LA MIA VITA DA GIORNALISTA (2)


Cläre M. Jung



Attraverso la pubblicazione della rivista "Gegner" (L'Avversario), nel 1932 entrammo in contatto con Harro Schulze-Boysen, il quale divenne ben presto il nostro collaboratore piú attivo e infine l'editore unico della rivista, che assunse il sottotitolo "per una nuova unità".
Tra i piú stretti collaboratori del "Gegner" c'era lo scrittore Adrien Turel, che a quel tempo avevo accolto a casa mia. Nella serie di scritti del "Gegner" era uscito un suo opuscolo dal titolo "Diritto alla rivoluzione".
Il 1 aprile 1933 Harro Schulze-Boysen e alcuni suoi collaboratori vennero arrestati in seguito a un'azione della Gestapo contro la nostra rivista, e quella sera stessa una grossa macchina con una formazione armata di SA si fermò davanti a casa mia. Io guardavo dalla finestra, trepidante per le persone oggetto di quella 'invasione'. Quindi udii lo strepito di otto persone circa che salivano le scale. Credevo già che il pericolo fosse passato quando il campanello cominciò a squillare indiavolato. Contemporaneamente sentii i calci delle armi da fuoco bussare alla porta. Appena aprii fui assalita dagli SA venuti ad arrestare Turel. In pochi minuti ripulirono la stanza che abitava a casa nostra, ammucchiando i suoi libri e manoscritti al centro della stanza.
Mentre veniva arrestato Turel restò assolutamente tranquillo. Io feci notare al capo dell'orda che Adrien era cittadino svizzero e il suo arresto avrebbe avuto spiacevoli conseguenze per loro. L'uomo replicò: "lo sappiamo, è per questo che tra noi ci sono un paio di agenti di polizia che vigilano affinché non succeda niente". Portarono Turel e le sue cose all'automobile. Quindi il nostro appartamento subí la sua prima ispezione.
Mentre quella notte stessa e il mattino successivo discutevamo sul da farsi e prendevamo contatto con tutte le persone possibili per aiutarlo, Turel venne riportato a casa in automobile insieme a tutte le sue cose. A quel tempo non si osava ancora mettere le mani addosso a un cittadino svizzero, mentre Schulze-Boysen venne invece arrestato e pesantemente maltrattato per settimane. Quando venne a trovarci dopo il rilascio, ci mostrò le cicatrici sulla schiena dovute alle scudisciate.
Da quel momento in poi le ispezioni furono all'ordine del giorno, e la posta e il telefono ovviamente sotto controllo. Solo grazie alla prudenza imparata alla pluriennale scuola della clandestinità, riuscii a districarmi e a farmi valere durante le convocazioni presso diversi organi addetti al controllo della stampa, e piú di una volta rischiammo la chiusura della corrispondenza e l'arresto.
Il mio piú stretto collaboratore era lo scrittore Felix Scherret, un tempo critico del "Vorwärts", i cui romanzi di impronta sociale, in particolare il libro "Götter stürzen" (Abbattere gli dei), lo esponevano a forte rischio. Per molto tempo riuscimmo a spedire materiale informativo agli amici dei "Resoconti verdi" di Praga.
Anche con il "Deutscher Korrespondenz-Verlag", edito dal Dott. Alexander Schwab, scambiavamo continuamente i nostri servizi per la stampa. Schwab, con il quale avevamo già collaborato strettamente nei primi anni rivoluzionari 1918-20, era attivo in quell'anno 1936 in un gruppo della resistenza della Ruhr, a cui forniva informazioni per la propaganda contro Hitler. Allorché venne scoperta una tipografia clandestina a Dortmund, saltarono fuori i contatti di Berlino, e Schwab e Franz Jung vennero arrestati.
Siccome Schwab prendeva il materiale informativo per la propaganda clandestina direttamente dal ministero dell'industria, avrebbe dovuto essere condannato a morte per 'tradimento', ma venne piú tardi 'graziato' a otto anni di Lager a Börgemoor. Morí poco tempo prima che finisse di scontare la sua pena.
