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  SULLO SCRIVERE   
 
  Primo Levi 
 
 
 1
 Dello scrivere oscuro
 Non 
                si dovrebbero mai imporre limiti o regole allo scrivere creativo. 
                Chi lo fa, obbedisce in generale a tabù politici o a timori 
                atavici: in effetti, un testo scritto, comunque esso sia scritto, 
                è meno pericoloso di quanto comunemente si pensi; il famoso 
                giudizio su Le mie prigioni di Silvio Pellico, che avrebbe nuociuto 
                all'Austria "più di una battaglia perduta", è 
                iperbolico. Si constata sperimentalmente che un libro o un racconto, 
                buone o cattive che siano le loro intenzioni, sono oggetti essenzialmente 
                inerti ed innocui; anche nelle loro incarnazioni più ignobili 
                (ad esempio, gli ibridi sessonazismo o patologia-pornografia) 
                non possono provocare che danni scarsi, certo inferiori a quelli 
                prodotti dall'alcool o dal fumo o dallo stress aziendale. Alla 
                loro debolezza intrinseca concorre il fatto che oggi ogni scritto 
                è soffocato in pochi mesi dalla calca degli altri scritti 
                che gli urgono dietro. Inoltre, le regole e i limiti, essendo 
                storicamente determinati, tendono a mutare sovente: la storia 
                di tutte le letterature è piena di episodi in cui opere 
                ricche e valide sono state combattute in nome di principi dimostratisi 
                poi ben più caduchi delle opere stesse; se ne può 
                dedurre che molti libri preziosi devono essere spariti senza lasciare 
                traccia, essendo stati sconfitti nella contesa mai finita fra 
                chi scrive e chi prescrive come si deve scrivere. Dall'alto della 
                nostra epoca permissiva, i processi (veri processi, in tribunale) 
                contro Flaubert, Baudelaire, D.H. Lawrence, appaiono grotteschi 
                ed ironici come quello di Galileo, tanto grande appare oggi il 
                dislivello fra i giudicati e i giudicanti: questi vincolati al 
                loro tempo, quelli vivi per ogni prevedibile futuro. Insomma, 
                dar legge al narratore è almeno utile. Detto questo, e rinunciando quindi enfaticamente a qualsiasi pretesa 
                normativa, proibitiva o punitiva, vorrei aggiungere che a mio 
                parere non si dovrebbe scrivere in modo oscuro, perché 
                uno scritto ha tanto più valore, e tanta più speranza 
                di diffusione e di perennità, quanto meglio viene compreso 
                e quanto meno si presta ad interpretazioni equivoche.
 E' evidente che una scrittura perfettamente lucida presuppone 
                uno scrivente totalmente consapevole, il che non corrisponde alla 
                realtà. Siamo fatti di Io e di Es, di spirito e di carne, 
                ed inoltre di acidi nucleici, di tradizioni, di ormoni, di esperienze 
                e traumi remoti e prossimi; perciò siamo condannati a trascinarci 
                dietro, dalla culla alla tomba, un Doppelganger, un fratello muto 
                e senza volto, che pure è corresponsabile delle nostre 
                azioni, quindi anche delle nostre pagine. Come è noto, 
                nessun autore capisce a fondo quello che ha scritto, e tutti gli 
                scrittori hanno avuto modo di studiare delle cose belle e brutte 
                che i critici hanno trovato nelle loro opere che loro non sapevano 
                di averci messe; molti libri contengono plagi, concettuali o verbali, 
                di cui gli autori si dichiarano in buona fede inconsapevoli. E' 
                un fatto contro cui non si può combattere: questa fonte 
                di inconoscibilità e di irrazionalità che ognuno 
                di noi alberga deve essere accettata, anche autorizzata ad esprimersi 
                nel suo (necessariamente oscuro) linguaggio, ma non tenuta per 
                ottima od unica fonte di espressione.
 Non è vero che il solo scrivere autentico è quello 
                che viene dal "cuore", e che in effetti viene da tutti 
                gli ingredienti distinti dalla conoscenza che sono citati sopra. 
                Questa opinione, del resto onorata dal tempo, si fonda sul presupposto 
                che il cuore che "ditta dentro" sia un organo diverso 
                da quello della ragione e più nobile di esso, e che il 
                linguaggio del cuore sia uguale per tutti, il che non è. 
                Lungi dall'essere universale nel tempo e nello spazio, il linguaggio 
                del cuore è capriccioso, adulterato e instabile come la 
                moda, di cui in effetti fa parte: neppure si può sostenere 
                che esso sia uguale a se stesso limitatamente ad un paese e ad 
                un'epoca. Altrimenti detto, non è un linguaggio affatto, 
                o al più un vernacolo, un argot, se non un'invenzione individuale.
