Un po' alla maniera di Cartesio

- Un'intervista con Julio Ramón Ribeyro -


Jorge Coaguila

 


"Signor Ribeyro perché si mostra restio davanti ai giornalisti?"
"In realtà per due motivi: il primo è che la maggior parte dei giornalisti che vengono a intervistarmi non sanno niente di letteratura. Il secondo, perché credo di aver già detto tutto, perché vengono sempre con le stesse domande. Sono stufo di rispondere alle stesse cose: Come scrive?, Perché scrive?.."

"Però sono molti i ragazzi che non hanno l'opportunità di leggere le interviste che le hanno fatto anni fa."
"È vero. La miglior cosa sarebbe che si pubblicasse un libro; perché ho tante interviste, alcune su riviste o su pubblicazioni che ormai sono scomparse. Una volta una nipote mi fece vedere pile di ritagli…

"Questo libro di cui parla; perché non lo pubblica con un solo giornalista che le chiede di tutto?"
"Per cosa, se ci sono già delle interviste, se ciò che ho detto è già lì"

"Ma a volte cambia idea."
"Ah, bene, questo è un pericolo."

"Per esempio tempo fa voleva scrivere un romanzo innovatore. Confessò che pretendeva: "Scrivere un romanzo d'avanguardia, con carattere sperimentale, destinato a forgiare un nuovo linguaggio e una nuova forma di espressione." Questa era la sua intenzione."
"Ah, certo, questa era un'intervista che mi fecero nel 1960 per La gazzetta di Lima. 1960, quanti anni sono passati, siamo nel 1991, trentuno anni."

"Devono essere migliaia le interviste che ha concesso."
"No mille no. Saranno cento, diciamo, o forse poco più."

"Allora mille le ha rifiutate".
"Si" (Ride).

"Inoltre rifugge anche la pubblicità".
"Perché non mi piace promuovere un libro in tutto il mondo dopo la pubblicazione. In questo senso non mi sento tanto pressato dai miei editori come Alfredo Bryce e Mario Vargas Llosa."

"Si considera allora un solitario, un lupo delle steppe?"
"No, altrimenti non avrei né una moglie né un figlio. Sebbene, certo, non ho molti amici come, per esempio, Alfredo Bryce. Non può immaginarsi la quantità di amici che ha in ogni posto, amici che lo adorano."

" Non le risulta paradossale che lei, il meno pubblicizzato, abbia la maggiore preferenza dai lettori?"
"Non lo so. A volte si deve al fatto che le persone che mi leggono sentono propria questa atmosfera di frustrazione, di disadattamento, di marginalità che caratterizza le mie narrazioni. Forse perché i lettori soffrono delle stesse delusioni e umiliazioni, forse perché nei miei racconti non ci sono vincitori."

"Tuttavia negli ultimi scritti ha cambiato temi. Non crede che questo abbia causato il decadimento di questi ultimi racconti?."
"Non credo, certo la tematica è cambiata ma perché avevo già trattato gli altri temi. Gli argomenti ai quali lavoro attualmente non sono più gli argomenti decadenti, di enorme gravità, ma sono più riflessivi. D'altra parte, non credo che questi ultimi racconti siano scritti male, anzi."

"Con tutto rispetto per la sua tecnica, non crede che le è mancato Faulkner per avere maggiori prospettive?"
" La verità, non ho letto William Faulkner, o meglio il poco che ho letto mi è risultato molto peso. Io non mi vergogno di dirlo. In tal caso sarebbe peggio mentire e dire che l'ho letto."

"Faulkner, al suo tempo, fu un autore che dovevano leggere i giovani scrittori. Quale o quali scrittori crede che si devono leggere ora?"
"Non lo so. Non leggo i libri alla moda".

"Un attimo fa si è riferito alla frustrazione. Non si considera una persona frustrata?"
"No perché ho realizzato quello che volevo. Ho voluto viaggiare in Europa, pubblicare libri, sposarmi con la donna che amo, avere un figlio, avere una casa a Barranco e un'altra in Europa, e l'ho avuto. No, non mi sento frustrato. Sebbene non ci ho messo l'impegno che altri ci mettono."

