li m'imbattei in mia sorella che stava mettendo il bollitoio sul fornello.
- Che ti succede? - mi chiese. - Sei bianco come un lenzuolo!
- Uno dei feriti vuole acqua, - le risposi. - Ha un tumore orribile al ginocchio.
- Non dargliela! - strillò Eulalia. - Devono morire di sete, crepare, quei maledetti. Sono equatoriani e sparano su Marcos. Perché li hanno portati qua? Se non se ne vanno da questa casa mi butto a mare.
Si era già messa a piangere e io non sapevo cosa fare.
- Chi ti ha detto che sono equatoriani? - le chiesi.
- Non so. Stanotte ho sentito qualcosa mentre andavo a letto. Ah, madonna mia, nella nostra casa gli assassini di Marcos!
Io riempii un bicchiere d'acqua e non sapevo se darglielo a Eulalia per calmarla o se portarlo al ferito. Alla fine me lo bevvi. In quel momento apparve mio padre.
- Che fai senza scarpe? - gridò e si portò via mia sorella con una scusa. Dopo poco tornò. Io stavo immobile col bicchiere vuoto in mano.
- Ci scommetto che sei andato a vedere i feriti, - mi disse, - non ne è morto nessuno stanotte?
- Quello zoppo vuole acqua.
- Andiamo a portargliela, - mi rispose.
Quando entrammo nel magazzino i feriti sembravano assopiti.
- Questo è il peruviano, - disse indicando quello che aveva chiesto l'acqua. - Ehi, tu, apri gli occhi, non vuoi rinfrescarti un po'?
Quando il soldato apri gli occhi, mio padre che allungava il braccio lo trattenne.
- Credo di essermi sbagliato, questo è l'equatoriano. Cavolo, ieri me l'hanno detto ognuno di dov'era, ma me lo sono scordato. Di dove sei?
Il soldato non rispose: si limitava a guardare il bicchiere che mio padre reggeva in mano.
- Prendi, - disse, - poi mi dirai di dove sei. Il soldato bevve e riadagiandosi sul cuscino si girò contro la parete e si mise a dormire.
- Chiedilo all'altro, - dissi.
L'altro aveva aperto gli occhi e ci fissava o cercava di fissarci come se fossimo ombre o incubi. Aveva le guance incavate sotto i pomuli e il mento gli cascava come accennando a un sorriso.
- Tu sei peruviano? - chiese mio padre.
Il soldato apri di piú la bocca, sembrava che stesse per ridere, come i moribondi del camion, ma disse soltanto una parola che non capimmo.
- Che diavolo dice? - chiese mio padre. - Sembra che abbia un nodo alla lingua. Aspettiamo che arrivino gli infermieri per riconoscerli. Loro sanno di dove sono.
Gli infermieri vennero solo nel pomeriggio. Avevano un gran da fare e dissero che le medicine stavano finendo. Quando li portammo nel magazzino trasformato in infermeria, esaminarono i feriti. Misero a tutti e due un termometro nell'ano e gli misurarono la pressione.
- Questo qui forse può guarire, - disse uno degli infermieri indicando quello con la gamba ferita. - Ma l'altro credo che se ne andrà.
Nel dirlo lo scopri per farcelo vedere; aveva un tampone di ovatta rossa sotto l'ascella e il lenzuolo era tutto macchiato di sangue.
- Questo è il peruviano? - chiese a mio padre. Gli infermieri si guardarono, consultarono i cartellini e fissarono mio padre sconcertati.
- Lei non lo sa? In questo trambusto si sono persi i documenti di identità. Lo controlleremo all'ospedale.
Il giorno dopo la radio disse che gli equatoriani avevano capitolato: era stata una guerra lampo. Ci fu una parata nella città e obbligarono noi scolari a sfilare con una bandierina peruviana in mano. La sera ebbe luogo una cerimonia nel municipio e mio padre parlò in nome della difesa civile. Nel frattempo i feriti, dimenticati, continuavano ad agonizzare in casa nostra.