 Perciò, a chi scrive nel linguaggio del cuore può 
                accadere di riuscire indecifrabile, ed allora è lecito 
                domandarsi a che scopo egli abbia scritto: infatti (mi pare che 
                questa sia un postulato ampiamente accettabile) la scrittura serve 
                a comunicare, a trasmettere informazioni o sentimenti da mente 
                a mente, da luogo a luogo, e da tempo a tempo, e chi non viene 
                capito da nessuno non trasmette nulla, grida nel deserto. Quando 
                questo avviene il lettore di buona volontà deve essere 
                rassicurato: se non intende un testo, la colpa è dell'autore, 
                non sua. Sta allo scrittore farsi capire da chi desidera capirlo: 
                è il suo mestiere, scrivere è un servizio pubblico, 
                e il lettore volenteroso non deve andare deluso.
 Questo lettore, che ho la curiosa impressione di avere accanto 
                quando scrivo, ammetto di averlo leggermente idealizzato. E' simile 
                ai gas perfetti dei termodinamici, perfetti solo in quanto il 
                loro comportamento è perfettamente prevedibile in base 
                a leggi più semplici, mentre i gas reali sono più 
                complicati. Il mio lettore "perfetto" non è un 
                dotto ma neppure uno sprovveduto; legge non per obbligo né 
                per passatempo né per fare bella figura in società, 
                ma perché è curioso di molte cose, vuole scegliere 
                fra esse, e non vuole delegare questa scelta a nessuno; conosce 
                i limiti della sua competenza e preparazione , ed orienta le sue 
                scelte di conseguenza; nella fattispecie, ha volenterosamente 
                scelto i miei libri, e proverebbe disagio o dolore se non capisse 
                riga per riga quello che ho scritto, anzi, gli ho scritto: infatti 
                scrivo per lui , non per i critici né per i potenti della 
                Terra né per me stesso. Se non mi capisse, lui si sentirebbe 
                ingiustamente umiliato, ed io colpevole di inadempienza contrattuale.
 Qui occorre far fronte a un'obiezione: talvolta si scrive (o si 
                parla) non per comunicare, ma per scaricare una propria tensione, 
                o una gioia, o una pena, ed allora si grida anche nel deserto, 
                si geme, ride, canta, urla.
 Per chi urla, purché abbia motivi validi per farlo, ci 
                vuole comprensione: il pianto e il lutto, siano essi contenuti 
                o scenici, sono benefici in quanto alleviano il dolore.Urla Giacobbe 
                sul mantello insanguinato di Giuseppe; in molte città il 
                lutto gridato è rituale e prescritto. Ma l'urlo è 
                un ricorso estremo, utile per l'individuo come le lacrime, inetto 
                e rozzo se inteso come linguaggio, poiché tale, per definizione, 
                non è: l'inarticolato non è articolato, il rumore 
                non è suono. Per questo motivo, mi sento sazio delle lodo 
                tributate a testi che (cito a caso) "suonano al limite dell'ineffabile, 
                del non-esistente, del mugolio animale". Sono stanco di "densi 
                impasti magmatici", di "rifiuti semantici" e di 
                innovazioni stantie. Le pagine bianche sono bianche, ed è 
                meglio chiamarle bianche; se il re è nudo, è onesto 
                dire che è nudo.
 Personalmente sono stanco anche delle lodi elargite in vita e 
                in morte a Ezra Pound, che forse è pure stato un grande 
                poeta, ma che per essere sicuro di non essere compreso scriveva 
                a volte perfino in cinese, e sono convinto che la sua oscurità 
                poetica aveva la stessa radice del superomismo, che lo ha condotto 
                prima al fascismo e poi all'autoemarginazione: l'una e l'altro 
                germinavano dal suo disprezzo per il lettore. Forse il tribunale 
                americano che giudicò Pound mentalmente infermo aveva ragione: 
                scrittore d'istinto, doveva essere un pessimo ragionatore, e lo 
                confermano il suo comportamento politico ed il suo odio maniacale 
                per i banchieri: ora, chi non sa ragionare deve essere curato, 
                e nei limiti del possibile rispettato, anche se, come Ezra Pound, 
                si induce a fare propaganda nazista contro il proprio paese in 
                guerra contro la Germania di Hitler: ma non deve essere lodato 
                né indicato ad esempio, perché è meglio essere 
                sani che insani.
 L'effabile è preferibile all'ineffabile, la parola umana 
                al mugolio animale. Non è un caso che i due poeti tedeschi 
                meno decifrabili Trakl e Celan, siano entrambi morti suicidi, 
                a distanza di due generazioni. Il loro comune destino fa pensare 
                all'oscurità della loro poetica come ad un pre-uccidersi, 
                a un non- voler- essere, ad una fuga dal mondo, a cui la morte 
                voluta è stata coronamento. Sono da rispettarsi, perché 
                il loro " mugolio animale" era terribilmente motivato: 
                per Trakl, dal naufragio dell'impero Asburgico, in cui egli credeva, 
                nel vortice della Grande Guerra; per Celan, ebreo tedesco scampato 
                per miracolo alla strage tedesca, dallo sradicamento, e dall'angoscia 
                senza rimedio davanti alla morte trionfatrice. Per Celan soprattutto, 
                perché è un nostro contemporaneo (1920-70), il discorso 
                deve farsi più serio e responsabile.