"Allora quale è il suo maggior orgoglio?"
(Breve silenzio) "Essere riconosciuto per strada quando cammino da qualcuno, da una coppia di innamorati che dicono: "Guarda, quello è Ribeyro". Dal garzone dell'hotel Bolívar, da un tassista. (Nuova pausa). Provo una certa soddisfazione."

"Sebbene, l'ho letto da qualche parte, desidererebbe passare inosservato. Non c'è qualcosa di contraddittorio in quello che dice?"
"Si, mi piace passare inosservato, ma mi lusinga essere riconosciuto. Come si può spiegare questo? Io preferirei, in ogni caso, passare inosservato."

" A lei, quando era giovane, non le piaceva o cercava di conoscere gli scrittori che aveva alla sua portata come Ciro Alegría, José María Arguedas…?"
"No, mai."

"Tuttavia, più tardi, ha conosciuto Borges."
"Come fa a saperlo?"

"Lo ho letto in un' intervista degli anni sessanta. C'era un'intervista a Borges, che era stato in Germania, dove era stato anche lei."
"Si, fu nel 1964. Fui invitato, come molti altri scrittori, al Congresso per la Libertà della Cultura. C'erano anche Miguel Ángel Asturias, Guimarães Rosa, Eduardo Mallea, Günter Grass, Ciro Alegría e Roa Bastos. (Si tocca la faccia con la mano destra). Ricordo che c'erano due partiti: uno con Borges e l'altro con Asturias. Mentre Asturias si metteva a parlare della letteratura impegnata, Borges, invece, parlava dell'estetica e non gli prestava attenzione. Asturias era un demagogo. Tutto questo era molto buffo, vero?"

"E lei in che fazione stava?"
" Un momento ero in un banco e l'altro in un altro. Ricordo anche che in questa occasione arrivò un telegramma che diceva che il romanzo di Vargas Llosa La città e i cani era stato bruciato nel cortile del Collegio Militare. Messi al corrente, Roa Bastos ed io redigemmo una protesta e tutti gli scrittori presenti la firmarono. E' l'unico documento in cui appaiono insieme le firme di Borges e Asturias. Ma questo documento non si rese pubblico perché Mario disse che non ce n'era necessità."

"Lei ha firmato altri documenti, anche politici. Ne ho letto uno in cui appare la sua firma con quelle di Sartre, Simone de Beauvoir, Vargas Llosa e altri contro la cattura di Hugo Blanco."
"Può essere, ho firmato talmente tante cose che non me le ricordo tutte. A volte quando era già tutto redatto e venivano da me e mi chiedevano di firmare, non potevo farci niente perché il mio nome era ormai nella lista, allora accettavo per semplice amicizia. (Sorride).

" In ogni caso lei viene sempre legato alla sinistra."
"Non sono di sinistra, sebbene abbia avuto abitudini e comportamenti di sinistra. Per esempio, ho appoggiato la guerriglia del 64, di Javier Heraud, o la guerriglia del 65, di Guillermo Lobatón, Paul Escobar e altri. Mi ricordo che a Parigi, Guillermo Lobatón disse che era arrivato il momento di decidere: di andare a combattere. Tutti alzarono la mano, meno io. (Sorride nuovamente). Ma che dovevo fare; io non ho spirito da soldato. Nonostante, Guillermo Lobatón, che inoltre fu mio compagno all'Università, mi disse: "Non ti critico, potrai servire qui." Erano più o meno trenta quelli che alzarono la mano, ma era solo per pura facciata, poiché alla fine furono solo cinque, i cinque che morirono. Gli altri alzarono la mano solo per fare i grandi."

"E che fece nel Maggio del '68?"
"Beh, a quel tempo lavoravo alla France-Presse, e dovevo andare al lavoro nel bel mezzo di uno sciopero generale. Non c'erano né metro, né autobus, né taxi, percui dovetti andare a piedi in ufficio, a dispetto dello sciopero. Per la strada era tutto un caos, agitazioni e cortei studenteschi ovunque, la polizia che mi fermava ad ogni passo perché mostrassi i miei documenti. Fu terribile."