Per un disguido della burocrazia militare questi feriti non figuravano in nessuna lista e le autorità cercavano di disfarsene. Nel tripudio dell'armistizio, i moribondi erano come i parenti poveri, come i difetti fisici, cose da nascondere e da dimenticare perché nessuno possa mettere in dubbio la bellezza della vita. Mio padre era andato varie volte all'ospedale perché venisse un medico, ma mandarono solo ogni tanto un infermiere che entrava in casa a fargli un'iniezione e se la squagliava subito, come dopo aver commesso una canagliata. Dopo una settimana i feriti facevano parte dello scenario di casa. Mio fratello aveva perso interesse per loro e preferiva andare a cacciare colombacci lungo le spiagge e mia madre, rassegnata, considerava la presenza dei soldati, tra una giaculatoria e un'altra, come una pena in piú da scontare.
Una mattina ebbi un'enorme sorpresa: entrando nel magazzino trovai uno dei soldati alzato. Quello con la ferita alla gamba era in piedi, appoggiato contro la parete. Vedendomi entrare indicò il compagno.
- Sta morendo, signorino. Tutta notte ha pianto. Dice che non ce la fa piú.
Quello col braccio ferito sembrava dormire.
- Me ne vorrei andare, ora, signorino, - prosegui, - io sono dell'Equatore, della sierra di Riobamba. Quest'aria mi fa male. Già posso camminare. Piano piano me ne andrò camminando.
Mentre parlava fece qualche passo zoppicando nel magazzino.
- Datemi un pantalone. Già mi è passata la febbre. Lasciatemi andare, signorino.
Siccome avanzava verso di me mi spaventai e uscii di corsa. I miei erano andati al porto a comprare pesce fresco perché quella sera c'era una cena in onore di Marcos. Il soldato usci nel corridoio e di lí continuava a chiamarmi. Per fortuna mio fratello Javier rientrava in quel momento.
- Ora so quale è l'equatoriano, - gli dissi, indicando il corridoio. - Dice che vuole andarsene!
Vedendo il soldato Javier cercò la fionda nella tasca.
- Tu sei nostro prigioniero, - gridò. - Non sai che abbiamo vinto la guerra. Torna in camera!
Il soldato esitò un attimo e rientrò nel magazzino appoggiandosi alla parete. Javier avanzò nel corridoio e mise il paletto alla porta. Poi mi guardò.
- Monterò la guardia, - disse. - Di qui non scapperà nessuno.
Molti personaggi in vista della città furono invitati alla cena di quella sera, tra loro il comandante della zona e un equatoriano che era padrone del "Chimborazo", il piú grande caffè di Paita. Marcos, che frequentava molto il locale, aveva voluto che lo invitassero perché disse che era una cena di "fratellanza". Nel bel mezzo della cena si sentirono delle grida nel magazzino.
Dopo un attimo d'interruzione gli invitati ripresero le loro chiacchiere. Ma siccome le grida si ripeterono, mio padre si alzò.
- Abbiamo dei feriti, - disse scusandosi. - Vado a vedere che succede. Uno è paesano suo come ho saputo stamattina.
L'equatoriano fece finta di niente e riempi il bicchiere al comandante mentre la conversazione si riannodava. Io mi alzai per andar dietro a mio padre.
Entrando nel magazzino accendemmo la luce: il peruviano aveva buttato all'aria le lenzuola ed era steso di traverso sul pagliericcio muovendo in aria le gambe come se facesse ginnastica. Ma bastava guardargli la faccia per capire che quei movimenti erano indipendenti da lui, come se avesse un altro uomo nel tronco.
Papà si abbassò per tenergli le gambe e il ferito lo afferrò, con la mano sana, per la cravatta. I suoi occhi lo fissavano con terrore. Le sue labbra cominciarono a muoversi e vi uscivano così alla rinfusa le parole come un canto senza fine.
- Cosa vuoi? - gli chiedeva papà. - Vuoi acqua? Vuoi un po' di aria? Ma parla in spagnolo se vuoi farti capire! Di Jauja, si, lo so che sei di Jauja, però che posso farci?
Il ferito continua a parlare in quechua. Papà usci di corsa e si diresse in sala da pranzo.
- Qualcuno di voi sa il quechua? - sentii che chiedeva.