 Si percepisce che il suo canto è tragico e nobile, ma confusamente: 
                penetrarlo è impresa disperata non solo per il lettore 
                generico, ma anche per il critico. L'oscurità di Celan 
                non è disprezzo del lettore né insufficienza espressiva 
                né pigro abbandono ai flussi dell'inconscio: è veramente 
                un riflesso dell'oscurità del destino suo e della sua generazione, 
                e si va addensando sempre più intorno al lettore, stringendolo 
                come in una morsa di ferro e di gelo, dalla cruda lucidità 
                di Fuga di morte (1945) al truce caos senza spiragli delle ultime 
                composizioni. Questa tenebra che cresce di pagina in pagina, fino 
                all'ultimo disarticolato balbettio, costerna con il rantolo di 
                un moribondo, ed infatti altro non è. Ci avvince come avvincono 
                le voragini, ma insieme ci defreuda di qualcosa che doveva essere 
                detto e non lo è stato, e perciò ci frustra e ci 
                allontana. Io penso che Celan poeta debba essere piuttosto meditato 
                e compianto che imitato. Se il suo è un messaggio , esso 
                va perduto nel "rumore di fondo": non è una comunicazione 
                , non è un linguaggio , o al più è un linguaggio 
                buio e monco, qual è appunto quello di colui che sta per 
                morire , ed è solo , come tutti lo saremo in punto di morte. 
                Ma poiché noi vivi non siamo soli, non dobbiamo scrivere 
                come se fossimo soli. Abbiamo una responsabilità, finché 
                viviamo: dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per parola, 
                e far sì che ogni parola vada a segno.
 Del resto, parlare al prossimo in una lingua che egli non può 
                capire può essere malvezzo di alcuni rivoluzionari, ma 
                non è affatto uno strumento rivoluzionario: è invece 
                un antico artificio repressivo, noto a tutte le chiese, vizio 
                tipico della nostra classe politica, fondamento di tutti gli imperi 
                coloniali. E' un modo sottile di imporre il proprio rango: quando 
                padre Cristoforo dice "Omnia munda mundis" in latino 
                e fra Fazio che il latino non lo sa, a quest'ultimo, "al 
                sentir quelle parole gravide d'un senso misterioso, e proferite 
                così risolutamente
 parve che in quelle dovesse contenersi 
                la soluzione di tutti i suoi dubbi. S'acquietò, e disse: 
                'Basta! Lei ne sa più di me'".
 Neppure è vero che solo attraverso l'oscurità verbale 
                si possa esprimere quell'altra oscurità di cui siamo figli, 
                e che giace nel nostro profondo. Non è vero che il disordine 
                sia necessario per dipingere il disordine; non è vero che 
                il caos della pagina scritta sia il miglior simbolo del caos ultimo 
                a cui siamo votati: crederlo è vizio tipico del nostro 
                secolo insicuro. Finché viviamo, e qualunque sia la sorte 
                che ci è toccata o che ci siamo scelta, è indubbio 
                che saremo tanto più utili (e graditi) agli altri ed a 
                noi stessi, e tanto più a lungo verremo ricordati, quanto 
                migliore sarà la qualità della nostra comunicazione. 
                Chi non sa comunicare, o comunica male, in un codice che è 
                solo suo o di pochi, è infelice, e spande infelicità 
                intorno a sé. Se comunica male deliberatamente, è 
                un malvagio, o almeno una persona scortese, perché obbliga 
                i suoi fruitori alla fatica, all'angoscia o alla noia.
 Beninteso, perché il messaggio sia valido, essere chiari 
                e inutili, chiari e bugiardi, chiari e volgari, ma questi sono 
                altri discorsi. Se non si è chiari non c'è messaggio 
                affatto. Il mugolio animali è accettabile da parte degli 
                animali, dei moribondi dei folli e dei disperati: l'uomo sano 
                ed intero che lo adotta è un ipocrita o uno sprovveduto, 
                e si condanna a non avere lettori. Il discorso fra uomini, in 
                lingua d'uomini, è preferibile al mugolio animale, e non 
                si vede perché debba essere meno poetico di questo.
 Ma, ripeto, queste sono mie preferenze, non norme.
 Chi scrive è libero di scegliersi il linguaggio che più 
                gli si addice, e tutto può darsi: che uno scritto oscuro 
                per il suo stesso autore sia luminoso ed aperto per chi lo legge; 
                che uno scritto non compreso dai suoi contemporanei diventi chiaro 
                ed illustre decenni e secoli dopo.
 2
 Perché si scrive?