"Anche in un certo ambito vi ha vincolato l'aprismo quando avete ricevuto l'Orden del sol?"
"Questa poi, sono aprista?"

"No, le volevo dire che le critiche furono dure."
"Ah, si qualcuno mi disse che era meglio che buttassi via la medaglia."

"Mi dica Signor Ribeyro, perché lei che aveva tanti amici nell'Università di San Marco, non studiò lì?"
"Perché nell'Università Cattolica l'ambiente era più tranquillo, senza scioperi, con poca politica. Se frequentavo La Casona era per farmi degli amici e parlare poi con loro nei bar. Di questo gruppo facevano parte Washington Delgado, Eleodoro Vargas Vicuña, Alberto Escobar, Carlos Eduardo Zavaleta, Alejandro Romualdo, Pablo Guevara, Francisco Bendezú, Pablo Macera e Carlos Germán Belli, al quale non piaceva molto bere. Invece l'Università Cattolica era molto seria per me."

"Ha studiato in quella Cattolica a dispetto del fatto che un suo parente sia stato rettore dell'Università San Marco?"
"Ne avevo due, il mio bisnonno e il mio trisavolo. Si, a dispetto di questo, ma credo che il poco che ho imparato è stato in Europa. "

"Illuso della patria? Perché continua a vivere a Parigi?"
"Perché lì vivono mia moglie, mio figlio, che è di nazionalità francese; perché è là che vivo da trenta anni."

"Ha già trovato la spiaggia in Perù dove passarci del tempo?"
"No la sto ancora cercando." (Sorride).

"D'altra parte, lei ha plasmato una generazione. Oggi è un'altra cosa, forse questa generazione chiede nuovamente la sua voce."
"Sa, questa Lima mi richiederebbe molto tempo; dovrei vivere di nuovo qui. Questa Lima la conosco in maniera superficiale, quindi non sarebbe possibile, inoltre ora ho altri temi."

"Come giurato del concorso del racconto Juan Rulfo. Qual è il bilancio dell'attuale narrativa ispanoamericana?"
"Beh, le dirò che ci sono racconti molto belli, eccellenti racconti, eccellenti racconti all'altezza di qualsiasi scrittore di fama. Ma c'è un fatto curioso, il 50 per cento, (dei duemila o tremila lavori che si presentano), sono di scrittori argentini, ai quali seguono i messicani e i colombiani. Sebbene, in una occasione, vinse il peruviano Rodolfo Hinostroza, che per essere precisi non è un narratore, ma bensì un poeta."

"Come si mette con il concorso "Il racconto delle mille parole"?"
"Bene, l'anno passato ero membro della giuria e le posso dire che il concorso non ebbe un livello come quelli anteriori. Gli altri membri sostennero la stessa cosa."

"Finalmente, Signor Ribeyro, quando apparirà il tanto aspettato quarto volume de " La parola del muto"?"
"Non lo so. Anche Carlos Milla, il mio editore, me lo sta richiedendo. Quello che voglio è che si stampi con la stessa qualità di fogli, di formato e di copertina con la quale si fecero gli altri tomi. Questo attualmente è una cosa difficile da fare. Così siamo in trattative. Spero che esca presto, perché ho già quasi pronto il materiale."

"Su "Motti di Luder" non ci sono sue dichiarazioni. Inoltre è un'opera molto poco diffusa, vero?"
"Posso dirle il perché. La metà dell'edizione fu inviata a Parigi come paga per i diritti d'autore. È ancora là, la conservo in un guardaroba."(Sorride)

"500 esemplari, vero?"
"Sì, più o meno. Non so se gli esemplari stampati furono 500 o mille. So solo che mi inviarono la metà dei libri pubblicati."

"Crede che questo libro sia un'evoluzione di "Prose apolidi" o una disgregazione di questo libro?"
"No, non ha niente a che vedere con "Prose apolidi"."