Marcos rispose qualcosa e gli invitati si misero a ridere. Mio padre riapparve. Il moribondo aveva smesso di muovere le gambe e le sue parole erano sempre piú lente.
L'equatoriano che se n'era stato tutto il tempo sotto il lenzuolo, tirò fuori la testa.
- Vuole scrivere una lettera, - disse.
- Come lo sai?
- Capisco, signore.
Papà lo guardò sorpreso.
- Lui e io parliamo la stessa lingua.
Mio padre mi mandò a prendere carta e matita. Quando fui tornato disse all'equatoriano:
- Dettami, ma chiaro, in modo che possa scrivere parola per parola.
Papà cominciò a scrivere. Aveva il naso rosso come quando beveva. L'altro soldato gli dettava.
- Nel recinto ci sono tre cavalli, dice... il cavallo del tenente, dice... piaga sull'anca del cavallo del tenente, dice... con la spazzola dice... nella cucina dice...
Mio padre smise di scrivere per fissare l'equatoriano. Costui si era alzato a sedere sul pagliericcio e fissava attento la bocca del ferito.
- Colica gli è presa dice... diarrea al tenente, il pozzo vicino al fiume... è caduto nel pozzo il cavallo del tenente dice... Tulio, Tulio, dice...
- Chi è Tulio? - chiese mio padre.
- Viva i patrioti! - gridò qualcuno nella sala da pranzo.
- Chiudi bene la porta, - mi ordinò papà.
- Tulio è suo fratello, - disse il soldato. - Continui: non ce la faccio piú dice... il cavallo del tenente nei campi, dice... nei campi veloce cavallino dice... cavallino di tutti i colori, cavallino bello dice... ahi povera mia pancia dice... ahi colica al tenente gli è presa, sciolta dice... al galoppo sto correndo dice... Nei campi corre dice... non ce la faccio piú dice... diarrea dice... diarrea gli è presa al tenente dice... diarrea diarrea...
Il moribondo smise di parlare e ricominciò a muovere le gambe. Mio padre gliele afferrò. Sentimmo un fetore. Vedemmo che il pagliericcio cominciava a imbrattarsi. Il soldato se l'era fatta addosso. Quando papà gli sollevò la testa per i capelli vedemmo che rideva. Era morto.
Restammo tutti e tre zitti. Papà raddrizzò il soldato e lo copri con la coperta. Poi fissò il foglio che aveva scritto e lo lesse e rilesse varie volte.
- Bisognerà mandarlo, - disse, - ma a chi? A che scopo?
Piegò in quattro il foglio e se lo mise in tasca. Nella sala da pranzo qualcuno lanciava evviva a Marcos.
- Quando potrò andarmene? - chiese l'equatoriano. - Quest'aria mi uccide, signore. Già posso camminare.
Mio padre non gli rispose. Rientrammo nella sala da pranzo dove stavano servendo il dolce. Il padrone del "Chimborazo" stappava una bottiglia di champagne che aveva portato in regalo.
- Che è successo? - chiese mia madre sottovoce, vedendo che mio padre se ne stava in piedi accanto alla tavola col naso piú paonazzo che mai.
- Niente, - rispose e si sedette al suo posto, fissando la medaglia fiammante che brillava sul petto del comandante.

 



L'armadio, i vecchi, la morte

L'armadio che c'era nella stanza di papà non era un mobile, ma una casa dentro la casa. Ereditato dai suoi nonni, ci aveva perseguitato di trasloco in trasloco, gigantesco, ingombrante, fino a trovare il suo posto definitivo nella stanza da letto paterna.
