IL PRIMO BACIO

- Brano tratto dal romanzo Essere senza destino -


Imre Kertész

 



(...) Tra l'altro con lei mi sono cacciato in una situazione bizzarra. E successo venerdì notte, durante l'allarme aereo. Nel rifugio, più precisamente in un corridoio buio e abbandonato delle cantine, che si diparte da lì. In origine le volevo soltanto mostrare che da quel punto è molto più interessante seguire quello che succede fuori. Ma quando, un attimo dopo, abbiamo sentito una bomba scoppiare non lontano da lì, Annamaria ha cominciato a tremare in tutto il corpo. Sono sicurissimo, perché dallo spavento si è avvinghiata a me buttandomi le braccia intorno al collo e ha affondato la faccia sulla mia spalla. E poi ricordo solo di aver in qualche modo cercato la sua bocca. Ho avvertito un contatto tiepido, umido, piuttosto appiccicoso. Sì, e poi una sorta di felice stupore, perché era il primo bacio che davo a una ragazza, e perché non avevo proprio contato di farlo in quel posto.
Ieri, sulle scale, ho scoperto che anche lei era rimasta piuttosto sorpresa. "È colpa della bomba," ha detto. In fondo ha ragione. Dopo ci siamo baciati ancora e allora ho imparato da lei come rendere ancora più efficace questa esperienza, ovvero assegnando per l'occasione un certo ruolo anche alla lingua.
Anche questa sera sono stato di nuovo con lei nell'altra stanza, per osservare i pesciolini ornamentali dei Fleischmann: anche prima li andavamo a guardare spesso. Ma questa volta, ovviamente, non siamo andati di là solo per i pesci. Anche le nostre lingue hanno avuto la loro parte. Ma poco dopo siamo tornati di là perché Annamaria temeva che lo zio e la zia potessero fiutare la faccenda. Più tardi, parlando con lei, sono venuto a sapere alcune cose interessanti riguardo i suoi pensieri su di me: mi ha detto che non avrebbe mai immaginato che io potessi "un giorno diventare per lei qualcosa di più" che semplicemente "un buon amico". All'inizio, quando mi aveva conosciuto, mi considerava un ragazzino. Più tardi, così mi ha confessato, mi aveva osservato più attentamente, ed era stato allora che si era destata in lei una specie di comprensione nei miei confronti, forse - riteneva - perché avevamo un destino simile per via dei genitori; e da qualche mia osservazione aveva dedotto che su certe cose la pensavamo allo stesso modo; ma più di questo non aveva certo potuto immaginare. E andata avanti ancora per un attimo a riflettere su quanto sia strano e poi ha detto: "Evidentemente doveva succedere così". La sua faccia ha assunto un'espressione singolare, quasi seria, e io non ho assolutamente contraddetto il suo parere, anche se sono più d'accordo con quanto aveva detto ieri, ovvero che era stata colpa della bomba. Ma naturalmente io non posso saperlo, e poi avevo l'impressione che a lei piacesse di più così. Poco dopo ce ne siamo andati, perché domani mattina io devo andare al lavoro, e quando le ho dato la mano lei con l'unghia mi ha inferto un dolore piccolo e acuto. Ho capito che intendeva alludere al nostro segreto e la sua faccia pareva dire: "Tutto a posto".
Il giorno dopo, però, si è comportata in modo piuttosto strano. Il pomeriggio, infatti, dopo che ero tornato a casa dal lavoro e mi ero lavato, mi ero cambiato la camicia e le scarpe e mi ero ravviato i capelli con il pettine bagnato, siamo andati dalle sorelle - perché Annamaria nel frattempo è riuscita a presentarmi in quella casa, come aveva già in mente di fare. Anche la loro madre mi ha accolto cordialmente. (Il loro papà è al lavoro obbligatorio.) Hanno un appartamento molto bello, con un balcone e tappeti, alcune camere piuttosto ampie e una più piccola e separata per le ragazze. Questa è arredata con un pianoforte, numerose bambole e altre cose di gusto femminile. Di solito giochiamo a carte, quella volta la sorella maggiore non ne aveva voglia. Prima voleva parlarci di un problema, una questione sulla quale ultimamente torna spesso: perché