"Ma entrambi usano il tono pessimista, filosofico."
"Sì può essere. Ma, ovviamente, in "Prose apolidi" i testi sono un poco più sviluppati, un pò più lunghi e, inoltre, sono le mie riflessioni, direttamente mie. I testi di "Motti di Luder",invece, sono repliche, risposte, affermazioni, "motti" infatti. Il problema è che non ho trovato la formula che corrisponde al francese "propos" o "les propos". In Europa c'è una grande quantità di libri di questo tipo. Per esempio: "Les propos de Valery, Les propos de Sartre" che sono piccole frasi che gli stessi autori hanno detto."

"Aforismi?"
"Non solo aforismi. Possono essere anche battute, osservazioni originali, idee o paradossi. Nel caso di "Motti di Luder" ci sono cose che ho detto e cose che ho ascoltato da altri scrittori, come Julio Cortázar o Pablo Neruda."

"D'altra parte, con il racconto "Silvio ne El Rodendal", non crede di iniziare un'altra tappa narrativa? Ossia, una tappa più riflessiva, più personale, dove, forse, abbandona i temi decadenti della prima epoca."
"Beh, in fondo i temi sono di minore attualità, è vero, e più personali, più intimi; non sono come quelli dei primi racconti. Diciamo che nelle prime narrazioni, in maggioranza, se facciamo eccezione di tutti i primi scritti in prima persona, sono racconti di temi in cui parlo di altri personaggi, non parlo di me stesso…"

"Questa stessa tonalità…"
"Lei dirà che "Silvio ne El Rosendal" è scritto in terza persona, ma Silvio è, più o meno, una rappresentazione, un mio delegato, io, in fondo, sono una specie di Silvio."

"Questo tema lo continuerà nel quarto tomo de "La Parola del muto"?"
"No, il quarto tomo avrà, consterà di varie parti. (Breve silenzio). C'è una serie di racconti come "Assente per tempo indefinito" nei quali il personaggio è uno scrittore. E c'è anche una serie di racconti sul quartiere mirafiorino di Santa Cruz, un quartiere dove ho vissuto durante la mia infanzia e gioventù. Questi ultimi racconti sono composti da vari punti di vista, da vari stili e perfino da varie epoche. Ormai risulta un po' abusivo il titolo generale dei miei racconti, La parola del muto, perché sono tutt'altra cosa. Ma ho fatto bene a tenere conto di questo titolo. Perché originariamente, come dico nel prologo del primo tomo, La parola del muto è la parola della gente che non ha la possibilità di esprimersi. Mentre ora è la mia voce, è la mia che si è trasformata in questo. La parola del muto, quarto tomo, sono io. Il muto che era zitto e che, all'improvviso, parla e appare con nuovi temi."

"Attualmente, si sta dedicando a scrivere o a correggere?"
"Sto sia scrivendo che correggendo. In special modo sugli anni quaranta nel quartiere di Santa Cruz, e su quello di Miraflores dello stesso periodo."

"Con rispetto nell'usare temi più intimi, i critici a riguardo dicono che questo può corrispondere alla crisi dello scrittore, che non ha altre prospettive, che ormai non ha altre possibilità di parlare."
"È possibile, non lo metto in dubbio. Ma ho sempre creduto che lo scrittore veramente geniale è colui che scrive qualsiasi cosa, dimenticandosi delle proprie esperienze, della propria vita. Che posso dirle: sulle crociate, su Platone, su qualcosa che è accaduto in Afganistan o in Giappone. Questo è lo scrittore veramente epico, che inventa, che tira fuori dal niente. Mentre il tipo che attinge dall'interiore, dalla propria vita, dalla propria esperienza, è uno scrittore lirico, minore, vero?, di minor peso, di minore entità, ma allo…"

"Ma…?"
"Ma allo stesso tempo, come ogni cosa ha la sua controparte, come ogni argomento ha il suo controargomento, ci sono grandi scrittori che hanno trattato interamente la propria vita; è il caso di Proust. Effettivamente, Proust non ha fatto altro se non scrivere su se stesso, dalla prima alla ultima riga."

" A quale libro si riferiva quando diceva di essersi pentito di averlo letto durante la sua gioventù? Allo scadente de La commedia umana?"
"No, La Commedia Umana, mai. Mi sono pentito di aver letto…"

"Thommas Mann?"
"No, Thommas Mann no. Credo si trattasse di Goethe, del Romanzo d'apprendimento, che è veramente noiosissimo."