Occupava quasi la metà della stanza e arrivava praticamente al soffitto. Quando papà non c'era i miei fratelli e io vi entravamo dentro. Era un vero palazzo barocco, pieno di conchiglie, fregi, cornici, medaglioni e colonnine, tutto intagliato fin negli ultimi recessi da qualche ebanista folle dell'Ottocento. Aveva tre scomparti, ognuno con una propria fisionomia. Quello di sinistra aveva una porta pesante come quella di un atrio, con una serratura a cui era appesa una chiave enorme che già di per sé era un giocattolo proteiforme perché lo usavamo indifferentemente come pistola, scettro o bastone. Li dentro papà conservava gli abiti e un cappotto inglese che non si mise mai. Era il luogo obbligato d'ingresso in quell'universo che odorava di cedro e di naftalina. Il corpo centrale che era quello che piú ci incantava per la sua varietà, aveva nella parte inferiore quattro enormi cassetti. Quando papà mori, ognuno di noi ereditò uno di quei cassetti stabilendo su di essi una potestà altrettanto gelosa di quella che papà esercitava sull'intero armadio. Al di sopra dei cassetti c'era una nicchia con una trentina di libri scelti. Il corpo centrale finiva con una porta alta e quadrata, sempre chiusa a chiave, che non sapemmo mai cosa contenesse, forse quelle carte e fotografie che ci si trascina dietro dalla gioventú e che non si distruggono nel timore di perdere parte di una vita che in realtà è già persa. Ultimo, lo scomparto di destra, aveva un'altra porta rivestita di uno specchio scanalato ai bordi. All'interno aveva, sotto, dei cassetti per le camicie e la biancheria e sopra, uno spazio senza mensole dove entrava una persona in piedi.
Lo scomparto di sinistra comunicava con quello di destra, mediante un passaggio in alto, situato dietro la nicchia. Perciò uno dei nostri giochi preferiti era entrare nell'armadio dalla porta di legno e riapparire dopo un po' dalla porta a specchio. Il passaggio in alto era un rifugio ideale per giocare a nasconderella. Quando lo sceglievamo nessun amico riusciva mai a trovarci. Sapevano che eravamo nell'armadio, ma non immaginavano che ne avevamo scalato l'architettura e che eravamo distesi nel suo scomparto centrale come in una bara.
Il letto di mio padre era situato proprio di fronte allo scomparto di destra, di modo che, quando si raddrizzava sugli enormi cuscini per leggere il giornale, si vedeva nello specchio. Allora diceva: "Lì si specchiava don Juan Antonio Ribeyro y Estrada e si annodava la farfalla prima di andare al Consiglio dei ministri" o " Lì si specchiava don Ramón Ribeyro y Alvarez del Villar prima di andare a far lezione all'università di San Marcos" o "Quante volte ho visto mio padre, don Julio Ribeyro y Benites guardarsi lì quando si preparava per andare a fare un discorso al Congresso". I suoi antenati erano imprigionati lì in fondoallo specchio. E lui li vedeva e vedeva la propria immagine sovrapposta alla loro, in quello spazio irreale, come se di nuovo, insieme, vivessero per un miracolo lo stesso tempo. Mio padre entrava, attraverso lo specchio, nel mondo dei morti, ma consentiva anche ai suoi avi di accedere, attraverso lui, al mondo dei vivi.


Eravamo estasiati dai talenti di quell'estate, coi suoi giorni sempre chiari e accessibili al piacere, tutta giochi e felicità. Mio padre che da quando si era sposato aveva smesso di fumare, di bere e di frequentare gli amici, si mostrò piú amabile e siccome gli alberi del piccolo orto avevano dato i loro frutti migliori, splendidi a vedersi, e finalmente in casa si era riusciti ad avere un vasellame decente, decise di ricevere ogni tanto qualcuno dei suoi vecchi amici.
Il primo fu Alberto Rikets. Era la copia di mio padre, ma in formato ridotto. La natura si era data la pena di editare quel calco, per precauzione. Avevano lo stesso pallore, la stessa magrezza, gli stessi gesti, le stesse espressioni. Lo si doveva al fatto che avevano studiato nella stessa scuola, letto gli stessi libri, passato le stesse notti di baldoria e patito la stessa lunga e dolorosa malattia. In quei dieci dodici anni che non si erano visti, Rikets aveva fatto fortuna lavorando indefessamente in una farmacia che ormai era sua, a differenza di mio padre che solo a prezzo di duri stenti era riuscito a comprare la casa di Miraflores.
