|  LA LAVAGNA DEL SABATO  - 
                 13 aprile 2002   
 LA 
                GUERRA CONTINUA
 IL MONDO IN GABBIA
 Isidoro 
                D. Mortellaro Che 
                paradosso! E' toccato proprio a Kofi Annan, mentre gli si consegnava 
                a dicembre il Premio Nobel per la pace, rendere l'ennesimo tributo 
                alla guerra, alla violenza, all'11 settembre come sigillo e forgia 
                della storia, del tempo: "Siamo entrati nel terzo millennio 
                per una porta di fuoco". Anche in questa limpida e terrificante 
                rivelazione, però, straordinario s'avverte il contrasto 
                tra la precisa sottolineatura della censura, del colpo subito 
                - anche questo secolo, fin dai primi passi, "è già 
                stato violentemente disilluso di qualsiasi speranza ce il progresso 
                verso la pace e la prosperità globale sia inevitabile" 
                - e l'incertezza dei nuovi orizzonti. Si rinvia al terzo "millennio", 
                all'indefinito per eccellenza. Finisce così col prevalere 
                quel 'nulla sarà come prima' che ha campeggiato fin dalle 
                prime ore sulla dissoluzione delle Twin Towers e che, riproposto 
                a distanza di mesi, rischia ormai di produrre nebbia e approssimazione.In verità, proprio il trascorrere di dicembre e del 2001 
                può aiutare. Coincide con alcune tappe e perciò 
                con primi bilanci: la prima fase della 'guerra infinita', all'Afghanistan; 
                ma anche il primo anno di presidenza del giovane Bush'. Con le 
                perimetrazioni permesse da questi paletti, restringendo così 
                l'orizzonte, è allora possibile ritornare anche sull'11 
                settembre e sul suo significato, per meglio cogliere i processi 
                lì scatenati, provare a schizzarne dinamiche e traiettorie.
 L'ultimo 
                muro Tanti 
                di fronte all'11 settembre, a quelle atomiche urbane lanciate 
                su New York e nei video, nel cervello e nella coscienza del pianeta, 
                hanno evocato e istituito un confronto con Pearl Harbour. In scia, 
                quasi tutti hanno sottolineato la fine dell'invulnerabilità 
                degli Usa, ricavandone, in molti, un ennesimo millenaristico termine: 
                The end, non più della Storia, ripresa ora in sfrenato 
                galoppo; ma magari della sicurezza occidentale o, secondo vedute 
                e convinzioni, della globalizzazione, piombata ora dalla Belle 
                Epoque nel terrore. Si è scavato poco, invece, in un tratto 
                pur insistito del gesto terroristico: la scelta ultima del kamikaze. 
                Stando all'Osama Bin Laden del video 'ritrovato' e 'restaurato'. 