  Avviene 
                spesso che un lettore, di solito un giovane, chieda a uno scrittore, 
                in tutta la semplicità, perché ha scritto un certo 
                libro, o perché lo ha scritto così, o anche, più 
                generalmente, perché si scrive e perché gli scrittori 
                scrivono. A questa ultima domanda, che contiene le altre, non 
                è facile rispondere: non sempre uno scrittore è 
                consapevole dei motivi che lo inducono a scrivere, non sempre 
                è spinto da un motivo solo, non sempre gli stessi motivi 
                stanno dietro all'inizio ed alla fine della stessa opera. Mi sembra 
                che si possano configurare almeno nove motivazioni, e proverò 
                a descriverle; ma il lettore, sia egli del mestiere o no, non 
                avrà difficoltà a scovarne delle altre. Perché, 
                dunque si scrive?
 1) 
                Perché se ne sente l'impulso e il bisogno. E' questa, in 
                prima approssimazione, la motivazione più disinteressata. 
                L'autore che scrive perché qualcosa o qualcuno gli detta 
                dentro non opera in vista di un fine; dal suo lavoro gli potranno 
                venire fama e gloria, ma saranno un di più, un beneficio 
                aggiunto, non consapevolmente desiderato: un sottoprodotto, insomma. 
                Beninteso, il caso delineato è estremo, teorico, asintotico; 
                è dubbio che mai sia esistito uno scrittore, o in generale 
                un artista, così puro di cuore. Tali vedevano se stessi 
                i romantici; non a caso, crediamo di ravvisare questi esempi fra 
                i grandi più lontani nel tempo, di cui sappiamo poco, e 
                che quindi è più facile idealizzare. Per lo stesso 
                motivo le montagne lontane ci appaiono tutte di un solo colore, 
                che spesso si confonde con il colore del cielo.  2) 
                Per divertire o divertirsi. Fortunatamente, le due varianti coincidono 
                quasi sempre: è raro che chi scrive per divertire il suo 
                pubblico non si diverta scrivendo, ed è raro che chi prova 
                piacere nello scrivere non trasmetta al lettore almeno una porzione 
                del suo divertimento. A differenza del caso precedente, esistono 
                i divertitori puri, spesso non scrittori di professione, alieni 
                da ambizioni letterarie o non, privi di certezze ingombranti e 
                di rigidezze dogmatiche, leggeri e limpidi come bambini, lucidi 
                e savi, come chi ha vissuto a lungo e non invano. Il primo nome 
                che mi viene in mente è quello di Lewis Carroll, il timido 
                decano e matematico della vita intemerata, che ha affascinato 
                sei generazioni con le avventure della sua Alice, prima nel paese 
                delle meraviglie e poi dietro lo specchio. La conferma del suo 
                genio affabile si ritrova nel favore che i suoi libri godono, 
                dopo più di un secolo di vita, non solo presso i bambini, 
                a cui egli idealmente li dedicava, ma presso i logici e gli psicanalisti, 
                che non cessano di trovare nelle sue pagine significati sempre 
                nuovi. E' probabile che questo mai interrotto successo dei suoi 
                libri sia dovuto proprio al fatto che essi non contrabbandano 
                nulla: né lezioni di morale né sforzi didascalici. 
                 3) 
                Per insegnare qualcosa a qualcuno. Farlo, e farlo bene, può 
                essere prezioso per il lettore, ma occorre che i patti siano chiari. 
                A meno di rare eccezioni, come il Virgilio delle Georgiche l'intento 
                didattico corrode la tela narrativa dal di sotto, la degrada e 
                la inquina: il lettore che cerca il racconto deve trovare il racconto 
                e non una lezione che non desidera. Ma appunto, le eccezioni ci 
                sono, e chi ha sangue di poeta sa trovare ed esprimere poesia 
                anche parlando di stelle, di atomi, dell'allevamento del bestiame 
                e dell'apicoltura. Non vorrei dare scandalo ricordando qui La 
                scienza in cucina e l'arte di mangiare bene di Pellegrino 
                Artusi, altro uomo di cuore puro che non si nasconde la bocca 
                dietro la mano: non posa a letterato, ama con passione l'arte 
                della cucina spregiata dagli ipocriti e dai dispeptici, intende 
                insegnarla, lo dichiara, lo fa con la semplicità e la chiarezza 
                di chi conosce a fondo la sua materia, ed arriva spontaneamente 
                all'arte.  4) 
                Per migliorare il mondo. Come si vede, ci stiamo allontanando 
                sempre più dall'arte che è fine a se stessi. Sarà 
                opportuno osservare qui che le motivazioni di cui stiamo discutendo 
                hanno ben poca rilevanza ai fini del valore dell'opera a cui possono 
                dare origine; un libro può essere bello, serio, duraturo 
                e gradevole, per ragioni assai diverse per quelle per cui è 
                stato scritto. Si possono scrivere libri ignobili per ragioni 
                nobilissime, ed anche, ma più raramente libri nobili per 
                ragioni ignobili. Tuttavia provo personalmente una certa diffidenza 
                per chi "sa" come migliorare il mondo; non sempre, ma 
                spesso, è un individuo talmente innamorato del suo sistema 
                da diventare impermeabile alla critica. C'è da augurarsi che non possegga 
                una volontà troppo forte, altrimenti sarà tentato 
                di migliorare il mondo nei fatti e non solo nelle parole: così 
                ha fatto Hitler dopo aver scritto il Mein Kampf, ed ho 
                spesso pensato che molti altri utopisti, se avessero avuto energie 
                sufficienti, avrebbero scatenato guerre e stragi.