la stella gialla per lei è un bel grattacapo. A dire il vero, solo "lo sguardo della gente" le ha fatto notare il cambiamento - perché ritiene che la gente sia cambiata nei suoi confronti, negli sguardi legge che la "odiano". Ha detto di averlo percepito anche quella mattina, nell'andare a fare la spesa per sua madre. Ebbene, a me sembra che il suo modo di vedere sia un po' esagerato. Almeno le mie esperienze non sono uguali alle sue. Anche sul posto di lavoro, tra i capomastri, ci sono quelli noti perché non sopportano gli ebrei: nonostante ciò con noi ragazzi sono diventati abbastanza amici. Al tempo stesso questo naturalmente non implica che cambino opinione. Intanto a me era venuto in mente l'esempio del fornaio e allora ho cercato di spiegare alla ragazza che in realtà non è lei che odiano, non lei come persona - perché dopo tutto nemmeno la conoscono - ma piuttosto l'idea di "ebreo". Allora lei ha spiegato che proprio su questo aveva appena riflettuto, perché in fondo non sapeva nemmeno lei bene che cosa fosse. Annamaria le ha detto che lo sanno tutti: è una religione. Ma a lei non interessava questo, bensì il "senso". "In fin dei conti devi sapere per che cosa ti odiano," ha detto. Ha confessato che all'inizio non aveva assolutamente capito la questione ed era rimasta molto turbata nel vedersi disprezzata, "semplicemente perché sono un'ebrea": era stato lì che aveva provato per la prima volta che - è così che ha detto - qualcosa la separa dagli altri uomini e che appartiene a un luogo diverso. Dopo aveva incominciato a riflettere e aveva cercato di venirne a capo anche con l'aiuto di libri e discorsi, e così aveva compreso che proprio per questo veniva odiata. Perché è dell'avviso che "noi ebrei siamo diversi dagli altri", che questa diversità è l'essenziale e che per questo gli ebrei vengono odiati dagli altri uomini. Ha anche aggiunto quanto sia singolare per lei vivere "nella coscienza di questa diversità", che a volte le fa provare una specie di orgoglio mentre altre volte prova, semmai, un senso di vergogna. Poi ha voluto sapere da noi cosa ne pensiamo della nostra diversità, se ne siamo orgogliosi o piuttosto ce ne vergognamo. Sua sorella e Annamaria non sapevano bene. Anch'io, finora, non ho avuto motivo di provare questo genere di sentimenti. E in generale, non trovo che si possa semplicemente determinare da soli questa diversità: dopo tutto la stella gialla c'è proprio per questo, per quanto ne so io. E questo gliel'ho fatto notare. Lei però si è irrigidita: "La diversità ce la portiamo dentro". Secondo me, invece, è più importante quello che portiamo fuori. Ne abbiamo discusso a lungo, non so per quale motivo, giacché a dire il vero, io non ho capito bene perché la questione sia così importante. Ma c'era nel suo ragionamento qualcosa che mi irritava: secondo me è tutto molto più semplice. Va be', e poi volevo uscire vincitore da questo alterco, è naturale. Anche Annamaria sembrava di tanto in tanto voler dire qualcosa, ma non ci riusciva, perché noi due non le davamo più veramente retta.
Alla fine ho fatto un esempio. Talvolta, tanto per far passare il tempo, avevo riflettuto anch'io sulla questione e per questo adesso mi veniva in mente. Di recente avevo letto un libro, una specie di romanzo: un mendicante e un principe che, a prescindere da questa differenza, erano tanto simili di faccia e di aspetto da poterli confondere, per pura curiosità si scambiarono i destini, finché il mendicante diventò un vero principe e il principe un vero mendicante. Ho detto alla ragazza di provare a immaginare questo racconto adattato al suo caso. Non è una situazione probabile, è ovvio, ma possibile sì. Supponiamo che sia accaduto quando ancora era una bambina piccolissima, quando non sapeva né parlare né ricordare, e non importa come, ma supponiamo che fosse stata scambiata o che per caso fosse stata presa per la bambina di un'altra famiglia, di una famiglia i cui