                Dappertutto, con un'istantaneità da globalizzazione inattinta 
                anche dall'apocalisse di Hiroshima, un brivido ha raggelato e 
                annichilito il pianeta: c'è chi fa leva sulla proprio vita 
                per farla esplodere, moltiplicata all'infinito dalle reti e dai 
                simboli della globalizzazione; c'è chi osa e costringe 
                a varcare la soglia della mutua distruzione. Con l'11 settembre 
                non è crollata soltanto una paratia che divideva da un'epoca 
                di indistinto terrore. È stato piuttosto abbattuto un muro 
                che aveva funzionato da architrave per un'intera età, risorsa 
                e condanna della guerra fredda. Come deterrenza nucleare, per 
                quasi mezzo secolo aveva trattenuto, congelato il mondo e l'umanità 
                sull'orlo dell'abisso, del suicidio. Teorizzata e moltiplicata 
                fino all'inverosimile come minaccia permanente, la M. A. D., Mutual 
                Assured Destruction, aveva rinchiuso le due super potenze 
                nel rilancio e nel ricatto della corsa agli armamenti. Le aveva 
                condannate a vivere come 'scorpioni in bottiglia', ma anche esaltate 
                come reggenti del mondo  sospeso 
                nella condizione, tratteggiata da Raymond Aron, di "pace 
                impossibile, guerra improbabile." Nè quel ricatto 
                s'era dissolto con la fine del bipolarismo. Era sopravvissuto 
                come risorsa estrema della potenza egemone, gli Usa, attenti, 
                di fronte alle incognite della globalizzazione, non solo a conservarla, 
                come ancoraggio, morso del mondo messo a soqquadro dalla globalizzazione 
                neo liberista, ma a rafforzarla nel monopolio di nuove armi e 
                scudi stellari. È agli Usa di 'Bush il giovane', del rinnovato 'scudo spaziale' 
                che il terrorismo sottrae la minaccia e l'arma della mutua 
                distruzione assicurata. Non solo osando l'impensabile, l'unthinkable 
                su cui s'erano arrovellati per decenni scienziati e strateghi, 
                schiere di Stranamore, ma anche negando un punto dì applicazione 
                alla dissuasione nucleare, sottraendosi allo sguardo e alla mira, 
                alla rappresaglia dell'iperpotenza americana. Si è parlato 
                di guerra asimmetrica per raffigurare la dissoluzione del terreno 
                di battaglia tra opposte statualità e la sua dispersione 
                nelle reti e soggettività del post-guerra fredda. Minore 
                attenzione si è piuttosto prestata alla straordinaria simmetricità 
                con cui il terrorismo ha mimato e riprodotto l'asimmetria messe 
                in campo dall'Occidente e dagli Usa con la guerra celeste, 
                la guerra intelligente, condotta da lontano, al riparo 
                dalla risposta e dai colpi dell'aggredito. Da ambo i campi si 
                sceglie simmetricamente invisibilità e distanza, 
                ancorchè conquistate e conservate i forme e con mezzi diversi.
 L'11 settembre viene infranta la pietra angolare su cui gli Usa 
                avevano conquistato a sè il primato e al mondo un rovinoso 
                equilibrio. Ne è ben conscio - e non a caso - il vice presidente 
                Dick Cheney, ora vero uomo ombra della presidenza e 
                pivot di tutta la squadra di cold warriors, strateghi 
                della guerra fredda, che contorna Bush e che ora dirige le operazioni 
                di guerra. IN unam delle sue rare interviste, Cheney ha espresso 
                con chiarezza il salto: "Un tempo c'era la guerra fredda, 
                ma noi ci difendevamo con la deterrenza...ora siamo vulnerabili 
                come società, perchè ci sono persone che ci vogliono 
                morti e sono pronte a morire per ottenerlo".
 Con il sistema della mutua distruzione crolla l'ultimo muro. 
                Aveva delimitato i grandi spazi del bipolarismo, degli imperi 
                contrapposti. ma anche garantito un confine, un contenimento, 
                una misura della potenza spaventosa accumulata dalla guerra moderna. 
                E non è un caso che ora, dopo l'11settembre, non vi sia 
                più remota nè freno. L'atomica - arma fondativa 
                della globalizzazione, dell'unificazione del mondo e dell'umanità 
                in comunità di destino - torna a popolare l'incubo planetario 
                quotidiano. Osama Bin Laden nel suo primo proclama, in risposta 
                all'attacco in Afghanistan addita Hiroshima e Nagasaki a peccato 
                originale degli Usa e dell'Occidente, a moderno confine tra 
                credenti e miscredenti. Di converso Rumsfeld non esclude l'utilizzo 
                della bomba. E l'atomica torna a farsi minaccia sul confine indo-pakistano 
                o nel triangolo mediorientale disegnato da Israele, Iran ed Iraq 
                in cui matura la nuova puntata della guerra al terrore . In attesa, 
                la dismisura promessa dal suo utilizzo fa da padrona nella 
                condotta concreta del conflitto, che, come Guerra Santa, del Bene 
                contro il Male, del 'Dio è con Noi', diventa onnipotenza 
                tecnologica, escalation nell'utilizzo di ordigni sempre più 
                terrificanti. Ossessionati dal Ground Zero sempre più 
                larghi e profondi nelle montagne afghane. Conquista attenzione 
                e audience uno dei conservatori più battaglieri, 
                Charles Krauthammer, che rifacendosi all'insegnamento di Bin laden 
                - "quando il popolo vede un cavallo forte e uno debole per 
                sua natura sceglie quello forte2 - pontifica dalle colonne del 
                "Washington Post": "Come vincere una guerra santa? 
