MACHADO DE LA MANCHA

Carlos Fuentes



Machado è un miracolo. E i miracoli, come dice Don Quijote a Sancho Pancha, sono cose che accadono di rado. Ma miracolo fatto neanche Dio lo può disfare. E, se un miracolo è raro, non sarà perché con esso si realizza qualcosa di diverso rispetto a quanto sempre o abitualmente accade? Nella letteratura ispano-americana del XIX secolo ci sono stati pochi miracoli, salvo la poesia, compagna fedele, a volte ombra, ma solo a volte, della letteratura scritta in castigliano nelle Americhe. Da Ercilia a Pablo Neruda (1904-1973), in Cile, da Sóror Juana (1648-1695) a Jaime Sabines (1926-1999), in Messico, le muse sono sempre state presenti come le messe. Nel XIX secolo, Rubén Darío (1867-1916) basta a provare tale fedeltà. Ce ne sono altri; il grande nicaraguense sarebbe di per sé sufficiente.
Ma se la poesia è la nostra compagna più fedele e di lunga data, nel XVIII secolo nasce una rivale che le contende il primato delle nostre passioni. Questa tardiva usurpatrice si chiama identità. In Spagna manifesta paradossalmente la propria seduzione grazie all'ansia di modernizzazione di re Carlos III e alla sua decisione di espellere i gesuiti "signori assoluti di cuori e coscienze di tutti gli abitanti di questo vasto impero ", come scrive il marchese di Croix, viceré della Nuova Spagna, a suo fratello, in una lettera privata, sebbene in pubblico si veda costretto ad appoggiare le ragioni della monarchia nei rapporti con le colonie :
"Una volta per tutte, i sudditi del grande monarca che occupa il trono di Spagna devono sapere che sono nati per stare zitti ed obbedire, e non per discutere, né per esprimere le proprie idee su ciò che concerne gli affari di stato".

Proclamazione delle identità. Il doppio discorso del viceré non fu in grado di nascondere altre due cose. La prima è la crescente urgenza ispano-americana di affermare un'identità propria. Nelle parole del gesuita Juan Pablo Viscardo y Guzmán, pronunciate nel 1792, quando si celebrava il terzo centenario della scoperta dell'America, "Il Nuovo Mondo è la nostra patria, ed è dentro di lei che dobbiamo analizzare la nostra situazione presente, per convincerci, attraverso essa, a prendere il partito necessario per la conservazione dei nostri propri diritti."
Viscardo y Guzmán scrisse queste righe durante il suo esilio londinese, ed illustra un altro fenomeno che accompagnò l'espulsione dei gesuiti: gli intellettuali della compagnia si vendicarono contro il re di Spagna scrivendo, dall'esilio, libri che proclamavano l'identità delle amate patrie lontane. Il padre Clavijero, a Roma, definisce l'identità messicana a partire da un'epoca ancora precedente all'arrivo di Hernán Cortés; padre Molina, anch'egli a Roma, scrive una storia nazionale e civile del Cile; proprio così, con tutte le lettere: nazionale e civile. Storia, geografia, società e nazione proprie: la definizione gesuita delle nazionalità ispano-americane le rafforza, le allontana dalla Spagna, ma anche dalla propria possibile unità; precipita il movimento d'indipendenza e propone agli scrittori del secolo delle indipendenze, il XIX, l'impegno di determinare la storia della patria, e così, di chiarificare l'identità nazionale. Per questo il XIX è un secolo di grandi storici, dal conservatore Lucas Alamán al liberale José María Luis Mora, in Messico, Diego Barros Arana e Benjamín Vicuña Mackenna, in Cile; Bartolomé Mitre e Juan Bautista Alberdi, in Argentina. È un secolo di educatori e interpreti dell'anima nazionale, come il venezuelano Andrés Bello, il portoricano Eugenio María de Hostos, l'ecuadoriano Juan de Montalvo, e l'argentino Domingo Faustino Sarmiento.
Metto in risalto tutto questo per ricordare che il secolo XIX ispano-americano è stato fecondo e, soprattutto, "Facundo". È Sarmiento (1811-1888) colui che eleva la congiunzione di identità e storia ad una forma superiore di prosa, allo stesso tempo analitica, descrittiva e romanzesca: Facundo può essere letto con tutti questi significati. È il nostro grande romanzo potenziale del secolo XIX, fotografia della terra, analisi della società, ritratto del "caudilho", monumento della lingua.
Accanto ad un'altra opera argentina, il poema di José Hernández (1834-1886), "Martín Fierro", costituisce il dittico delle migliori opere letterarie del secolo dell'indipendenza: a mio giudizio, la prosa di Facundo e l'epica di Martín Fierro allargano gli orizzonti dell'immaginazione e del linguaggio degli ispano-americani molto più della tradizione un po' povera del romanzo che allora si presentava come tale.
Questi romanzi possono essere considerati divertenti, come le avventure narrate dal messicano Manuel Payno, o pedagogici, come le cronache sociali del cileno Alberto Blest Gana, ma né Los bandidos del Río Fío , né Marín Rivas possono essere comparati con i grandi romanzi scritti nella America Spagnola nel nostro secolo, o con i libri che, come Facundo e Martín Fierro osarono scommettere sulla propria immaginazione e sul proprio linguaggio.
Il romanzo ottocentesco ispano-americano, al contrario, non si azzarda ad abbandonare una precettistica che costituisce l'ingannevole richiamo della modernità: prima il romanticismo, poi il realismo e infine il naturalismo. Il romanticismo, scrive Machado de Assis, è un cavaliere che stremò il suo proprio destriero "a un punto tale che, si è rivelato necessario metterlo in disparte, dove il realismo lo andò a pescare, divorato dalla miseria e dai vermi, e, per compassione lo trasportò dentro i suoi libri". Un destriero sfiancato. Un brioso cavallo spossato, divorato dalle piaghe e dai vermi. Qual è stato il suo nome originale? Ronzinante, Clavileño?
Perché la mediocrità del romanzo ispano-americano del secolo XIX non è estranea all'assenza di un romanzo spagnolo dopo Cervantes e prima di Leopoldo "Alas" Clarin e Benito Pérez Galdós. Occorrerebbero diverse notti per esporre i motivi di quest'assenza: voglio solamente registrare il mio stupore davanti al fatto che, nella lingua del romanzo moderno fondato ne La Mancha da Miguel de Cervantes, si siano avuti solamente frutti avvizziti, valli infertili. La Regenta e Fortunata y Jacinta ridanno vitalità al romanzo spagnolo, ma l'America spagnola dovrà ancora aspettare così come la Spagna aveva aspettato per Clarín e Galdós, per Borges e Astúrias, Carpentier e Onetti.
In compenso - e questo è il miracolo - il Brasile offre la propria nazionalità, immaginazione e lingua al più importante - per non dire l'unico - scrittore ibero-americano del secolo scorso: Joaquim Maria Machado de Assis. Cosa sapeva Machado che gli scrittori ispano-americani non sapevano? Perché il miracolo di Machado? Il miracolo si alimenta su di un paradosso: "Machado segue, in Brasile, la lezione di Cervantes, la tradizione de La Mancha, che per quanti siano stati gli omaggi ufficialmente e scolasticamente resi al "Quijote", è stata dimenticata dagli scrittori ispano-americano, dal Messico all'Argentina.
Questo sarà forse stato il risultato dell'ispanofobia che accompagnò le gesta dell'indipendenza e i primi anni di nazionalità? No, ripeto, se prendiamo in considerazione i riferimenti formali del discorso. Sì, è chiaro, se osserviamo il ripudio generalizzato del passato da parte della cultura indipendente: essere nero o indio significava essere barbaro, essere spagnolo significava essere reazionario; bisognava essere yankee o francese o inglese per essere moderno e, inoltre, per essere prospero, democratico e civilizzato.