 5) 
                Per far conoscere le proprie idee. Chi scrive per questo motivo 
                rappresenta soltanto una variante più ridotta, e quindi 
                meno pericolosa, del caso precedente. La categoria coincide di 
                fatto con quella dei filosofi, siano essi geniali, mediocri, presuntuosi, 
                amanti del genere umano, dilettanti o matti.  6) 
                Per liberarsi da un'angoscia. Spesso lo scrivere rappresenta un 
                equivalente della confessione o del divano di Freud. Non ho nulla 
                da obiettare a chi scrive spinto dalla tensione: gli auguro anzi 
                di riuscire a liberarsene così, come è accaduto 
                a me in anni lontani. Gli chiedo però che si sforzi di 
                filtrare la sua angoscia, di non scagliarla così com'è, 
                ruvida e greggia, sulla faccia di chi legge: altrimenti rischia 
                di contagiarla agli altri senza allontanarla da sé. 7) 
                Per diventare famosi. Credo che solo un folle possa accingersi 
                a scrivere unicamente per diventare famoso; ma credo anche che 
                nessuno scrittore, neppure il più modesto, neppure il meno 
                presuntuoso, neppure l'angelico Carroll sopra ricordato, sia stato 
                immune da questa motivazione. Aver fama, leggere di sé 
                sui giornali, sentire parlare di sé , è dolce, non 
                c'è dubbio; ma poche fra le gioie che la vita può 
                dare costano altrettanta fatica, e poche fatiche hanno risultato 
                così incerto. 8) 
                Per diventare ricchi. Non capisco perché alcuni si sdegnino 
                o si stupiscano quando vengono a sapere che Collodi, Balzac, e 
                Dostoevskij scrivevano per guadagnare, o per pagare i debiti del 
                gioco, o per tappare i buchi di imprese commerciali fallimentari. 
                Mi pare giusto che scrivere solo per denaro sia pericoloso, perché 
                conduce quasi sempre ad una maniera facile, troppo ossequente 
                al gusto del pubblico più vasto e alla moda del momento. 
                 9) 
                Per abitudine. Ho lasciato ultima questa motivazione, che è 
                la più triste. Non è bello, ma avviene: avviene 
                che lo scrittore esaurisca il suo propellente, la sua carica narrativa, 
                il suo desiderio di dar vita e forma alle immagini che ha concepite; 
                che non concepisca più immagini; che non abbia più 
                desideri, neppure di gloria o di denaro; e che scriva ugualmente, 
                per inerzia, per abitudine, per "tener viva la firma". 
                Badi a quello che fa: su quella strada non andrà lontano, 
                finirà fatalmente col copiare se stesso. E' più 
                dignitoso il silenzio, temporaneo o definitivo. 3
 Scrivere un romanzo
 Dopo 
                trentacinque anni di apprendistato, e di autobiografismo camuffato 
                o aperto, un giorno ho deciso di scavalcare l'argine e di provare 
                a scrivere un romanzo, senza curarmi troppo della polemica in 
                corso, se il romanzo sia vivo o morto, e, se vivo, sia in buona 
                salute. Adesso che l'impresa è terminata, e il libro è 
                stampato e in libreria, ho l'impressione gradevole di essere di 
                ritorno da un viaggio esotico e, come tutti i reduci, provo il 
                desiderio di raccontare le cose viste e di "far vedere le 
                diapositive" agli amici. E' noto che qualche volta, a queste 
                esibizioni non richieste, gli amici si annoiano; se sì, 
                in questo caso non hanno che da voltare pagina.Cosa si prova a scrivere cose d'invenzione? Scrivere di cose viste 
                è più facile che inventare, e meno felice. E' uno 
                scrivere-descrivere: hai una traccia, scavi nella memoria prossima 
                o lontana, riordini i reperti (se ne hai talento), li cataloghi, 
                poi prendi una sorta di macchina fotografica mentale e scatti: 
                puoi essere un fotografo mediocre, o buono, o magari "artistico"; 
                puoi nobilitare le cose che ritrai, o riportarle in maniera impersonale, 
                modesta e onesta, o darne invece un'immaginedistorta, piatta, 
                sfuocata, scentrata, sotto o sovraesposta, ma in ogni caso sei 
                guidato, tenuto per mano dai fatti, hai terra sotto i piedi.
 Scrivere un romanzo è diverso, è un superscrivere: 
                non tocchi più terra, voli, con tutte le emozioni, le paure 
                e gli entusiasmi del pioniere in un biplano di tela, spago e compensato; 
                o meglio, in un pallone frenato a cui si sia tagliato l'ormeggio. 