                Bombarda i guerrieri della jihad e intimidisci gli spettatori...la 
                vittoria cambia tutto". A ruota, Kissinger, dimentico dell'abisso 
                volta a volta contornato e evitato, si produce nella revisione 
                a tutto campo dell'ultimo mezzo secolo e nell'elogio sperticato 
                di guerra e violenza: guai ad affidarsi "unicamente alla 
                diplomazia", si ripeterebbe "l'errore degli ultimi cinquant'anni". 
                E conclude sulla vacuità di una lotta al terrorismo risolta 
                nella diplomazia, "non appoggiata dalla minaccia della forza".
 È il logico approdo di una corsa che ha abbattuto ogni 
                ostacolo e che ora, alla chiusura del decennio aperto dalla Guerra 
                del Golfo, allinea, assieme a una miriade di conflitti civili, 
                più o meno locali, ben tre guerre globali, lanciate nel 
                mondo in nome e per conto dell'umanità.
 Dismisure 
                e metamorfosi Ma 
                è nella risposta all'attacco terroristico che la dismisura 
                della guerra si rivela appieno, mettendo a nudo non già 
                un ritorno della politica e del Leviatano, dopo la sbornia globalista 
                del mercato, ma le loro iperboliche metamorfosi nel mondo, 
                nella globalizzazione del XXI secolo.Contrariamente alla vulgata dominante nella maggior parte dei 
                commenti e delle analisi, il Congresso americano non ha largheggiato 
                con George W. Bush nella concessione dei poteri di guerra. Anzi. 
                Il 14 settembre, nelle aule del Senato e della Camera dei Rappresentanti 
                riuniti per votare la guerra, prevale ancora il sospetto per un 
                presidente imposto, al paese e agli elettori spaccati, da un colpo 
                di mano della Corte Suprema. Aleggiano diffidenza e sconcerto 
                per chi, sballottolato per cieli e basi segrete nelle prime ore 
                dopo l'attacco, si è rivelato clamorosamente spaesato e 
                assente. Anche così si spiega la strada scelta da deputati 
                e senatori. Sicuramente quella della guerre. Lo sottolinea, se 
                ce n e fosse bisogno, il ricorso alla War Power Resolution, 
                la Risoluzione sui poteri di guerra con cui il Congresso 
                era riuscito finalmente, nel novembre 1973, a disciplinare e ridurre 
                l'ampia discrezionalità conquistata in materia dalla presidenza, 
                in particolare con l'escalation vietnamita. Viene però 
                fatta una scelta precisa fra le tre possibili soluzioni che la 
                legge contempla per dare la parola alle armi: una formale dichiarazione 
                di guerra; una autorizzazione legislativa; una risposta improvvisa 
                a una emergenza. Le Camere escludono la dichiarazione di guerra: 
                si spoglierebbero d'ogni potere a favore della presidenza. Provano 
                a tenere le briglie al collo di Bush e scelgono così l'autorizzazione 
                legislativa, con il voto su una risoluzione congiunta: è 
                una strada che la legge costella di controlli periodici e rapporti 
                al Congresso. L'illusione di mantenere il controllo è però 
                vanificata ab imis dall'oggetto stesso della risoluzione: 
                scegliere la guerra in risposta al terrorismo, all'iperterrorismo 
                dell'11 settembre. È come acchiappar mercurio a mani nude: 
                fatica vana e infinita. La lettura del dispositivo rivela subito 
                come l'oggetto sfugga a qualsiasi misura o contenimento: intanto 
                alla forma tradizionale della guerra che, nell'individuare il 