Civiltà Nescafé. Le imitazioni assurde del periodo delle indipendenze si registrarono in una civiltà Nescafé: potevamo essere instantaneamente moderni abolendo il passato, negando la tradizione. Il genio di Machado risiede esattamente nel contrario. La sua opera è permeata da una convinzione: non esiste creazione senza una tradizione che la nutra, così come non esiste tradizione senza creazione che la rinnovi.
Ma neanche Machado contava sull'appoggio di una grande tradizione settecentesca, né brasiliana e neppure portoghese. Contava sì, sulla tradizione comune a noi, ispanofoni del continente, contava sulla tradizione di La Mancha. Machado la ricuperò, noi l'abbiamo dimenticata. Ma quella stessa non fu abbandonata dall'Europa post-napoleonica, l'Europa del grande romanzo realista e di costume, psicologico o naturalista, che va da Balzac a Zola, da Stendhal a Tolstoij? E la nostra pretesa di modernità non fu, in tutta l'area ispano-america, il riflesso di questa corrente realista che chiamerei di Waterloo, in contrapposizione alla corrente de La Mancha?
Milan Kundera, nel suo libro L'arte del romanzo, compiangeva, più di qualsiasi altra cosa, il cambio di rotta che interruppe la tradizione cervantesca - ripresa dai maggiori eredi, l'irlandese Lawrence Sterne e il francese Denis Diderot - a favore di una tradizione realista, che Stendhal descrive come il riflesso catturato da uno specchio progredendo lungo una strada e che Balzac conferma essere come il concorrente del registro civile.
E l'invito al gioco, al sogno, al pensiero, al tempo, esclama Milan Kundera in un capitolo intitolato L'eredità disprezzata di Cervantes, dov'è andato a finire? La risposta è se non miracolosa, sorprendente: sono andati a finire a Rio de Janeiro e sono rinate nella penna di un mulatto carioca, povero, autodidatta, che imparò il francese in una panetteria, che soffriva di epilessia, come Dostoevskij, che era miope, come Tolstoij e che nascondeva il suo genio dietro ad un corpo tanto fragile come quello dell'altro grande genio brasiliano, Aleijadinho, anche lui mulatto, ma oltre a questo lebbroso, che lavorava da solo e solamente di notte, per non essere visto. Ma qualcuno non ha già detto, a proposito del Brasile, che il paese cresce la notte, mentre i brasiliani dormono?
Machado no. Lui sta ben sveglio. La sua prosa è mattutina. Ma anche il suo mistero: un mistero solare, quello di uno scrittore americano di lingua portoghese e razza metticcia che, solitario come una statua barocca mineira (dello stato di Minas Gerais) del realismo ottocentesco, riscopre e rianima la tradizione di La Mancha contro la tradizione di Waterloo.
Cosa intendo per queste due tradizioni?