In quei dieci dodici anni Rikets aveva fatto qualcos'altro: un figlio, Albertito, che portò con sé in occasione della visita. Siccome i figli degli amici raramente riescono a stringere amicizia, accogliemmo Albertito con diffidenza. Lo trovammo rachitico, tardo e in certi momenti francamente idiota. Mentre mio padre passeggiava con Alberto in giardino mostrandogli l'arancio, il fico, i meli e le viti, noi portammo Albertito a giocare in camera nostra. Siccome non aveva fratelli, ignorava molti dei nostri giochi familiari e collettivi e si mostrò maldestro nell'impersonare il ruolo dell'indiano e ancora di piú nel cadere morto sotto i colpi dello sceriffo. Aveva un modo poco convincente di morire ed era incapace di capire che una racchetta da tennis poteva essere anche una mitragliatrice. Perciò rinunciammo a condividere con lui il nostro gioco preferito, quello dell'armadio, e ci dedicammo a quei piccoli passatempi meccanici che abbandonavano ognuno alla sua sorte, la corsa delle macchinine sul pavimento o la costruzione di case con i cubi di legno.
Mentre giocavamo aspettando l'ora di pranzo, vedevamo dalla finestra mio padre e il suo amico che ora erano nel giardino, perché era arrivato il turno di ammirare la magnolia, i gerani, le dalie, i garofani e le violaciocche. Da anni mio padre aveva scoperto le delizie del giardinaggio e la verità che la forma di un girasole o lo sboccio di una rosa racchiudono. Perciò i giorni liberi, invece di passarli come una volta in faticose letture che lo facevano meditare sul senso dell'esistenza, li dedicava a lavori semplici come innaffiare, potare, innestare, togliere le erbacce, cose che però faceva con una vera passione intellettuale. Il suo amore per i libri si era spostato sulle piante e i fiori. Tutto il giardino era opera sua e come un personaggio volterriano era arrivato alla conclusione che la felicità consistesse nel coltivarlo.
- Un giorno di questi mi comprerò a Tarma non un fazzoletto come questo, ma un vero podere e allora vedrai, Alberto, allora sí, cosa sono capace di fare, - sentimmo che diceva mio padre.
- Caro Perico, invece che a Tarma, a Chaclacayo, - gli rispose l'amico, alludendo alla sontuosa villa che si stava costruendo in quel posto, - il clima è quasi lo stesso e sta solo a quaranta chilometri da Lima.
- Sì, ma mio nonno è vissuto a Tarma, non a Chaclacayo.
Sempre i suoi antenati! E gli amici di gioventú lo chiamavano Perico.


Albertito fece andare la macchinina sotto il letto, si ficcò li sotto per cercarla e allora lo sentimmo lanciare un grido di vittoria. Vi aveva scoperto un pallone da football. Fino a quel momento, noi che facevamo fatica a intrattenerlo, non sapevamo che avesse una mania segreta, un vizio da bambino decrepito e solitario che consisteva nel dar calci a un pallone di cuoio.
L'aveva già tirato fuori dalla rete e stava per colpirlo, ma lo fermammo. Giocare nella stanza era una pazzia, farlo in giardino ci era espressamente proibito, quindi non c'era altra soluzione che uscire in strada.
Quella strada era stata scenario di drammatiche partite che anni prima avevamo giocato coi fratelli Gómez, partite che duravano quattro cinque ore e che finivano col buio pesto, quando non vedevamo piú le porte né gli avversari e si trasformavano, le partite, in una lotta di fantasmi, in una battaglia feroce e cieca in cui si ricorreva a ogni sorte di imbrogli, di abusi e di infrazioni. Mai nessuna squadra professionista ha messo come noi in quelle partite di ragazzi, tanto odio, tanto accanimento e tanta vanità. Perciò, quando i Gómez cambiarono casa, abbandonammo per sempre il calcio, niente avrebbe potuto eguagliare quegli incontri e lasciammo il pallone sotto il letto. Finché lo trovò Albertito. Se voleva giocare a calcio, gliene avremmo fatto fare una scorpacciata.
Facemmo la porta vicino al muro di casa cosi il pallone vi rimbalzava e mettemmo Albertito in porta. I primi tiri li parò con bravura. Ma poi lo bombardammo con cannonate rasanti per il piacere di vederlo a terra, stiracchiato, vinto.