                La prima sensazione, destinata a ridimensionarsi in seguito, è 
                quella di una libertà sconfinata quasi licenziosa. Puoi 
                sceglierti l'argomento o la vicenda che vuoi, tragica fantastica 
                o comica, lunare o solare o saturnina; puoi situarla in un tempo 
                che sta tra il Primo Giorno della Creazione (od anche prima, perché 
                no?) e l'oggi, anzi, il futuro più remoto, che ti è 
                lecito modellare a tuo piacere. Puoi ambientare la tua storia 
                dove vuoi; nel soggiorno di casa tua, nell'Empireo, alla corte 
                di Tamerlano, nella stiva di un peschereccio, dentro un globulo 
                rosso, in fondo a una miniera o in un bordello: insomma, in qualsiasi 
                luogo tu abbia visto, o in luoghi sentiti descrivere, o letti, 
                o visti al cinema, o in fotografia, o immaginati, immaginari, 
                immaginabili, non immaginabili.
 Tutta la Terra è tua anzi, il cosmo; e se il cosmo ti è 
                stretto, te ne inventi un altro che faccia al caso tuo. Se obbedisce 
                alle leggi della fisica e del buon senso, bene; se no va bene 
                lo stesso, o magari anche meglio; in ogni cado non scatenerai 
                nessuna catastrofe, tutt'al più qualche lettore pignolo 
                ti scriverà per esprimere urbanamente la sua delusione 
                o il suo dissenso. Insomma, a parte il tempo che avrai perduto, 
                non corri rischi superiori a quelli dello studente che fa il compito 
                in classe: alla peggio prenderai un brutto voto. Non è 
                un bel mestiere?
 Quanto ai personaggi, il discorso si fa complesso, su questo tema, 
                il ménage a tre fra l'autore, il personaggio e il lettore, 
                si sono scritti quintali di libri, ma essendo io ormai un addetto 
                ai lavori, mi permetto di dire la mia, ossia di proiettare le 
                mie diapositive. Anche per i personaggi si prova all'inizio l'impressione 
                di una libertà senza limiti. In astratto, tu hai su loro 
                un potere assoluto, quale nessun tiranno ha mai avuto sulla faccia 
                della terra. Puoi farli nascere nani o giganti, puoi affliggerli, 
                torturarli, ucciderli, resuscitarli; o donare loro la bellezza 
                e giovinezze eterne, la forza e la sapienza che tu non hai, la 
                felicità di ogni minuto (ma questa, sarai capace di descriverla 
                senza annoiare il tuo lettore?), l'amore, la ricchezza, il genio. 
                Ma solo in astratto: perché sei legato a loro più 
                di quanto non appaia. Ognuno di questi fantasmi è nato 
                da te, ha il tuo sangue, nel bene e nel male. E' una tua gemmazione. 
                Peggio è una tua spia, rivela una parte, le tue tensioni, 
                come quegli incastri di vetro che si usano per rivelare se la 
                crepa di un muro è destinata ad allargarsi. Sono un tuo 
                modo di dire "io": quando li fai muovere o parlare rifletti 
                a quello che fai, potrebbero dire troppo. Forse vivranno più 
                a lungo di te, perpetuando i tuoi vizi ed errori.
 Veramente i personaggi di un libro sono creature strane. Non hanno 
                pelle né sangue né carne, hanno meno realtà 
                di un dipinto o di un sogno notturno, non hanno sostanza che di 
                parole, ghirigori neri sul foglio di carta bianca, eppure puoi 
                intrattenerti con loro, conversare con loro attraverso i secoli, 
                odiarli, amarli, innamorartene. Ognuno di loro è depositario 
                di certi elementari diritti, e sa farli valere. La tua libertà 
                di autore è solo apparente. Se, una volta concepito il 
                tuo homunculus, tu lo contrasti, se gli vuoi imporre un gesto 
                avverso alla sua natura, o vietargli un atto che gli sarebbe congeniale, 
                incontri una resistenza, sorda ma indubbia: come se tu volessi, 
                comandare alla tua mano di toccare un ferro rovente, o un oggetto 
                che ti (che le) ripugna. Lui, il non-esistente, è lì, 
                c'è, pesa, spinge contro la tua mano: vuole e disvuole, 
                silenzioso e testardo. Se tu insisti, intristisce. Si apparta, 
                cessa di collaborare con te, di suggerirti le sue battute; perde 
                corpo, diventa piatto, sottile, bianco. E' carta, e ritorna in 
                carta. Anche per un altro verso la tua libertà d'invenzione 
                è apparente. Allo stesso modo che impossibile trasformare 
                una persona di carne in un personaggio, farne cioè una 
                biografia obiettiva non distorta, così è impossibile 
                eseguire l'operazione inversa, coniare un personaggio senza travasargli 
                dentro, oltre ai tuoi umori d'autore, anche frammenti di persone 
                che tu hai incontrate, o di altri personaggi.