La Mancha e Waterloo. Storicamente, la tradizione di La Mancha è inaugurata da Cervantes come un contrattempo della modernità trionfante, un romanzo eccentrico della Spagna controriformista, obbligato a fondare un'altra realtà per mezzo dell'immaginazione e del linguaggio, dell'ironia, della mescolanza dei generi. Questa tradizione è continuata da Lawrence Sterne (1713-1768) con il suo Tristram Shandy, in cui l'accento cade sopra il gioco temporale e la poetica della digressione, e da Jacques Le Fataliste, di Denis Diderot (1713-1784), in cui l'avventura ludica e poetica consiste nell'offrire, quasi ad ogni linea, un repertorio di possibilità, un menù di alternative per la narrazione.
La tradizione di La Mancha è interrotta dalla tradizione di Waterloo, e questo a causa della risposta realista alla saga della Rivoluzione Francese e dell'Impero di Bonaparte. La mobilità sociale e l'affermazione individuale servono da ispirazione a Stendhal, e il suo Sorel legge di nascosto la biografia di Napoleone, per Balzac, il suo Rastignac è un Bonaparte dei salotti parigini, e per Dostoevsjij, il suo Raskolnikov ha un ritratto del grande corso come unico addobbo della sua mansarda pietroburghese. Romanzi critici, questa è la verità di quello che gli ispira: iniziata con il crimine di Sorel, le carriere ascendenti della società bonapartista toccano la cima con la falsa gloria della rivista Rastignac e si concludono con il crimine e la miseria di Raskolnikov.
Tra le due tradizioni, Machado de Assis, nato nel 1839 e morto nel 1908, rivaluta la tradizione interrotta di La Mancha e ci permette di contrastarla, in modo molto generale, con la tradizione di Waterloo.
La tradizione di Waterloo si afferma come realtà. Quella di La Mancha è consapevole di essere finzione, e non solo, si celebra come finzione. Waterloo offre spaccati di vita. La Mancha non ha altra vita al di fuori del suo testo, fatto nella misura in cui è scritto e letto.
Waterloo sorge dal contesto sociale. La Mancha discende da altri libri.
Waterloo legge il mondo. La Mancha è letta dal mondo.
Waterloo è seria. La Mancha è ridicola.
Waterloo si basa sull'esperienza: dice quello che già sappiamo. La Mancha si basa sull'inesperienza: dice ciò che ignoriamo.
Gli attori di Waterloo sono personaggi reali. Quelli di La Mancha lettori ideali.
E, se la storia di Waterloo è attiva, quella di La Mancha è riflessiva.
Tali divisioni teoriche possono sembrare rigide, ma le opere stesse sono molto più fluide. Per esempio, una delle caratteristiche rilevanti della tradizione cervantesca, la pazzia della lettura, origine dell'azione del Don Quijote, porta sul piano realista un romanzo come L'Abbazia di Northanger; per esempio parte della commedia sociale inglese di J. Austen, la cui protagonista Catherine Moorland, abbandona la ragione leggendo i romanzi gotici; per esempio e soprattutto, uno dei capolavori del realismo psicologico, Madame Bovary, in cui l'eroina di Flaubert perde l'equilibrio tra la sua realtà sociale e la sua realtà psicologica per aver letto troppe opere romantiche.
E tanto Sorel quanto Raskolnikov, come ho già accennato, sono ciò che sono per aver divorato le pagine sull'epopea napoleonica.
Più specificatamente è La Mancha un romanzo che si riconosce funzionale, che è consapevole della propria natura fittizia. Don Quijote, Tristram Shandy, Jacques Le Fataliste, Brás Cubas, oltre a riconoscersi finzione, celebrano la propria genesi fittizia.
Don Quijote è in un luogo di La Mancha del cui nome non si vuole ricordare, ma è contemporaneamente in una tipografia di Barcellona, nella quale il personaggio di Cervantes visita il luogo stesso dove la sua vita si fa libro, poiché Don Quijote è il primo personaggio del romanzo moderno che sa di essere scritto, stampato e letto così come Tristram Shandy sa di essere scritto da se stesso, così come Brás Cubas si sta scrivendo da sé e non da un Brás Cubas qualunque, ma da un Brás Cubas morto che scrive le sue memorie nella tomba. Inoltre Brás Cubas chiede di essere inserito in una tradizione, quella del lettore di Tristram Shandy, solo che Tristram Shandy, a sua volta, vuole essere della tradizione di Don Quijote. "Ho adottato" - dice Brás Cubas dalla tomba - "la forma libera di uno Sterne". Sterne dice, nel Tristram Shandy, che prese la sua forma "dall'incomparabile cavaliere de La Mancha, che, si è detto di sfuggita, io amo anche più, nonostante tutte le sue sciocchezze, del maggiore eroe dell'Antichità e che in futuro vorrei andare a trovare".

