1977: LA SCOPERTA DELLA MEDIATICITÀ


Lucia Annunziata



(...) Il movimento del '77 nasce con un'acuta consapevolezza dei media. O meglio, nasce all'interno dei media e con i media al suo interno.
La rivoluzione piú potente di quell'anno - e quella che per molti versi avrebbe avuto effetti piú lunghi - è proprio la scoperta e invenzione della mediaticità. La destrutturazione del linguaggio della comunicazione è anch'essa comunicazione.
La produzione intellettuale di quell'anno è monumentale, non solo per quantità ma per la continua sollecitazione che innesca. Delle radio e dell'uso dei quotidiani abbiamo detto. Va aggiunta la sperimentazione: la piú interessante e proficua è quella che nasce dalla rivista "Attraverso" fondata da un collettivo di cui facevano parte Franco Berardi (Bifo), Stefano Saviotti, Maurizio Torrealta e che si rifà ad Antonin Artaud e alla sua teoria del linguaggio corporale, alla separazione dell'arte nella vita del processo rivoluzionario, dell'intelligenza tecnico-scientifica. La rivista è un modello per molte altre che ne riprodurranno il linguaggio, e di cui la barra separativa è ancora oggi il simbolo. C'è poi "Zut", rivista dada-situazionista romana, curata da Angelo Pasquini, che usava parodia e paradosso come destrutturazione: il gruppo di "Zut" crea il Cdna (Centro diffusione notizie arbitrarie), incaricato di diffondere notizie inventate di sana pianta capaci talvolta di produrre eventi veri.
Nello stesso filone ci sono poi " Oask ? ! " degli indiani metropolitani, la napoletana "Wam" e la romana "Abat/Jour". I Circoli del Proletariato giovanile avevano invece "Viola", nata nel 1976, rivista dura della rabbia giovanile underground. Nel marzo 1977 le si affianca "WoW" di Dario Fiori, presentata come "il foglio dei circoli proletari giovanili in decomposizione", e si reclamò "WoW totoista" in critica al maoismo ancora imperante in molte altre esperienze, inclusa "A/tra-
verso". L'elenco è sterminato: ogni gruppo tendeva a fare comunicazione in proprio, per delimitare strettamente la propria area.
Lo stesso atteggiamento privatistico si ritrova nei consumi culturali: una ricerca di separatezza assoluta dai sentieri della cultura maggioritaria, anche di quella ribelle nata nel '68. Il movimento fa suoi alcuni "testi" classici della controcultura, come quelli della protesta pacifista e radicale americana, da Bob Dylan ai Fugs, i Jefferson Airplane, Country Joe, Frank Zappa, Joni Mitchell e il supergruppo Crosby, Stills, Nash e Young; ama i cantautori in rotta di avvicinamento all'impegno politico, come Francesco Guccini (fin dai primi testi scritti per i Nomadi) o Fabrizio De André e ancora Francesco De Gregori o per altri versi Edoardo Bennato. Ma canta soprattutto la canzone militante, di lotta, intrecciata strettamente alla canzone popolare - anche di sapore internazionalista, basti ricordare gli Inti Illimani.
Il repertorio basico è costituito dagli autori classici già colonna sonora degli anni sessanta: Ivan Della Mea, Paolo Pietrangeli, Giovanna Marini, Gualtiero Bertelli. "E chi può affermare che un sampietrino non fa arte?", scriveva Ivan Della Mea. "Può servire De Gregori? Non ho dubbi: che cominci però anche lui a prendere le pietre, a guardare come sono fatte e a lanciarle. Irrobustisce il bicipite e l'accordo di chitarra si strappa piú duro". A metà degli anni settanta e quindi nel pieno del '77 questi autori saranno raggiunti da altri, come Claudio Lolli (Ho visto anche degli zingari felici) o il duo Ricky Gianco e Gianfranco Manfredi. Nessuno piú di Manfredi e Gianco saprà dare voce allo spirito del '77 con canzoni-manifesto come Zombie di tutto il mondo o Dagli Appennini alle bande (una sorta di mistica del clandestinismo), Ultimo mohicano ("...sampietrino in mano", proseguiva la canzone), Non si paga (un inno alle autoriduzioni nei cinema e ai concerti), Avanguardo (satira del perfetto militante di Pdup e Ao).
Nelle canzoni di Manfredi c'è la sintesi perfetta del '77: amore, violenza, sogno, allucinazione e una satira autoironica feroce, come nella canzone Compagno si, compagno no, compagno un cazzo. Oppure in Ma chi ha detto che non c'è: "Sta nel fondo dei tuoi occhi, sulla punta delle labbra, sta nel mitra lucidato, nella fine dello Stato, nella gioia e nella rabbia, nel distruggere la gabbia, nella morte della scuola, nel rifiuto del lavoro, nella fabbrica deserta, nella casa senza porta..."
Al cinema si guarda ancora Fragole e sangue di Stuart Hagman, realizzato nel 1969, vero film culto sul '68 a Berkeley. Ma a Roma è il tempo della fioritura dei cineclub, il Filmstudio, il Politecnico e l'Officina. Cinema d'autore e carbonaro, insomma. Nell'agosto 1977 il vulcanico Renato Nicolini dà vita alla rassegna cinematografica dell'Estate romana, nella Basilica di Massenzio, e realizza con successo un'operazione di ricucitura culturale tra generi: tra il cinema alto dei classici di Hollywood e del cinema italiano e quello degli horror di serie B, delle commedie scollacciate, dei polizieschi, dei peplum, degli spaghetti western.