                nemico, si dà spazi di intervento e manovra, obiettivi 
                precisi su cui mirare e vie da percorrere e tempi, quelli 
                della propria e dell'altrui resistenza e sopravvivenza. Niente 
                di tutto questo. Nelle risoluzione si legge che "il presidente 
                è autorizzato a usare tutta la forza appropriata e necessaria 
                contro quelle nazioni, organizzazioni o persone che, a suo giudizio, 
                hanno pianificato, autorizzato, commesso o agevolato l'attacco 
                terroristico dell'11 settembre o hanno ospitato simili organizzazioni 
                e persone, anche per prevenire ogni futuro atto di terrorismo 
                internazionale contro gli Usa". La carta bianca, negata nelle 
                forma, è imposta dalla sostanza di una guerra su scala 
                planetaria, dichiarata ad un nemico senza volto, che il presidente 
                degli Usa volta a volta potrà individuare e nominare anche 
                per prevenire attacchi futuri. Si gareggia con l'Onnipotente: 
                si punisce non solo il 'peccato di opere', ma anche quello di 
                'pensiero. Di lì a poco Bush aggiungerà quello di 
                'omissione' quando, all'inizio dei bombardamenti sull'Afghanistan, 
                ma poi anche nel massimo consesso mondiale, all'assemblea dell'Onu, 
                proclamerà che "ogni nazione dovrà scegliere. 
                In questa guerra non c'è neutralità".
 Rispetto ad un conflitto che dilaga nel mondo, si stenta ad enumerare 
                tempi, obiettivi e forme. Esponenti dell'amministrazione Usa parleranno 
                di oltre 60 possibili scenari. da bush e dai suoi collaboratori 
                arriveranno profezie di guerre che sorpasseranno le generazioni 
                e le forme conosciute. Figlie e profeti della società dell'informazione 
                dovranno abituarsi al segreto, a operazioni invisibili. la comunicazione 
                deve cedere il passo alla deformazione. Non sorprende ceh 
                per battezzare l'annuncio non di una semplice guerra, ma di una 
                nuova fase della storia degli Usa e del mondo, si sia scelto il 
                nome di Infinitive Justice. Inappropriato il sostantivo 
                sommamente se applicato alla guerra. Ma l'aggettivazione esprimeva 
                a pieno la dismisura di intenzioni e processi. Nomina sunt 
                consequentia rerum: gli Usa hanno avviato il mondo per una 
                guerra senza confini, globale, e perciò inevitabilmente 
                guerra civile. Anche questo è un portato dell'era atomica, 
                quando il conflitto contempla inevitabilmente l'umanità 
                come bersaglio e non conosce più il nemico esterno, non 
                sa e non può più trattenersi in spazi e contenitori 
                dati.
 A rafforzare la deriva verso un conflitto civile planetario hanno, 
                però, contribuito potentemente la crisi manifesta dell'Onu 
                e la subalternità del Consiglio di Sicurezza rispetto alla 
                lettura di scenari e conflitti proposta dagli Usa. Le deliberazioni 
                dell'Assemblea generale e del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni 
                Unite del 12 settembre provvedevano alla pronta condanna dell'atto 
                terroristico, alla più piena attivazione di tutti gli Stati 
                nella lotta al terrorismo, considerato, nella risoluzione del 
                Consiglio di Sicurezza, come "una minaccia alla pace e alla 
                sicurezza internazionale", sulla scia di precedenti risoluzioni 
                che individuavano nella "soppressione del terrorismo internazionale 
                un atto essenziale per preservare la pace e la sicurezza internazionale".