Al disoccupato lettore. Il visitatore del libro è niente meno che il lettore del libro, personaggio del Quijote, dal momento in cui Cervantes, nella prefazione, apre il romanzo rivolgendosi al "disoccupato lettore". Ma in Cervantes il rapporto con il lettore è un discreto, seppure angosciato, richiamo di attenzione nei confronti di un altro socio della lettura, l'incerto autore dell'incerto romanzo che inizia in un incerto luogo di La Mancha, dove vive un incerto cavaliere di incerto nome che esce dal suo incerto villaggio verso un territorio, questo sì certo, questo sì popolato da concretissimi pastori di capre, venditori di acque, locandieri, donnacce, preti, burattinai e aristocratici che Don Quijote fa divenire incerti sottomettendoli alle leggi della lettura anteriore: i mulini sono giganti, le locande sono palazzi, le greggi sono eserciti, i burattini sono feroci mori e Aldonza è Dulcinea.
Nel confondere il confine tra realtà e finzione Cervantes non solo celebra la genesi di quest'ultima come tale. L'incertezza del luogo, del nome e dell'azione ha una funzione politica, ci conduce a diffidare di tutti i dogmi, sia quelli del Concilio di Trento, delle leggi della purezza del sangue o della Santa Inquisizione. Stai attento, Torquemade, che ci imbattiamo nel Quijote. Ma c'è qualcosa in più: la fondazione cervantesca critica il mondo solo perché critica se stessa ed estende, al proprio autore, l'incertezza critica del romanzo. Chi è che si rivolge "al disoccupato lettore"?
È Cervantes, è Saavedra, è Cide Hamete, è un Sancho mascherato, è l'autore del Quijote apocrifo, Avillaneta? O sono gli autori della tradizione di La Mancha, i discendenti di Cervantes, Sterne, Diderot, Machado e infine Pierre Ménard, l'autore del Quijote nel racconto di Borges?
Finzione, celebrazione della finzione, e critica della finzione. Mentre Cervantes accentua la critica nei confronti dell'autore, conseguenza della lettura che ha reso pazzo il nobiluomo, Sterne si sofferma sulla critica al lettore, trasformandolo in coautore, in primo luogo, di un tempo narrativo, quello della lettura, che può o meno coincidere con la durata stessa della narrativa.
Sterne interpella costantemente il lettore:
"Vedo chiaramente, signore, dalla vostra apparenza", dice l'invisibile autore all'invisibile lettore adulandolo. Poi gli chiede: "E ora cosa devo fare?", collocando il destinatario stesso del romanzo nelle mani del suo destinatario: l' "essere o non essere" shakespeariano si trasforma, nel libro di Sterne, in un "narrare o non narrare".
Le voci dei lettori irrompono nel romanzo per animare o disanimare il narratore; il lettore gli dice: "Racconta, non esitare". L'altro, al contrario, lo avverte: "Sarai un idiota se lo farai".
Diderot, da parte sua, concede al narratore la libertà di scegliere tra numerose alternative di narrazione, che puntano verso il futuro (Jacques si separa dal suo padrone ad uno incrocio e non sa quale strada seguire), ma anche verso il passato. Dove il padrone e il servo hanno passato la sera precedente? Diderot offre sette possibilità al lettore:
1) in un grande bordello di una grande città;
2) a cena con un vecchio amico;
3) con dei monaci che li hanno bisfrattati in nome di Dio;
4) in un albergo dove hanno chiesto loro un prezzo esorbitante per la cena;
5) nella casa di uno dei pari di Francia, dove patirono tutti i bisogni in mezzo ad ogni superfluità;
6) con un parroco di villaggio;
7) sbronzandosi in una abbazia benedettina.