"Riferendoci al suo scetticismo: Quando iniziò? Quando ne prese coscienza?"
"La verità, io credo che a forza di chiedermelo e di dirmelo ho finito per crederci. (Ride). Scettica è una persona che dubita e che pensa che sia molto difficile arrivare alla conoscenza della verità. Se si pensa così, forse, sono uno scettico. Sebbene ci siano persone molto più rigorose che, diciamo, non credono in niente, in tal senso io non sono così, perché io in qualcosa credo."

"Ma dubita sempre."
"Sì, sì. Il dubbio sempre…"

"Come dono?"
"No come metodo. Un po' alla maniera di Cartesio."

"Molto razionalista, non è vero?"
"Sì."

"e per lei chi è Ribeyro?"
"Ribeyro? Però che domanda difficile. Questa è una bella domanda, per dirlo dovrei finire un libro, con più precisione la mia autobiografia che sto scrivendo da tempo. Forse avrò la risposta finale quando terminerò il libro."

"Non le sembra che il suo silenzio lo renda famoso?"
"No, ma ha contribuito."

"Non si crea un'aura mitica?"
"È possibile. Per questo, se voglio mantenere quest'aura mitica, non mi conviene concedere interviste molto lunghe."

Proprio in questo momento arriva la fotografa, seguita da due compagne del quotidiano. Julio Ramón dice: "venite avanti" e poi mi chiede: "Chi sono?". Gli spiego che una di loro è fotografa e le altre due, sue ammiratrici. Julio Ramón si agita, sorride e dice: "Mi dispiace ma tra poco ho da fare." Lily Saldaña, la fotografa, mi chiede di aprire le tende per fare alcune pose in controluce e, mentre tiro il cordone, chiedo a Julio Ramón: "Dove eravamo rimasti?". Mentre Lily, continua a scattare, Julio Ramón dice: "Ah, stavo dicendole che sto, che mi stanno privando della mia marginalità e che stanno maltrattando la mia aura di uomo solitario, di uomo che non concede interviste. Può essere, ah. Questa è la ultima volta…"

"Questa è l'unica intervista che ha concesso in queste settimane?"
"L'unica in tutto l'anno." Sento che l'intervista è sul punto di finire.

"Non si sente un po' privato, (gli domanda il mio amico Luis Bullón, che fino a quel momento non aveva parlato), di cose che vuole fare, di potersi comportare come un normale mortale?"
"Io mi comporto come un normale mortale quando sono in incognito", risponde sorridendo.

" A Parigi, (interviene nuovamente Luis Bullón), si sente più a suo agio?"
"Ah, a Parigi, certo, nessuno mi conosce." Risponde.

"A dispetto di Alfredo Bryce" dico "che andò da Parigi a Barcellona perché lo infastidivano molto."
"Si, dice Julio Ramón, ma lo vanno a infastidire persino a Barcellona. Ha già lasciato anche Barcellona, ora vive a Madrid."

"L'emigrazione a Parigi" chiedo, "non le sembra che sia un segno del fracasso culturale dell'America Latina?"
"No, non credo" dice, mentre scherza con la fotografa. "Ci sono molti scrittori e forse i migliori scrittori peruviani mai usciti da Lima o dal paese, o che in ogni caso, hanno viaggiato poco in Europa. Posso citare il caso di Martín Adán, che è dopo Vallejo, il più grande poeta peruviano, credo che abbia viaggiato una sola volta ad Arequipa e Cusco, inoltre già da vecchio. Ma quasi non si mosse da Barranco o da Larco Herrera. Il caso di José María Arguedas è un altro. Arguedas è uno scrittore che ha fatto la sua opera in Perù, nonostante abbia vissuto alcuni mesi in Spagna grazie ad una borsa di studio e nonostante abbia realizzato conferenze in Francia, Germania e altri paesi. Sebbene abbia avuto influenze molto marcate dell'ambiente culturale di altri paesi, Arguedas ha scritto tutta la sua opera in Perù."