 E' con la deliberazione del 28 settembre, successiva alla concessione 
                dei poteri di guerra a Bush, che il Consiglio di sicurezza - opportunamente 
                pungolato dal rappresentante Usa Jhon Negroponte - imbocca una 
                via senza ritorno. Come già nella Risoluzione del 12, si 
                provvede a "riaffermare il diritto naturale di legittima 
                difesa individuale i collettiva". Ma si tratta, come ben 
                chiarisce l'Art. 51 della carta delle Nazioni Unite, di un diritto 
                naturale esplica "rispetto ad un attacco armato" 
                e "fintantoché il Consiglio di sicurezza non abbia 
                preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza 
                o internazionale." Non sta al Consiglio di sicurezza o alle 
                Nazioni Unite riconoscerlo o meno. Insistere nel riconoscimento, 
                senza assumere alcuna misura volta ad assorbire o sostituire l'autodifesa 
                in atto, significa solo legittimare, come ha già chiarito 
                Gianni Ferrara, le decisioni americane. Queste però, in 
                base alla deliberazione congiunta da parte del congresso del 14 
                ottobre, non sono affatto rivolte solo all'Afghanistan, come sottolinea 
                Ferrara. Consegnano al presidente e alle forze armate americane 
                un mandato e un raggio di azione planetari. E perciò, quando 
                il Consiglio di sicurezza con i commi successivi, decide il 28 
                settembre di chiedere a tutti gli stati di prevenire o reprimere 
                ogni atto terroristico, provvede all'interruzione e al prosciugamento 
                di canali e fonti di finanziamento, scompaginando reti di reclutamento 
                e addestramento, collaborando sul piano internazionale con lo 
                scambio di informazione, e segnalazioni, mobilitandosi insomma 
                a ogni livello contro ogni forma di terrorismo internazionale, 
                disfatto e formalmente chiede ad ogni Stato di disporsi a terminale 
                e ganglio dell'azione globalmente proclamata dagli Usa, ma amministrata 
                su scala mondiale dalla presidenza americana e dai suoi vari bracci 
                esecutivi. Quanto e come gli Usa siano pronti a utilizzare nuovi 
                spazi aperti alla propria azione da questa risoluzione del consiglio 
                di Sicurezza diviene chiari il 7 ottobre, mentre iniziano i bombardamenti 
                nell' Afghanistan. Il rappresentante permanente degli Usa all' 
                Onu indirizza al Presidente del Consiglio di Sicurezza in cui 
                notifica l'avvio delle azioni militari in Afghanistan, " 
                nell'esercizio di diritto naturale di legittima difesa" dagli 
                atti terroristici dell'11 settembre: una 'legittima difesa' preannunciata 
                dalla Risoluzione del 28 settembre.
 L'effetto di questa richiesta globale dell'Onu di mettere il mondo 
                in sicurezza, in coda e coordinamento all'azione americana, è 
                duplice. Da un lato, l'organizzazione della lotta globale al terrorismo, 
                si muta in legittimazione e incrudelimento, nei punti più 
                caldi del pianeta, di conflitti civili o intestini preesistenti 
                o preannunciati. Sono in molti, e tra i più potenti, a 
                celebrare sacrifici sull'altare di quella guerra santa: kla Russia 
                di Putin offre la Cecenia, la Cina le sue minoranze musulmane 
                o buddiste, Israele prova a stroncare l'Intifada, l'India chiede 
                che il Pakistan smetta di fomentare il Kashmir, per rimanere ai 
                casi più noti. A ruota segue la militarizzazione di ordinamenti, 
                la stretta di vite e l'espansione della legislazione anti-terroristica, 
                a imitazione e amplificazione delle restrizioni varate negli Usa 
                in materia di libertà civili, di movimento e di difesa 
                legale. Dall'altro lato, gli Stati Uniti vedono moltiplicare il 
                loro potere di coalition building, la capacità di assemblare 
                alleanze e coalizioni il cui unico denominatore è la battaglia 
                dei propri interessi e prerogative, nazionali o imperiali. Finora 
                agli Usa non è costato nulla tessere queste reti, fino 
                a potersi permettere il lusso di tenere in riserva la Nato, prontamente 
                scesa in campo nell'inedita attivazione dei meccanismi per la 
                difesa comune.