Il giorno dopo il suo arresto, comparvero da noi ancora una volta quattro uomini della Gestapo: ispezione! Frugarono per ore scaffali, atti, archivi, incartamenti, interrogandoci continuamente. Questa volta sembrava che ne andasse del Deutscher Feuilleton Dienst. "Avete pubblicato qualcosa sulle Olimpiadi?" Quell'estate del 1936 si erano svolte a Berlino le Olimpiadi, e l'occasione era stata utilizzata da resistenti autoctoni e stranieri per un incontro clandestino. Tirammo fuori le nostre cartelle che contenevano notizie su eventi sportivi e culturali. Sembravano non trovarci niente di sospetto!
"Conoscete il Dott. Alexander Schwab?"
A quel punto l'interrogatorio si faceva minaccioso. Anche se non erano riusciti a dimostrare una nostra complicità attiva, avevano il sospetto (e a ragione) che fossimo a conoscenza dell'utilizzo illegale delle nostre informazioni. Alla fine uno degli agenti della Gestapo fece un ultimo tentativo: "Avete altro materiale stampato?" Gli mostrammo un soppalco con tutte le annate arretrate della nostra corrispondenza! Ma siccome intanto si avvicinava l'ora di pranzo, l'uomo disse: "No, è troppo, non mi si può pretendere questo!" E cosí, dopo averci lanciato un paio di oscure minacce, gli uomini della Gestapo se ne andarono. Per avere almeno qualcosa in mano contro di noi, si portarono via qualche incartamento.
Il terrorismo crescente dei nazisti negli anni 1942-43 aveva spinto anche uno dei nostri collaboratori ebrei al suicidio. Fu proprio in quel periodo che una delle nostre impiegate ebree chiese di parlarmi. "Nei prossimi giorni ho la possibilità di essere portata in automobile ad Aquisgrana insieme a mia sorella", disse "da lí possiamo scappare in Belgio. Ci mancano solo i documenti..."
Per me si trattava di una richiesta impossibile da ignorare, un'esigenza interiore a cui non potei sottrarmi. "Ovviamente puoi prendere la mia carta d'identità, se ti può aiutare", risposi. In nessun momento ero in dubbio sulle conseguenze che ci sarebbero state per me se si fosse scoperto il fatto. Presi il mio documento e glielo porsi.
La collega restò sorpresa dalla rapidità della mia decisione e cercò a sua volta di spiegarmi i rischi di cui mi facevo carico. Ma io li conoscevo bene.
"Dovete solo pensare a non commettere errori", dissi porgendole tutto il portafoglio: il documento con la foto e l'impronta digitale, insieme ad altre carte che uno normalmente porta con se, una busta da lettera con il mio indirizzo, la tessera della biblioteca e una carta alimentare scaduta da tempo. Anche quello lo avevamo imparato nei lunghi anni di clandestinità. Lei intascò tutto con gratitudine. "E non scrivete lunghe lettere", aggiunsi "è sempre pericoloso. Solo una cartolina quando siete arrivate, un saluto e nient'altro. Cosí saprò che siete in salvo."
Seguí un periodo duro per me, poiché la fuga delle ragazze non era riuscita. Solo dopo mesi ricevetti una loro cartolina di saluti. Era la pura lotta per una vita che cercava scampo all'annientamento, in un'epoca di innumerevoli morti.
Il "Deutsche Feuilleon Dienst" venne poi chiuso nel 1944. Nel luglio del 1945 io e Felix Scherret cominciammo a lavorare come redattori per la radio berlinese. Scherret venne impiegato nel suo campo, il giornalismo scientifico, nel quale poteva far valere le sue conoscenze sui risultati della ricerca sovietica.
Nel mio ruolo di caporedattrice della sezione di 'politica culturale', ho avuto modo di offrire all'Unione della Cultura un piú vasto raggio d'azione con la serie "La voce dell'Unione della Cultura", trasmessa due volte al giorno dal Berliner Rundfunk e dal Deutschlandsender. Inoltre fui l'iniziatrice della trasmissione "Ora di beneficenza per l'azione 'salvate i bambini`", che raccolse dal settembre 1945 al marzo 1946 cinque milioni di marchi. Dal 1952 collaborai al Feuilleton Presse Dienst (del Berliner Verlag) ed entrai nella redazione della rivista "Patria Berlinese", edita dall'Unione della Cultura.
Il giornalismo: per tutta la mia vita non è stato solo un mestiere, bensí una vocazione autentica, un'attività che può essere d'aiuto per cambiare il mondo.

Dattiloscritto proveniente dall'archivio privato di Stefan Ret.






Traduzione di Antonello Piana




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