DUE ARRVI

Raduan Nassar

'L'arrivo' (capitolo primo)

E quando il pomeriggio giunsi a casa mia, là al n. 27, lei già mi aspettava passeggiando sul prato, venne ad aprirmi il portone perché io entrassi con l'auto, e non appena uscii dal garage salimmo insieme le scale fino al terrazzo, e là entrando spalancai le tende al mezzo e ci sedemmo sulle poltrone di vimini, con gli occhi in su, rivolti al sole calante, e stavamo tutti e due in silenzio quando lei mi domandò 'cos' hai', ma io, disperso, me ne stetti distante e quieto, col pensiero disciolto nel sanguigno, laggiù a ponente, e soltanto per l'insistenza del domandare risposi 'hai già cenato' e siccome disse 'più tardi', io a quel punto mi alzai e andai senza fretta in cucina (lei mi venne appresso), presi un pomodoro nel frigo, lo sciacquai nel lavandino, poi presi il salino dall'armadietto sedendomi subito al tavolo (lei all'altro canto accompagnando ogni movimento mio, seppur io svogliato fingessi di non accorgermene) e sempre sotto la mira dei suoi occhi mi misi a mangiare il pomodoro, salando poco a poco ciò che mi restava in mano, concentrandomi con impegno simulato nel mordere per mostrare i denti forti come denti di un cavallo, ben sapendo che i suoi occhi non si divincolavano dalla mia bocca, e sapendo che sotto al suo silenzio lei si contorceva d'impazienza, e sapendo sopra ogni cosa che più le appetivo quanto più le apparissi indifferente, io so solo infine che, quando smisi di mangiare il pomodoro, la lasciai là nella cucina e andai a prendere la radio appoggiata sullo scaffale della sala, e senza tornare in cucina ci incontrammo ancora in corridoio, e senza dir parola entrammo quasi ad un passo nella penombra della camera.

'L'arrivo' (ultimo capitolo)

E quando giunsi a casa sua là al n.27, mi stupì che il portone fosse ancora aperto, giacché il pomeriggio al termine avanzava scuro, e notai, scendendo dalla macchina, un'atmosfera precoce che s'insediava tra gli arbusti, un poco impressionandomi la gravità nera ed eretta dei cipressi, e lì ai piedi della scala notai pure che la porta del terrazzo era rimasta spalancata, fatto che mi sembrò un segnale ridondante, quasi ostensivo che lui mi stesse aspettando, sebbene l'espediente servisse anzitutto per ricordarmi che anche tardi sarei comunque venuta, incapace di dispensarmi le ricompense della visita, e io perciò pensierosa salii fino al pianerottolo e sostai un momento, ma subito entrai nel terrazzo, vedendomi vigilata da Bingo, un bastardino iroso che eseguiva esemplarmente la sua funzione di guardia alla clausura, accucciato sul cuscino della poltrona in rigorosa immobilità, perlustrando l'ora fosca con la lamina dello sguardo, ma non ci feci caso, oltreché per abitudine, perché già avevo notato il foglio lì sul tavolo su cui lessi avvicinandomi, ma senza raccogliere il biglietto, senza neppur curvarmi, 'sono in camera', un messaggio nel suo stile - breve e scarnificato dal calcolo, per di più scritto intenzionalmente in una forgiata tortuosità di scolaro - ma dimenticai all'istante la gratuità simulata dell'informazione ed entrai in salotto, facendo senza fretta l'inventario dei suoi vestigi sparsi sul pavimento, i due cuscini che poco prima gli erano serviti da poggiatesta, il paralume di ferro a lato, il termos sul tavolino, il portacenere a distanza di braccio, e anche un compendio aperto rovesciato al suolo, il cui dorso esposto rimetteva direttamente al contenuto di scartafaccio, senza parlar dei sandali usurati di cuoio grezzo, abbandonati con sufficienza come sandali di bambino, cocci isolati l'un dall'altro che io controvoglia riassumevo in un mosaico, restando ferma lì per un momento, considerando la densità quieta della casa, 'la mia cella' come aveva seccamente commentato un giorno, mescolando nel suo stoicismo cose monastiche e mondane, finché mi smossi da quei frammenti e attraversai la stanza intera, e incrociai il corridoio per raggiungere la porta della camera, là, beccheggiando vagamente alla luce tranquilla di una candela: sdraiato sul fianco, il capo quasi a toccare le ginocchia rannicchiate, lui dormiva, non era la prima volta che fingeva questo sonno infantile, e non sarebbe stata la prima in cui mi sarei prestata ai suoi capricci, siccome fui presa repentinamente da una virulenta vertigine di tenerezza, così subita ed inattesa, che mal contenni l'impeto di aprirmi intera e prematura per riaccogliere in me quell'enorme feto.


(Tratto dal romanzo Um copo de cólera. Raduan Nassar. Rio de Janeiro: Cia. das Letras, 1978. Traduzione italiana Un calice di collera. Alessandra Vannucci, 2001)


Nella foto: Raduan Nassar
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