 
  La 
                prima impossibilità è dimostrata da millenni di 
                letteratura. La resa del ritratto scritto è sempre bassa, 
                anche nei testi migliori: l'intera Odissea non basta a darci l'immagine 
                di Ulisse, ma neppure nel romanzo di taglio classico, o nella 
                biografia dichiarata, in cui l'autore si affanna a descriverti 
                la statura del suo soggetto, il colore dei suoi capelli, occhi 
                e carnagione, la sua corporatura, il suo parlare, ridere, camminare, 
                gesticolare: neppure qui, mai, per essenziale insufficienza dei 
                nostri mezzi espressivi, si arriva alla mimesi. Ci arrivano con 
                migliore approssimazione il cinematografo e la televisione; infatti, 
                le riprese filmate di persone scomparse ci commuovono in misura 
                ben maggiore dei ritratti scritti. Ci turbano: colui che vediamo 
                muoversi e parlare sullo schermo, davvero non è morto del 
                tutto. E se gli ologrammici regaleranno una terza dimensione, 
                il turbamento sarà tremendamente maggiore, farà 
                pensare alla magia nera. Per uno scrittore, tentare di competere 
                con questi mezzi è tempo perduto. Ma altrettanto ferrea mi pare sia l'impossibilità di creare 
                un personaggio dal nulla. Ho già detto che fatalmente l'autore 
                vi trasferisce (sapendolo o non, volendolo o non, talora accorgendosene 
                solo quando rilegge le sue pagine anni dopo averle scritte) una 
                parte di sé; ma il resto, il non-sé, non è 
                mai del tutto inventato: brulica di ricordi: anche questi, consapevoli 
                o inconsapevoli, volontari o non. Il personaggio che credi ingenuamente 
                di aver fabbricato nella tua officina si rivela una chimera, un 
                mosaico a tasselli, di istantanee scattate chissà quando 
                e relegate nel solaio della memoria. Un congelamento, insomma, 
                che sarà tuo merito aver reso vivo e credibile; ma di quest'arte, 
                di ricavare un organismo da un coacervo, non credo si possano 
                dare regole certe.
 Si possono tentare regole negative: non è necessario che 
                il tuo personaggio sia virtuoso, né simpatico, né 
                savio; neppure è necessario che sia coerente con se stesso, 
                anzi, forse, è vero il contrario. Il personaggio troppo 
                coerente è prevedibile, cioè noioso: non ha scatti, 
                è programmato, non ha arbitrio. Dev'essere incoerente come 
                tutti noi lo siamo, senza umore vario, sbagliare, perdersi, crescere 
                di pagina in pagina, o declinare, o spegnersi: se rimane uguale 
                a se stesso non sarà il simulacro di una statua, cioè 
                un doppio simulacro.
 Beninteso, al di sotto di questa incoerenza sta una profonda coerenza, 
                ma definirla è al di là delle mie forze; se sia 
                stata rispettata lo si sa dopo, a pagina scritta, e il segnale 
                è dato dal sangue del lettore, che per qualche istante 
                gira un po' più caldo e un po' più in fretta.
 4
 A un giovane lettore
 Caro 
                Signore,spero che Lei mi perdonerà se alla Sua lettera del
 
                rispondo pubblicamente, beninteso omettendo il Suo nome e quanto 
                altro potrebbe rivelare la Sua identità. Tuttavia a beneficio 
                di altri che si trovano nella Sua condizione, o in condizione 
                simile, e che come Lei mi hanno scritto, mi trovo costretto a 
                palesare qui almeno questo: che Lei ha ventisette anni, che vive 
                in una piccola città, che ha compiuto senza eccessivi sforzi 
                il Liceo Classico, e che ora ha trovato faticosamente un impiego 
                modesto, che Le dà poco guadagno, una certa sicurezza e 
                scarse gratificazioni.
 Lei desidera scrivere, e più precisamente narrare; ed infatti 
                scrive, ma vuole da me un consiglio e un indirizzo: come scrivere. 
                Lei non mi pone, e non si pone, il dilemma fondamentale, cioè 
                se scrivere o no, e così facendo mi mette fin dall'inizio 
                in imbarazzo. Infatti, da quanto lei mi dice si desume che Lei 
                si rappresenta il raccontare come un mestiere, mentre secondo 
                me non lo è.
 In Italia, oggi, ogni mestiere coincide con una garanzia: chi 
                vive di scrittura, garanzie non ne ha. Di conseguenza, i narratori 
                puri, quelli che ricavano di che vivere soltanto dalla loro creatività, 
                sono pochissimi: non più di qualche decina. Gli altri scrivono 
                a ore perse, dedicando il resto del loro tempo alla pubblicità, 
                al giornalismo, all'editoria, al cinema, all'insegnamento o ad 
                altre attività che con lo scrivere non hanno nulla in comune. 
                Perciò Le raccomando in primo luogo, anzi, Le prescrivo, 
                di tenersi caro il Suo impiego.