Beffe e malinconia. Questa è la tradizione ludica il cui abbandono viene denunciato da Kundera, ma che Machado inaspettatamente recupera.
Le Memorie postume di Brás Cubas, pubblicate nel 1881, sono scritte nella tomba da un autore la cui paternità dell'opera è sicura almeno quanto la morte stessa. Solo che Brás Cubas trasforma la morte in un'incertezza ab initio, il tema cervantesco della finzione cosciente di esserlo: "Non sono propriamente un autore defunto, ma un defunto autore". Quest'autore, "per il quale la tomba è stata un'altra culla", è il narratore postumo Brás Cubas, che nel rinnovare la tradizione cervantesca e soprattutto sterniana di rivolgersi al lettore, sa che, questa volta, il lettore dovrà battersi meno con un autore incerto come quello del Quijote o con un autore ossessionato dal desiderio di scrivere tutta la sua vita prima di morire, come Tristram Shandy, che non con l'autore morto che scrive dalla tomba, il quale dedica il suo libro "al verme che per primo ha roso le fredde carni del mio cadavere e che ammette la fatalità della sua situazione: tutti noi dobbiamo morire; per questo basta essere vivo".
In questo modo, Brás Cubas trasmette il proprio passato vivo e il proprio presente morto al lettore, con molto dell'umore di Cervantes, Sterne e Diderot, con un'acidità, una rabbia, che sorprende in un personaggio tanto dolce come Brás Cubas e Machado de Assis, questo se entrambi non ci avvertissero, sin dalla prima pagina, che tali "memorie postume" sono state scritte "con la penna della beffa e l'inchiostro della malinconia". Questa mi sembra la frase essenziale del romanzo manchego del romanziere carioca: scrivere con la penna del riso e l'inchiostro della malinconia.
Il riso per primo. L'ammirazione di Tristram Shandy per il Don Quijote sopra menzionato, si basa sull'umorismo. "Sono convinto" - leggiamo nel romanzo di Sterne - "che la felicità dell'umorismo cervantesco nasca dal semplice fatto che lui descrive piccoli e banali eventi con la pomposità e le circostanze che di solito sono riservate ai grandi avvenimenti".
Sterne rovescia questo umorismo descrivendo fatti pomposi con l'umorismo dei piccoli. La Guerra di Successione Spagnola, l'eredità di Carlos, lo Stregato, che ha nuovamente insanguinato la campagna fiamminga, in Tristram Shandy è riprodotto dal suo zio Toby - impossibilitato a lottare in guerra a causa di una ferita all'inguine - nel terreno che prima gli era servito da campo da bowling, tra due file di cavolfiori. Lì zio Toby ha potuto rivivere le campagne di Marlborough, senza versare anche una sola goccia di sangue.
L'umorismo di Machado va oltre l'umorismo di Cervantes e di Sterne: il brasiliano narra piccoli fatti in brevi capitoli con la mistura di riso e malinconia che si risolve, più di una volta, in ironia.
Libro epicureo, come lo ha definito una certa critica nordamericana. Libro terrorizzante, aggiunge un'altra recensione newyorkese, perché la sua denuncia della pretesa e dell'ipocrisia che si nascondono negli esseri comuni è implacabile. No, corregge Susan Sontag: è solo un libro di uno scetticismo radicale che si impone al lettore con la forza di una scoperta personale.
È vero: gli elementi carnevaleschi, il riso giocondo che Bakhtin attribuisce alle grande prose comiche di Rabelais, Cervantes e Sterne, sono presenti in Machado. Basta ricordare gli incontri picareschi con il filosofo-furfante Quincas Borba, il vaudeville degli incontri con l'amante segreta Virgilia, e la descrizione del modo con cui si appropriava della religione: come "una sorta di camicia di flanella preservante e clandestina".
Basta evocare i ritratti satirici della società carioca e della burocrazia brasiliana risolte in uno splendido passaggio comico che riduce la politica al problema di diventare o meno segretario di un Presidente di Provincia, per poter accompagnare la propria amante, moglie del Presidente; soluzione amministrativa per il problema dell'adulterio.
In grande misura l'umorismo di Machado determina il ritmo della sua prosa: non solo la brevità dei capitoli, ma la velocità del linguaggio. Questa velocità, che è come la sorella della comicità, evidente nelle immagini accelerate di Chaplin o di Buster Keaton, ha il suo antecedente musicale in Il barbiere di Siviglia di Rossini , il suo antecedente poetico nel Eugenio Oneghim di Pushkin e il suo antecedente novellesco in Jacques Le Fataliste di Diderot, dal quale prende il seguente esempio: l'autore conosce "una donna bella come un angelo (...). Desidero fare l'amore con lei. Lo faccio. Abbiamo quattro figli".