documenti, dal punto di vista della razza, erano ineccepibili: ebbene, in questo caso presunto. l'altra ragazza percepirebbe la diversità e naturalmente indosserebbe la stella gialla, mentre lei, sulla base di quanto noto sul suo conto, si vedrebbe - e naturalmente verrebbe anche vista dagli altri - uguale a tutti gli altri esseri e non avrebbe il più pallido sentore della sua diversità. Questa riflessione ha avuto effetto, per quanto mi è stato possibile vedere. La ragazza prima si è limitata a non dire niente poi, a poco a poco e tanto delicatamente che io quasi lo avvertivo, le sue labbra si sono schiuse come volesse dire qualcosa. Invece questo non è avvenuto, in compenso è avvenuto qualcos'altro e molto più sorprendente: è scoppiata in lacrime. Teneva la faccia affondata nella piega del gomito sul tavolo e le sue spalle continuavano a sussultare. Ero esterrefatto perché non era stata questa la mia intenzione e poi nel vederla così sono entrato in confusione anch'io. Mi sono chinato sopra di lei, ho cercato di sfiorarle appena i capelli, le spalle, il braccio, e intanto la pregavo di non piangere. Lei invece ha continuato a esclamare in tono duro, anche se la voce le cedeva, che se non c'entrava con la nostra essenza, allora era tutto puro caso e nient'altro, e se lei poteva essere un'altra da quella che invece le toccava essere, allora "niente ha più senso", e questo pensiero le riusciva "insopportabile". Ero imbarazzato, perché in fondo era colpa mia, ma non potevo sapere che per lei questo pensiero fosse così importante. Stavo già per dirle che non doveva dare tanto peso alla cosa, perché a mio modo di vedere tutto questo non aveva alcun significato, io non la disprezzavo per la sua razza; ma poi mi sono subito reso conto che sarebbe stato un po' ridicolo dirlo e così non ho detto niente. Però, non mi andava giù di non poterlo dire, perché in quel momento era proprio quello che sentivo, indipendentemente dalla mia situazione personale e del tutto spontaneamente, per così dire. Certo è possibile che in un'altra situazione forse anche la mia opinione sarebbe stata diversa. Non so. Del resto non potevo certo provarlo. Eppure ero in qualche modo turbato. E non so bene per quale motivo ma era la prima volta che mi succedeva di provare qualcosa di simile alla vergogna, credo.
Tuttavia soltanto dopo, sulle scale, ho avuto modo di capire che con quella sensazione, d'altra parte, dovevo aver ferito Annamaria, almeno così mi parve: infatti è qui che si è comportata in modo tanto bizzarro. Io le ho detto qualcosa e lei neppure mi ha risposto. Ho cercato di trattenerla per un braccio, ma lei si è divincolata lasciandomi lì fermo sulle scale.
Anche il pomeriggio seguente ho aspettato invano che venisse a cercarmi. E così non sono nemmeno potuto andare dalle sorelle, perché finora ci siamo andati sempre insieme, e quelle mi avrebbero sicuramente fatto delle domande. E soprattutto adesso capivo già meglio di che cosa aveva parlato la ragazza quel pomeriggio.
La sera, dai Fleischmann, finalmente è comparsa. All'inizio mi ha concesso solo poche parole; sperava che io avessi trascorso un bel pomeriggio con le sorelle, così ha detto, e i suoi lineamenti si sono sciolti un poco solo quando le ho risposto che non ero affatto salito da loro. Ha voluto sapere perché no, allora le ho risposto la verità, che non avevo voglia di andarci senza di lei: mi è parso che anche questa risposta le fosse piaciuta. Dopo qualche tempo era persino disposta a venire con me a guardare i pesci - e da lì siamo tornati indietro riconciliati. Più tardi, nel corso della serata, ha fatto cenno ancora una volta a questa faccenda: "È stato il nostro primo litigio," ha detto così.





(Brano tratto dal romanzo Essere senza destino, Feltrinelli, Milano, 1999, traduzione di Barbara Griffini.)


Imre Kértesz, scrittore unghesere, Nobel per la Letteratura 2002.

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