"D'altra parte, le darebbe fastidio essere considerato Filosofo?"
"No", risponde Julio Ramón.

"Si crede filosofo?"
"Credo di sì. Se definisce il filosofo come un uomo che cerca la ragione delle cose e, logicamente, come amante della Saggezza, credo di sì, sì mi piacerebbe…"

"Un Platone peruviano?"
"Un Platone sarebbe un orgoglio, una gloria per me."

"Nella narrativa peruviana, facendo delle comparazioni, forse lei è un Hemingway, un Vargas Llosa, un Faulkner."
"Un Hemingway?"

"Per la chiarezza e la semplicità."
"È un giudizio di valori?"

"No. Quello che voglio dire è che lei è il polo opposto, diciamo così, di Vargas Llosa nella tecnica narrativa, come fece Hemingway con Faulkner."
"Non creda. In Hemingway c'è una tecnica, una gran tecnica che non si nota molto, che non si percepisce abbastanza. Ma io non conosco molto Hemingway, non lo conosco molto bene. Ho letto dei suoi racconti, alcuni romanzi, non tutti; ma chi lo conosce veramente bene è Alfredo Bryce, che è un fanatico di Hemingway. Alfredo dice che c'è una tecnica nell'opera di Hemingway dalla quale ha appreso moltissimo. (Breve silenzio). Hemingway è un po' un narratore che descrive comportamenti, poiché i suoi personaggi sono sempre in azione. Hemingway non si mette a spiegare quello che pensa un personaggio, mai, ma lo fa agire. Hemingway ha racconti geniali, come il caso de "Gli assassini". Per esempio ci sono personaggi che parlano mentre agiscono, ma non si fermano a pensare. Il lettore si accorge dei personaggi per mezzo dei loro atti e non per le descrizioni. Io non so se in Alfredo Bryce si nota questo. Dovrei rileggere i libri di Alfredo Bryce per vedere se c'è una presenza di Hemingway, se narra stati d'animo o solo azioni."

"Il cambiare continuo di temi non crede che le causi una minore accettazione nei lettori perché ormai parla generalmente solo dei suoi problemi?"
"No, no, no. Molte volte mi hanno chiesto, amici e critici, perché non continuo a scrivere racconti come i primi tempi, che è quello che piace al lettore. A me non importa, che ci posso fare, io non scrivo per far piacere al lettore."

"E i critici le interessano?"
"Mi interessano poco. Como posso dirle? Leggo libri di critica, ma per gli autori che mi interessano. Ho letto una quantità considerevole di libri sulle opere di Flaubert, Stendhal o Kafka questi libri si mi interessano un po', ma che scrivano su di me, no."

"Che differenza trova tra i critici peruviani e i francesi o gli europei?"
"Io credo che i critici peruviani seguono con un certo ritardo le tendenze della critica europea o straniera. Quello che è di moda, voglio dire. Non citerò nomi, ma c'è chi segue ancora il metodo di Roland Barthes, Georg Luckács, Lucine Goldmann…"

"Di Sartre?"
"Anche di Sartre."

"Sartre la influenzò molto?"
"No."

"No? Neppure nel sociale?"
"No."

"Neppure nell'impegno?"
"No."

"Anatole France?", intervenne il mio amico Luis Bullón.
"Anatole France probabilmente più di Sartre. Anatole France è uno scrittore che ora non legge nessuno, è completamente dimenticato. Ma ora, curiosamente, in Francia c'è una specie di rinascimento di Anatole France. Voglio dire che si sta ristampando i suoi libri in edizione tascabile, perché era tempo che non si pubblicavano più. Si dovevano cercare nelle vecchie librerie. Ora, come ho già detto, stanno uscendo anche in forma di libri tascabili. La gente lo legge con interesse perché è un grande scrittore, un grande prosatore, un uomo come Sartre, se vuole, del secolo XIX: molto impegnato nel sociale, nel suo caso con il caso Dreyfus."

"Come lo fu Proust"
"Ma Proust difese Dreyfus perché era ebreo come lui, ossia, per ragioni consanguinee."
(Lily Saldaña continua a scattare e Julio Ramón si mette in piedi per qualche posa.)