Senza una goccia di sangue. In Brás Cubas l'autore si definisce così: "Perché negarlo? io avevo la passione del rumore, delle locandine, degli spruzzi di lacrime". E Virgilia, l'amante del narratore, è rilevata e descritta con una mezza dozzina di tratti precisi: bella, fresca, appena uscita dalle mani della natura, piena di quel fetticcio precario ed eterno che l'individuo passa ad un altro individuo per i fini segreti della creazione. Ma il riso rabelaisiano sunito si congela sulle labbra della malinconia machadiana.
Ho già detto, sopra, che in Tristram Shandy le battaglie di Successione Spagnola si succedono nel "jardin potagé" di zio Toby, senza spargimento di sangue. Machado s'impegna a garantire che l'incontro tra riso e malinconia in Brás Cubas non lascierà spazio alla violenza. Un paragrafo illustrativo lo dimostra. Di fronte alla possibilità di uno scontro di forze, l'autore promette che non ci sarà la violenza annunciata e che nemmeno una goccia di sangue macchierà la pagina.
Il lettore ispano-americano potrebbe riscontrare in questa frase una lettura tra le righe della storia del Brasile come la nazione latino-americana che ha saputo condurre i processi storici senza la violenza propria degli altri paesi del continente.
Forse le eccezioni confermano le regole. In ogni caso, nel romanzo di Machado, il rumore del carnevale carioca rimane sempre più lontano ed esclusivo, man mano che il colore della malinconia guadagna terreno sulla penna della beffa.
Ho assistito recentemente ad un documentario in TV dedicato a Carmen Miranda, che iniziava con l'infinita malinconia delle canzoni tradizionali del Brasile nella voce di questa donna straordinaria che Hollywood ha trasformato in un simbolo sgargiante del Carnevale, dell'allegria chiassosa, della fruttiera sopra la testa. Ma via via che i Campi Elisi rivelano il volto della morte, il carattere vivace della chica-chica-boom-girl si scioglie e ritorna la voce perduta, la voce della malinconia. È come se, dal regno della morte, Carmen Miranda esclamasse: "Non mi rubate la tristezza". Per questo dico che la frase più significativa del libro di Machado di Assis è questa (perché, in fin dei conti, cos'è il Brás Cubas se non la malinconica storia di uno scapolo che prima deve raggirare i rischi dell'adulterio e più tardi quelli della vecchiaia solitaria e ridicola?): "Uno scapolo che spira all'età di sessantaquattro anni non sembra che riunisca in sé tutti gli elementi di una tragedia", avverte il narratore alla fine di un percorso in cui scopre un'ulteriore unità dimenticata da Aristotele: l'unità della miseria umana.
C'è un momento quasi proustiano in cui Brás Cubas , ritirandosi da un ballo alle quattro del mattino ci domanda: "Ma (...) cosa mi è capitato di trovare al fondo della carrozza? I miei cinquant'anni. Erano tutti lì, i testardi, non contriti per il freddo, né vittime di reumatismi, ma appisolati per la fatica, un po' bramosi di letto e di riposo".
L'oblio, dice Machado, si prepara per sorprenderci prima della morte: "Significa non trovare più nessuno che si ricordi dei miei genitori, è il modo in cui mi guarderà in faccia l'oblio stesso". Brás Cubas inizia imitando la morte: "Non vuole parlare per far credere che sta morendo". Ma solo la lettura critica di questo grande romanzo ci potrà portare alle domande letterarie, alle domande della tradizione che Machado fa rivivere e prolunga, la tradizione di La Mancha, risposta anche a modo suo, ad un altro grande romanzo latino-americano scritto a partire dalla morte, Pedro Páramo, di Juan Rulfo. Questa domanda è: "essere morto significa essere universale?". O detto in un altro modo: "per essere universali, noi latino-americani, dobbiamo essere morti?".

La letteratura meticcia. Susan Sontag risponde affermando la modernità di Machado de Assis, ma ci avverte che la nostra modernità non è altro che una tela di allusioni accattivanti che ci permettono di colonizzare il passato in forma selettiva. Sappiamo che nell'America Latina soffriamo di una modernità escludente, una modernità orfana, senza mother né dad, e che ci diamo da fare per conquistare una modernità includente, con papà e mamma, che abbracci tutto ciò che fummo e che siamo: figli di La Mancha, parte dell'impurità meticcia che oggi si diffonde globalmente per creare una narrativa multipla, capace di manifestarsi come vera "Weltliteratur" nell'India di Salman Rushdie, nella Nigeria di Wole Soyinka, nella Germania di Günter Grass, nel Sudafrica di Nadine Gordimer, nella Spagna di Juan Goytisolo, o nella Colombia di Gabriel Garcia Marquez. Il mondo di La Mancha, il mondo della letteratura meticcia.
Machado non rivendica questo mondo per ragioni razziali, storiche o politiche, ma per ragioni di immaginazione e di linguaggio che certamente includono le altre. Quanto universale, quanto latino-americane, sono le sentenze machadiane come questa: "Dio sa la forza di un aggettivo, soprattutto in paesi nuovi e caldi!". O quest'altra: "Vivendo nella pura fede degli occhi neri e delle costituzioni scritte". La fede nelle costituzioni scritte restituisce a Machado la penna della beffa, ma ora dentro una costellazione di riferimenti e premonizioni spaventose, che ci portano nuovamente, attraverso la via comica dello scrittore che noi ispano-americani non abbiamo avuto nell'Ottocento - Machado de Assis - fino allo scrittore che abbiamo avuto sì, nel Novecento, Jorge Luis Borger (1899-1986).
La strategia borgiana di rompere l'idea assoluta con l'incidente comico è già presente in Machado quando Brás Cubas dichiara la sua intenzione di scrivere il libro che non ha mai scritto, una Storia delle periferie, la cui concretezza contrasta totalmente con l'astrazione della filosofia in voga nel secolo XIX latino-americano: il positivismo di Comte, la sua filosofia trinitaria. L'Ordine e Progresso stampato sulla bandiera brasiliana e che, in Messico, è stato anche adottato dagli scienziati seguaci di Porfirio Diaz, opposto all'incidente comico di Brás Cubas: scrivere una Storia delle periferie e sostituire l'Ordine e Progresso con l'invenzione pratica di un impiastro contro la malinconia.