 La 
                presidenza imperiale  
                Appropriatamente Edward Luttwak si è rifatto alla Santa 
                Alleanza per provare a delineare contorni e baricentro di questa 
                inedita costellazione di poteri. Il paragone è felice e 
                potrebbe sprigionare ampie possibilità analitiche se inserito 
                in un giudizio adeguato sul profilo internazionale dell'amministrazione 
                Bush. Ma in materia quasi unanimemente hanno imperversato, dapprima, 
                la fascinazione per il nuovo corso di politica estera inaugurato 
                dalla presidenza Bush, in risposta all'11 settembre, e, successivamente, 
                lo sconcerto, a mano a mano che sui campi più disparati 
                e sui capitoli più scottanti- dalla denuncia del trattato 
                Abm alle proposte di finta riduzione dell'armamento atomico, dai 
                rifiuti su varie convenzioni in materia di armamenti alle trattative 
                in materia di commercio internazionale - Bush il giovane e la 
                sua squadra sono ritornati, accentuando toni e sostanza, a posture 
                più schiettamente unilateralistiche.Nel merito, nulla più del capitolo scottante dei prigionieri 
                di guerra può permettere di fare chiarezza. E' noto 
                intanto come l'amministrazione americana preferisse evitare un 
                dopoguerra - impensabile, per definizione, in una 'guerra infinita' 
                - o un retroguerra, costellato di carceri e tribunali, potenziali 
                altari o tribune di un terrorismo votato al martirio e ferratissimo 
                nella comunicazione. Di qui la condotta più volte esplicitamente 
                teorizzata e praticata dal ministro della Difesa Rumsfeld, al 
                grido del 'niente prigionieri' e col vanto di ordigni inumani 
                dispensati sulla già desolata gruviera afghana. Parallelamente 
                Bush, in collaborazione con il retrivo Ashcroft ministro della 
                Giustizia, approntava, tra approssimazioni e modifiche progressive, 
                tribunali militari dipendenti dall'esecutivo e paralleli al sistema 
                giudiziario americano, incaricati di perseguire e processare su 
                scala globale i sospettati di terrorismo. E' seguito l'approntamento, 
                a Guantanano, di una base militare collocata non su suolo americano 
                ma fittata dal governo cubano, di un carcere assemblato con tiger 
                cages, gabbie da tigre, in cui trasferire e serrare i 'detenuti' 
                della guerra afgana. A costoro, in assoluto contrasto con lo stato 
                di guerra proclamato istituzionalmente e a ogni livello della 
                vita nazionale e internazionale, si nega sia la qualifica di 'prigionieri 
                di guerra'- dovrebbero godere della protezione di varie convenzioni 
                internazionali e comunque essere liberati alla cessazione delle 
                ostilità, se non indagati di circonstaziati crimini di 
                guerra- sia l'accesso al suolo americano, per impedire che possano 
                chiedere di essere giudicati dal sistema giudiziario americano. 
                Lo ius ad bellum squarcia con immensi Ground Zero 
                lo ius in bello e il diritto internazionale. In attesa 
                che si decida come processare realmente i 'detenuti', li sospende 
                in un limbo amministrato dalla presidenza Usa e dalle sue emanazioni, 
                in barba a ogni regolamentazione internazionale ma anche all'equilibrio 
                dei poteri della repubblica americana. Inquieto s'affaccia un 
                dubbio: potrebbe costituire un precedente, ritorto magari contro 
                i tanti marines che s'aggirano per il mondo da chi dovesse ritenere 
                illegittima guerra a stelle e strisce.