 Se veramente Lei ha sangue di scrittore, il tempo per scrivere 
                lo troverà comunque, Le crescerà intorno; e del 
                resto, il Suo lavoro quotidiano, per quanto noioso, non potrà 
                non fornirle le materie prime preziose per il Suo scrivere serale 
                o domenicale, a partire dai contatti umani, a partire dalla noia 
                stessa. La noia è noiosa per definizione, ma un discorso 
                sulla noia può essere un esercizio vitale ed appassionante 
                per il lettore: Lei che ha fatto gli studi classici certamente 
                già lo sa.
 Lei però salta questo bivio ed aspetta da me consigli pratici 
                e specifici: i segreti del mestiere, anzi, del non-mestiere. Esistono, 
                non lo posso negare, ma per fortuna non hanno validità 
                generale: dico "per fortuna" perché se l'avessero, 
                tutti gli scrittori scriverebbero allo stesso modo, generando 
                così una mole di noia tale da vanificare qualunque tentativo 
                di farla passare per leopardiana, e da far scattare per sovraccarico 
                gli interruttori automatici dei lettori più indulgenti. 
                Quindi mi dovrò limitare ad esporLe i miei segreti personali 
                col rischio di costruirmi con le mie stesse mani il concorrente 
                che, a dispetto della mia "introduzione", mi scaccerà 
                dal mercato.
 Il primo segreto è il riposo nel cassetto, e credo che 
                abbia valore generale. Fra la prima stesura e quella definitiva, 
                deve passare qualche giorno; per ragioni che ignoro, per un certo 
                tempo l'occhio di chi scrive è poco sensibile al testo 
                recente. Bisogna, per così dire, che l'inchiostro si sia 
                asciugato bene; prima i difetti sfuggono: ripetizioni, lacune 
                logiche, improprietà, stonature.
 Un ottimo surrogato al riposo può essere costituito da 
                un lettore-cavia, dotato di buon senso e buon gusto, non troppo 
                indulgente: il/la coniuge, un amico/a. Non un altro scrittore: 
                uno scrittore non è un lettore tipo, ha sue preferenze 
                e fisime peculiari, davanti a un testo brutto è sprezzante, 
                davanti a uno bello è invidioso. A questo precetto del 
                riposo sto contravvenendo in questo stesso momento, perché 
                appena scritta questa lettera la imposterò: così 
                Lei potrà verificarne la validità. Dopo la maturazione, 
                che assimila uno scritto al vino, ai profumi ed alle nespole, 
                viene l'ora di cavare dal pieno. Quasi sempre ci si accorge che 
                si è peccato per eccesso, che il testo è ridondante. 
                Ripetitivo, prolisso: o almeno, ripeto, così capita a me. 
                Inguaribilmente, nella prima stesura io mi indirizzo ad un lettore 
                ottuso, a cui bisogna martellare i concetti in testa. Dopo lo 
                smagrimento, lo scritto è più agile: si avvicina 
                a quello che, più o meno consapevolmente, è il mio 
                traguardo, quello del massimo di informazione con il minimo ingombro.
 Noti che al massimo di informazione si può arrivare per 
                diverse vie, alcune molto sottili; una, fondamentale, è 
                la scelta tra i sinonimi, che quasi mai sono equivalenti tra loro. 
                Ce n'è sempre uno che è "più giusto" 
                degli altri: ma spesso bisogna andarlo a cercare, a seconda del 
                contesto, nel vecchio Tommaseo, o fra i neologismi del Nuovo Zingarelli, 
                o fra o fra i barbarismi stupidamente vietati dai tradizionalisti, 
                o addirittura fra i termini di altre lingue; se il termine italiano 
                manca, perché fare acrobazie?
 In questa ricerca, mi pare che sia importante mantenere viva la 
                consapevolezza del significato originario di ogni vocabolo; se 
                Lei ricorda ad esempio che "scatenare" voleva dire "liberare 
                dalle catene", potrà usare il termine in modo più 
                appropriato ed in sensi meno frusti. Non tutti i lettori si accorgeranno 
                dell'artificio, ma tutti percepiranno almeno che la scelta non 
                è stata ovvia, che lei ha lavorato per loro, che non ha 
                seguito la linea della massima pendenza.
 Dopo novant'anni di psicoanalisi, e di tentativi riusciti o falliti 
                di travasare direttamente l'inconscio sulla pagina, io provo un 
                bisogno acuto di chiarezza e razionalità, e credo che la 
                maggior parte dei lettori la pensino nello stesso modo. Non è 
                detto che un testo chiaro sia elementare; può avere vatri 
                livelli di lettura, ma il livello più basso, secondo me, 
                dovrebbe essere accessibile ad un pubblico vasto. Non abbia paura 
                di fare un torto al suo es imbavagliandolo, non c'è pericolo 
                "l'inquilino del piano di sotto" troverà comunque 
                il modo di manifestarsi , perché scrivere è denudarsi: 
                si denuda anche lo scrittore più pulito. Se denudarsi non 
                Le piace, si accontenti del Suo lavoro attuale. Dimenticavo di 
                dirLe che, per scrivere, bisogna avere qualche cosa da scrivere.
 Gradisca i migliori saluti.
 
 Suo
 Primo Levi
 
 
 
 
 
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