"Una delle cause del successo", dice il mio amico Luis Bullón, "che hanno i suoi racconti si deve al fatto che lei è molto accessibile ad ogni tipo di pubblico, non solo a quello elitario ma anche ad uno non molto iniziato alla letteratura. Qualsiasi lettore capisce molto bene e si diverte molto con i suoi racconti."
"Ah, sì questo sì. Accessibili sono i miei racconti, non io. No, la verità, lo sono anch'io."

"Ha un senso molto speciale dell'humor", interviene nuovamente Bullón, "dell'ironia e dell'assurdo. Credo che sia un dono, non si può imparare. Sembra che lei ce l'abbia."
"Sì, in ogni caso", dice Julio Ramón, "nei miei racconti, nei miei libri c'è un aspetto che è percepito molto poco dai critici ed è appunto l'humor. Tutti mi considerano uno scrittore molto cupo, molto ascetico, molto tragico; ossia molto pessimista, quando, invece, secondo me, ci sono cose molto divertenti. Io mi diverto molto quando scrivo."

(Sapevamo tutti che erano gli ultimi momenti, perciò gli chiedemmo un ultimo disturbo: che, per favore, ci dedicasse (a Luis Bullón e a me), Prose Apolidi; ognuno di noi aveva portato una copia. Julio Ramón prese una penna e:)

"Deve sembrarle", commentò Luis Bullón, " molto superficiale questo tipo di cortesia. Ma anche lei deve averlo fatto da giovane?"
"Ah, sì,sì. Ho dediche importantissime."

"Quali ad esempio?"
"Ho libri con dediche di John Steinbeck, Samuel Beckett, Gabriel García Márquez, Julio Cortázar."

"E dei Peruviani?"
"Dei peruviani tutti."

"Fu uno scherzo quello del libro firmato da Ciro Alegría che lei scambiò con le sigarette?", disse Luis Bullón.
"Ah, sì questo lo racconto "Solo ai fumatori". E' stata una mia esagerazione." (Sorride)

"Era molto carino", disse Bullón. "Dovette aumentare il teatro di Antón Chéjov. (Julio Ramón sta firmando i nostri libri.) "Ultimamente ha un interesse personale per qualche scrittore?", aggiunse Bullón. "Milan Kundera, per esempio, ha letto niente di lui?"
"Sì."

"Che le sembra?", disse Bullón.
"È buono, eh. Sebbene un po' manierista."

"Sulla morte di Graham Greene, cosa può dire?", gli chiesi.
"Niente. (Pausa). L'altra volta, un gruppo di giornalisti da Parigi, mi chiese per telefono: "Ascolti, che ne pensa lei del Premio Nobel concesso a Octavio Paz?" (Gesti con la mano) Non penso niente, risposi. (Risate). Per cosa? Cosa vogliono che dica? "Ah, che fortuna, è un alto onore per l'America Latina?", stupidaggini."

"Mantiene, comunque sia" disse Bullón, "una piccola speranza che le attribuiscano questo premio?"
"No, è molto difficile."

"Qualche volta" chiese nuovamente Bullón, "la pensò come una possibilità, sebbene molto remota?"
"No, il ricevere il Premio Nazionale di letteratura è sufficiente."

"E quello delle Asturie? Quello di Cervantes?", gli dissi.
"No, non credo. (Breve silenzio). Bene, ragazzi, credo che sia tutto."

Julio Ramón aveva fatto parlare il muto. Era il momento di andarcene. Lo ringraziammo per la sua attenzione. Provai una forte emozione, indimenticabile, quando strinsi la sua mano e quando lo vedemmo, con gentilezza e cortesia, chiudere la porta del suo dipartimento. Più tardi, quando eravamo in viaggio con la macchina del quotidiano, felice e contento, aprii le Prose Apolidi e lessi: A Jorge Coaguila, che mi ha tormentato per ore facendomi domande sulla pubblicazione de "Il peruviano", con affetto, Julio Ramón."

1991





(Traduzione di Samanta Catastini)





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