L'aleph di Machado. E nonostante tutto, la fame latino-americana, la brama di abbracciare tutto, di appropriarsi di ogni tradizione, di ogni cultura, perfino di ogni aberrazione, desiderio utopico di creare un nuovo paradiso nel quale tutti gli spazi e tutti i tempi siano simultanei, compare brillantemente nelle Memorie postume di Brás Cubas, come una sorprendente visione del primo aleph, anteriore a quello famosissimo di Borges, sul quale lo stesso autore dice: "Per quanto possa apparire incredibile, credo che esista (o che sia esistito) un altro aleph." Infatti: quello di Machado de Assis.
"Immagina tu, lettore", dice Machado, "una sintesi dei secoli ed uno sfilare di essi, di tutte le razze, di tutte le passioni, il tumulto degli imperi, le guerre degli appetiti e degli odi, la distruzione reciproca degli esseri e delle cose (...)". È stato questo l'"acerbo e curioso spettacolo" che Brás Cubas ha visto dall'alto della montagna, come l'angelo futuro di Walter Benjamin, contemplando le rovine della storia, "la condensazione viva" della storia, del cadavere autorale di Brás Cubas la cui mente "è stata una pedana (...), una baraonda di cose e di persone nella quale si poteva vedere tutto, dalla rosa di Shirna fino alla pianta di ruta del tuo cortile, dal magnifico letto di Cleopatra fino all'angolo di spiaggia dove il barbone fa il suo pisolino"
E continua l'autore: "Non c'era lì soltanto (nel primo aleph, quello brasiliano di Machado di Assis) l'atmosfera dell'aquila e del colibrì, ma anche quella della lumaca e del rospo".
La visione dell'aleph di Machado, la sua fame universale, dà quindi colore alla sua passione letteraria, al suo modo di rivolgersi al lettore, "lettore ottuso", lettore che è "il peggior difetto di questo libro", perché vuol vivere rapidamente e arrivare quanto prima alla fine di un'opera che è lenta "come gli ubriachi", che "oscillano da destra a sinistra, camminano e si fermano, mugugnano, urlano, ridono, minacciano il cielo, scivolano e cadono". È a questo lettore, per niente amabile, che Machado rivolge i suoi scherzi e le sue minacce, forse più gravi di quelle di Sterne o di Diderot, nonostante tutte le similitudini formali esistenti tra loro: "Se il lettore non è incline alla contemplazione (...), può saltare il capitolo; va diretto alla narrazione, (...) questo che sembra un semplice inventario, erano appunti che io avevo preso per un capitolo estremamente succulento (...), che non scrivo. (...) Non si irriti il lettore per questa confessione (...), insomma, io scrivo le mie memorie e non le tue, pacato lettore, (...) e dall'inizio ti ho avvertito che l'opera in sé stessa è tutto: se ti piacerà, fine lettore, ciò avrà pagato il mio impegno; se non ti piacerà, ti pago io con uno scappellotto e addio".
Il trattamento piuttosto rude che Machado riserva al lettore non mi sembra lontano dall'esigenza dei rintocchi notturni avvertita da Falstaff: si tratta di svegliare il lettore, di strapparlo dalla sonnolenza romantica tropicale, di condurlo verso compiti più ardui e di lanciarlo in una modernità includente, appassionante, famelica.
Claudio Magris dice qualcosa sulla nostra letteratura che mi sembra adatta a Machado: l'America Latina, scrive l'autore di Danubio, ha dilatato lo spazio dell'immaginazione. La letteratura occidentale era a rischio. L'Europa ha assunto la negatività. L'America latina ha assunto la totalità. Ma oggi l'Europa deve ammettere la sua cattiva coscienza nella celebrazione dell'America Latina. Oggi tutti devono leggere i libri dell'America Latina per non cadere nella tentazione dell'avventura esotica: i lettori europei (così come latino-americani, aggiungerei), devono imparare a fare il compito per casa che consiste nel leggere sul serio la prosa malinconica, difficile, dura, dei latino-americani.
Magris potrebbe descrivere con le stesse parole, nonostante la bella e totale leggerezza della sua scrittura, i libri di Machado di Assis. Ma Machado, quando scrive il primo aleph, sta anche chiedendo ai latino-americani di essere più coraggiosi, di immaginare tutto.