Poi toccò a lui tirare e io passai in porta. Per essere un rachitico aveva un calcio di mulo e riuscii a parare il primo tiro, ma mi fecero male le mani. Il secondo tiro, in angolo, fu un gol perfetto, ma il terzo fu un vero prodigio: il pallone mi passò tra le braccia, superò il muro, passò tra i rami del gelsomino rampicante, saltò una siepe di cipressi, rimbalzò sul tronco dell'acacia e scomparve nei meandri della casa.
Per un po' aspettammo seduti sul marciapiedi che il pallone ci fosse restituito dalla cameriera, come di solito accadeva. Ma non compariva nessuno. Mentre stavamo muovendoci per andare a cercarlo, si apri la porta di servizio e usci mio padre col pallone sotto il braccio. Era piú pallido del solito, non disse niente, ma lo vedemmo dirigersi deciso verso un operaio che avanzava fischiettando sul marciapiede di fronte. Arrivatogli vicino, gli mise il pallone tra le mani e rientrò in casa senza degnarci di uno sguardo. L'operaio ci mise un po' ad afferrare che il pallone gli era stato regalato e quando l'ebbe capito, spiccò una tale corsa che non ce la facemmo a raggiungerlo.
Dall'aria abbattuta di mia madre che ci aspettava sulla soglia per chiamarci in tavola, supponemmo che era successo qualcosa di molto grave. Con un gesto imperioso ci ordinò di entrare in casa.
- Come avete potuto fare questo? - fu l'unica cosa che ci disse quando le passammo vicino.
Ma notando che una delle finestre della stanza da letto di papà, l'unica che non aveva l'inferriata, era socchiusa, sospettammo quello che era successo. Albertito, con un calcio maestro, che mai piú né lui, né altri avrebbero ripetuto, era riuscito a far descrivere al pallone una traiettoria insensata che malgrado i muri, gli alberi e le inferriate, aveva raggiunto lo specchio in pieno cuore.


Il pranzo fu angoscioso. Mio padre incapace di sgridarci alla presenza del suo invitato, macerava la collera in un silenzio che nessuno osava interrompere. Solo al momento del dolce mostrò una certa condiscendenza e raccontò alcuni aneddoti che risollevarono tutti. Alberto lo imitò e il pranzo fini tra le risate. Ma questo non cancellò l'impressione generale che quel pranzo, quell'invito, quelle buone intenzioni di mio padre di riannodare le vecchie amicizie - tentativo che non si ripeté - erano stati un solenne fiasco.
I Rikets se ne andarono presto, con nostro grande terrore, perché temevamo che mio padre ne approfittasse per castigarci. Ma la visita lo aveva stancato e senza dir niente se ne andò a fare la siesta.
Quando si svegliò ci fece chiamare in camera sua. Era riposato, placido, riverso sui grandi cuscini. Aveva fatto spalancare le finestre perché entrasse la luce del crepuscolo.
- Guardate, - disse, indicando l'armadio.
Era davvero una pena. Perdendo lo specchio il mobile aveva perso la sua vita. Dove prima c'era il cristallo ora restava solo un rettangolo di legno scuro, uno spazio opaco che non rifletteva e non diceva nulla. Era come una laguna splendente in cui l'acqua si fosse all'improvviso essiccata.
- Lo specchio in cui si guardavano i miei antenati, - sospirò e ci fece subito cenno di uscire.
Da allora mai piú lo sentimmo parlare dei suoi avi. La scomparsa dello specchio li aveva automaticamente fatti scomparire. Il suo passato smise di tormentarlo e cominciò stranamente a protendersi verso il futuro. Forse perché sapeva che presto sarebbe morto e non gli serviva piú lo specchio per ritrovare i suoi avi, non nell'altra vita, perché non credeva, ma in questo mondo che ormai lo soggiogava come una volta i libri e i fiori: il mondo del nulla.





(Racconti tratti da Niente da fare, Monsieur Baruch, Einaudi editore, Torino, 1972.)




Julio Ramón Ribeyro, peruviano, è stato uno dei grandi protagonisti della letteratura latino americana del Novecento.




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