 In vitro il caso è rivelatore di uno straordinario 
                terremoto che sta mutando la scene internazionale americana. Bush 
                il giovane - che con la sua risicata vittoria doveva segnare il 
                tramonto definitivo della 'presidenza imperiale' - è ora, 
                con la sua squadra di pretoriani, al centro di una ridefinizione 
                imperiale dei poteri e della politica di inusitata estensioe e 
                profondità. Alcuni esempi, sulla scorta dei tribunali militari 
                speciali, sono particolarmente illuminanti: con Putin si è 
                abbozzata una riduzione degli armamenti atomici per gentleman's 
                agreement e non per trattato, e perciò non soggetta 
                a ratifica congressuale; così è stato anche per 
                la denuncia del trattato Abm, decisa senza il concorso del Congresso; 
                il presidente ha ottenuto da un ramo parlamentare il cosiddetto 
                fast track, ovvero mano libera nelle trattative in sede 
                di Wto, su materie e contenziosi paragonati da Zoellik, il rappresentante 
                americano, a vere e proprie bombe atomiche, in particolare tra 
                Europa e Usa; e così via.
 Si può allora capire meglio l'insistenza, soprattutto ad 
                opera di Rumsfeld e Cheney, nel paragonare la 'guerra infinita' 
                alla 'fredda', alla loro Cold War. Allora la costrizione 
                ultima della deterrenza atomica impediva il conflitto aperto. 
                La guerra cessava di essere la continuazione della politica,ma 
                diveniva a sua volta politica. Stato duale, camicia di forza che 
                segnava i confini di sistema e condizionava il gioco degli attori, 
                le loro lealtà. Anche con la guerra infinita, la lotta 
                al terrorismo, la ricerca del nemico diviene costrizione generale, 
                codice che alimenta la riscrittura delle regole.
 Quel che muta è l'unilateralismo dell'attore fondamentale. 
                Allora gli Usa, con presidenza e Congresso affratellati nel 'consenso 
                della guerra fredda', tennero a battesimo Onu e Nato, Ocse e successivi 
                sviluppi comunitari, Fmi e World Bank. Oggi una nuova presidenza 
                imperiale affastella coalizioni che si nutrono della decomposizione 
                delle istituzioni internazionali affidata alle cure esclusive 
                degli esecutivi e al riparo di Parlamenti. Ma nel fuoco di un 
                conflitto che prova a ricondurre a disciplina il mondo uscito 
                dai cardini a Seattle e Genova.
 Mai come in quest'alba di secolo pace e guerra appaiono 
                nitidamente forme alternative alla politica. Non quella auspicabile, 
                ma quella vissuta e agita dai due campi contrapposti - quello 
                oligarchico e quello democratico - che da trent'anni e passa provano 
                a regolare, a costituzionalizzare la polis globale in cui il mondo 
                si viene organizzando. L'11 settembre ha rivelato, sotto l'urto 
                di una guerra intestina alle oligarchie del pianeta, tra i vincitori 
                della guerra fredda, che siano a un salto e un'accelerazione nella 
                regolazione oligarchica e neoliberistica del mondo. Chi finora 
                ha vinto - nella moderna guerra dei trent'anni aperta dall'emergere, 
                con il '68, di un globalismo democratico, partecipato - sta accelerando 
                il passo nella riscrittura delle regole del gioco. Sarà 
                un passo più lungo della gamba, se dall'altro lato il globalismo 
                democratico, riemerso a Seattle e Genova, saprà continuare 
                a mettere in crisi egemonie liberiste e pretese oligarchiche e, 
                soprattutto, vorrà fare della pace il cardine di un'altra 
                agenda e di una nuova politica.
   (da 
                La Rivista del Manifesto n. 25, febbraio 2002) 
 
 
 
 
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