Fra i libri spopola, accanto agli amatissimi Roland Barthes e Jürgen Habermas, ogni sorta di testo e libello dell'editore Savelli: da Porci con le ali al celebre In caso di golpe. Manuale teorico-pratico per il cittadino di resistenza totale e di guerra di popolo, di guerriglia e di controguerriglia, con prefazione del compagno Vincenzo Calò. Sottotitolo: Quello che i golpisti sanno già e che ogni democratico dovrebbe sapere.
Il movimento insomma è impegnato soprattutto a raccontare se stesso, per se stesso. Questa passione per la "fotogenia" di sé non è narcisismo, ma un atto rivoluzionario, anzi la rivoluzione in sé. Cos'altro sono infatti tutte queste invenzioni e sperimentazioni linguistiche, le esibizioni della violenza, se non l'anticipazione di "altro" attraverso la distruzione del presente per mezzo del linguaggio che lo rende reale? In quegli anni, scrive Aldo Bonomi, "molti compagni sono arrivati alla convinzione che occuparsi di comunicazione contenesse già un progetto. Significava comunicare un immaginario, fare propaganda all'interno dei processi di trasformazione in atto".
Ecco una differenza enorme con il '68, che si era anch'esso molto piaciuto, ma che non si era mai guardato: preferiva farsi guardare. Voleva essere "capito" e "ammirato", non per com'era, tuttavia, ma per quello che faceva. Il '68 aveva la missione di cambiare il mondo ed era dunque impegnato a infiltrarsi nei media per cambiarli (in questo senso non è un caso che quell'anno abbia prodotto una massa enorme di giornalisti). Il '77, che non crede nelle istituzioni e dunque nel cambiamento, è invece impegnato soprattutto a raccontarsi, come atto di affermazione di indipendenza dalle convenzioni di cui le istituzioni rappresentano l'organizzazione finale.
Un movimento che si specchia e si autorappresenta: che nessuno dunque può davvero raccontare, tanto meno capire.
In questa identità c'è il seme della follia: quello che gli altri, cioè la stampa, dicono del movimento diventa la comparazione fra quello che si vede di sé nel proprio specchio e quello che vedono gli esterni. Il '77 compra ossessivamente i giornali per leggere delle proprie manifestazioni, guarda la Tv per vedersi sfilare, ma ogni volta è una delusione, una deformazione: dalla mediazione del giornalista, persino di quelli molto vicini, rimane sempre deluso. Lo specchio dei media, per il movimento, è sempre deformante. I giornalisti infatti danno giudizi, scelgono, scrivono, riorganizzano la realtà. Il movimento vuole invece una rappresentazione continua e diretta: non a caso l'unica forma di narrazione giornalistica in cui si riconosce e che accetta è la rubrica delle lettere di "Lotta continua", cioè una sorta di flusso di autocoscienza ininterrotto, senza che nessuno ci metta le mani. E, a ben vedere, un desiderio che anticipa Internet e i blog - un po' come l'altro strumento popolare di allora, la radio.
Del resto, potrebbe essere altrimenti? I giornali sono istituzioni, e quale istituzione potrebbe comprendere il movimento ? I giornalisti dunque randellano (come "L'Unità"), aizzano (come il "Corriere"), denunciano (come il "Giornale Nuovo") e, soprattutto, spiano.



Tratto dal saggio 1977 - L'ultima foto di famiglia, Einaudi, Torino, 2007)

Lucia Annunziata


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