La finzione e i limiti della storia. In Cervantes e in Sterne, i modelli di Machado, lo spirito comico, indicano i limiti della realtà. La riproduzione dei campi di battaglia delle Fiandre in un orto demarca, in Tristram Shandy, non solo i limiti della rappresentazione letteraria, non solo i limiti della rappresentazione storica, ma i limiti della storia stessa. Poiché la storia è tempo e il tempo, dice Sterne, alla fine del suo bellissimo romanzo, è fugace, "passa troppo in fretta; ogni lettore che traccio mi parla della rapidità con cui la vita accompagna le mie pene; i suoi giorni, le sue ore, mia cara Jenny! I rubini attorno al tuo collo volano sulle nostre teste, come nuvole leggere in una giornata di vento, per non tornare mai più (...) e tutte le volte che ti bacio la mano per congedarmi, e ogni conseguente assenza è il preludio di quella eterna separazione che fra poco ci accoglierà. Che il cielo abbia pietà di noi due".
E nel Don Quijote, il tono del romanzo cambia radicalmente quando il protagonista e Sancho Pancha fanno visita ai duchi e questi offrono loro, nella realtà, ciò che Don Quijote possedeva solo nella sua immaginazione. Il castello è un castello, ma Don Quijote aveva bisogno che il castello fosse, invece, una locanda. Privato della sua immaginazione si trasforma veramente nel Cavaliere dalla Triste Figura e si incammina fatalmente verso la morte: "nei nidi di altri tempi non ci sono gli uccelli d'Agano: sono stato pazzo e ora sono sano; sono stato Don Quijote della Mancha e ora sono (...) Alfonso Quijana, il buono (...)". Con ragione Dostoevskij considerò il Quijote il libro più triste mai scritto, perché è la storia di una delusione. Ma è anche, aggiunge l'autore russo, il trionfo della finzione: in Cervantes, la verità è salvata da una menzogna.
Machado de Assis si situa anch'esso tra la forza di una finzione che tutto include, come l'immaginazione latino-americana vorrebbe abbracciare tutto e i limiti imposti dalla storia. "Evviva la storia, la volubile storia che si apre a tutto", esclama Brás Cubas dalla tomba solo per indicarci che questa capacità totalizzante appartiene unicamente all'errore, perché, al contrario di ciò che ha detto Pascal, l'uomo non è un essere pensante, bensì un errore pensante: "Ogni stagione della vita - dice Cubas - è una edizione che corregge l'anteriore, e che sarà anch'essa corretta fino all'edizione definitiva che l'editore dà gratis ai vermi".
La penna delle beffe e l'inchiostro della malinconia si uniscono una volta in più per trovare l'origine stessa della loro tradizione: l'elegia della follia, la radice erasmiana della nostra cultura rinascimentale, il saggio dosaggio di ironia che impedisce che la ragione e la fede si impongano come dogmi.

Il pazzo mansueto. Mi ricordo l'amore che Julio Cortázar aveva per la figura del pazzo mansueto da lui stesso consacrato in diversi personaggi di Il gioco del mondo. Anche Machado ha il suo pazzo mansueto, si chiama Romualdo ed è sano in tutto tranne che in una cosa: pensa di essere Tamerlano.
Così come Alfonso Quijano pensa di essere il Don Quijote, come Zio Toby, uno stratega militare e il personaggio di Pirandello, il Re Enrico IV. Oltre a ciò sono tutti personaggi sani.
Machado attribuisce questa pazzia all'idea fissa che, messa in pratica nella politica, può certamente causare catastrofe: guardate, indica lui, Bismarck e la sua idea fissa di unificare la Germania, prova del capriccio e dell'immensa irresponsabilità storica.
Per questo conviene rispettare i pazzi mansueti, lasciarli cuocere nel loro brodo - come l'ateniese evocato da Machado che pensava che tutte le navi che entravano nel Pireo gli appartenessero; come il pazzo evocato da Orazio e ripreso da Erasmo: uno squilibrato che passava i suoi giorni dentro un teatro a ridere, ad applaudire, a divertirsi, credendo che si stesse svolgendo una pièce sul palcoscenico vuoto. Quando il teatro fu chiuso e il pazzo cacciato via, questo stesso protestò: "non mi avete guarito dalla mia pazzia, ma avete distrutto il mio piacere e la mia illusione di felicità."
Erasmo ci chiede così di ritornare alle parole di San Paolo: "Lasciate che quello che tra voi sembra più saggio diventi un pazzo, perché alla fine si faccia saggio (...), perché la pazzia di Dio è più saggia di tutta la saggezza degli uomini."
I figli di Eramo si sono convertiti nella penisola iberica e nell'area ibero americana, nei figli di La Mancha, nei figli di un mondo macchiato, impuro, sincretico, barocco, corretto, animato del desiderio di macchiare con la pretesa di essere, di contagiare, con la pretese di assimilare, che le apparenze si moltiplichino per moltiplicare il senso delle cose, contro il falso consolidamento di una lettura unica, dogmatica del mondo. Figli di La Mancha che raddoppiano tutte le verità per impedire che si instauri un modo ortodosso, della fede o della ragione, o un modo puro, privo di sporcizia razionale, culturale, sessuale, politica, delle donne e degli uomini.

Meticciato e immaginazione. Machado de Assis, Machado de La Mancha, il miracoloso Machado, è un "adelantado" del mondo dell'immaginazione e dell'ironia, del meticciato e del contagio in un mondo sempre più minacciato dal razzismo, dalla xenofobia, dal fondamentalismo religioso e dall'altro implacabile fondamentalismo: quello del mercato.
Con Machado e la sua ascendenza manchega ed erasmiana, con Machado e la sua discendenza macedoniana, borgiana, cortázariana, nelidaniana, goytisoliana e julianofluviale, noi scrittori iberici-americani continueremo ad impegnarci per inventare ciò che il grande Lazama Lima denominava "era immaginaria, perché una cultura incapace di creare un'immaginazione sarà storicamente indecifrabile".
Machado, il brasiliano miracoloso, continua a decifrarci perché continua ad immaginarci e la vera identità ibero-americana è solo quella della nostra immaginazione. Immaginazione letteraria e politica, sociale e artistica, individuale e collettiva.

 

(Questo testo è stato pubblicato per la prima volta nella rivista messicana "Quimera").





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