INDIFFERENZA DELLA MADRE

Anna Maria Ortese


Capita a volte che due persone, un uomo e una donna, nelle quali passa in quel momento il fluido misterioso e potente della primavera, s'uniscano e mettano al mondo un bambino. Nei primi tempi della sua vita, quel piccolo essere, intriso ancora di tutta la freschezza e beltà che costituì il sentimento dei suoi genitori, è oggetto, da parte di questi, delle più trepide e appassionate cure. In lui, padre e madre accarezzano e contemplano, quasi inconsciamente, quella che fu la propria recente e ineffabile felicità. Ma a poco a poco, e cioè quando il bambino, trascorsi i primissimi anni, comincia a perdere certa aureola di animalità che lo circondava dai capelli leggeri come piuma ai piedi morbidi come fiori; e i suoi sguardi, fino allora ridenti e incerti, acquistano una interiorità, manifestano un pensiero e annunciano quasi la capacità di un distacco da coloro che lo hanno generato, e in altre parole, uno sconosciuto"io" compare in quella carne con l'intento preciso di mutarla,e correggerne via via il disegno,e finalmente (cosa che avverrà nel tempo) distruggerla: allora quella prima trionfante e come inesauribile tenerezza dei genitori si arresta, disorientata, e, senza che essi neppure se ne avvedano, comincia a perdere rapidamente tutta la sua forza. Il figlio viene curato e nutrito sempre con la stessa perfezione, ma non con lo stesso entusiasmo; cullato, ma non più con gli stessi canti che facevano di lui un nodo di stupore e di beatitudine. Specialmente se qualche cosa (il tempo, la stanchezza, gli affanni, come anche una maggiore conoscenza della propria mediocrità e di quella del compagno) abbia offuscato la primitiva gioia dei genitori e incrinato con una prima linea scura la loro comunione; e intanto una comincia a constatare con amarezza la malignità del tempo che, dopo una effimera apoteosi, graffia con le sue unghie gioventù e bellezza; e l'altro, portato via come da un vento dalla fredda necessità del lavoro, dalla preoccupazione del domani, sempre meno abbia presente la gioia e i sogni con cui si mise in cammino: il pensiero del figlio sempre più si spoglia dell'incantesimo originario, per rivestire il carattere di un duro problema di amministrazione. Il bambino viene considerato ormai un essere a sé, che deve difendersi e inoltrarsi lentamente, con le sue sole forze (protetto appena dal denaro e guidato qualche volta dai genitori, nel mare fremente, e visibilmente senza limiti, della vita. Saggia e opportuna decisione; ma se,di solito, essa riesce benefica e decisamente formativa per la coscienza del figlio, non così accade quando il giovane essere in questione è uno spirito sensibile e di poca forza, cui bisognava, per svilupparsi, dell'altro calore, un ulteriore riposo accanto alla carne affettuosa della madre. Il padre, per lui, c'era stato e non c'era stato. Ma la madre!
Staccato con fermezza da lei, questo essere delicato rimane dove essa, la madre, lo ha adagiato, né si muove, né guarda volentieri intorno. Una specie di angoscia, che altro non è se non una fame segreta della madre, lo occupa tutto e gli impedisce di liberamente respirare. Egli cresce pallido e chiuso, scoppiando in lagrime o sorridendo teneramente, carico di speranza, soltanto se essa lo guarda con una parvenza di affetto. Ma, se talora lo prende in braccio, la madre presto lo rimette giù, presa com'è dalle sue preoccupazioni e doveri,e soprattutto assolutamente incapace di comprendere come delle sue carezze e di certi lamenti d'affetto il figlio sia affamato. Tuttavia, così brevi momenti sono bastati a colmare quel timido essere di un'emozione silenziosa e raccolta, che lo aiuterà a sopportare il freddo e la tristezza delle lunghe ore trascorse seduto su una piccola sedia o davanti alla porta di casa, trastullandosi con un libro che ancora non sa leggere, o con delle pietrine. La Madre! Ecco tutto ciò a cui egli pensa, continuamente pensa: questa Bontà. A mano a mano ch'ella si stacca da lui, il concetto della bontà di lei, anziché diminuire, cresce alimentato dalla fame che il figlio ha di quella bontà. E' così immerso nel pensiero di lei, che non può vedere altro: il mondo con le sue nuvole e i suoi alberi, gli animali pieni di grazia e le altre figure che lo abitano gli appaiono come un velo dietro cui si nasconde, sole sconosciuto, la Madre; anzi, più che un velo, sono i segni manifesti della presenza di lei, l'emanazione raggiante della sua persona così amata. Egli, il figlio, si perde a considerare la sua bontà, la sua potenza, i suoi sguardi tranquilli, i sorrisi rapidi e dolci, con un tumulto senza voce di dolore e gioia. I momenti (rari adesso) in cui la madre si occupa di lui per vestirlo o nutrirlo sono per lui straordinari. Egli nasconde a fatica la sua emozione, e si sorprende a osservarla come supplicandola, non sa egli stesso di che cosa: il viso di lei, il calore della sua spalla, le sue mani che si posano sulla sua testa, lo stordiscono come un canto, ed è talmente assorto che spesso si merita un rabbuffo; e, arrossendo, sente che la cara madre è irritata per la sua stupidaggine.
Quando essa lo saluta con un bacio frettoloso o una carezza superficiale, dovendo recarsi da un'amica o ad acquistare un cappello, il figlio resiste con coraggio al desiderio di aggrapparsi a lei per un saluto più tenero, perché spera avidamente che lei comprenda da sola; ma essa si allontana gaia e fredda, e allora il cuore del figlio si riempie di una oscurità spaventosa, che sul principio non trova rimedio alcuno, e poi si libera in un gesto insensato, quale, per esempio, quello di accostarsi a una vestaglia di lei e nascondervi la testa per sentire l'odore della madre. Egli bagna quella buona veste familiare di tutte le sue lagrime e alla fine, sollevato, va a sedersi in un angolo e si abbandona a una felicità solitaria, di cui a poco a poco, in quegli anni, comincia a sentire il conforto: l'immaginazione. Sono quei momenti, in cui la sua giovane mente si affida, come una barca, alla potenza amara dei sogni, i soli in cui il bambino provi alla fine qualche felicità. I sogni prediletti sono sempre quelli in cui si figura il pentimento, il rimorso acerbo e l'amore, ormai inutile, della madre per lui. Ecco, egli è morto da poche ore (in seguito ad un rimprovero della madre), è disteso tranquillo sul suo letto, col vestito della festa, le mani incrociate sul petto, i capelli ben ravviati, gli occhi chiusi su un'ultima lagrima. Da poco la madre è rientrata da una festa, in cui si è molto divertita, le hanno detto che il bambino è morto, non ci ha creduto, ma è corsa come un vento nella sua stanza. Lo ha chiamato forte: "Mario!", con la voce sempre più tremante, ma lui non ha risposto. Ora, in ginocchio accanto al suo letto, lo guarda. Il suo viso fine e adorato, di cui ogni tratto compone un'immagine di quella Bontà così amata, è amaramente piegato su di lui; i suoi lineamenti sono alterati, devastati da un'angoscia e una tenerezza meravigliose; i suoi sguardi non si saziano di scorrere sul volto del figlio, come nei primi anni della sua vita, quando egli le era caro, e, alla fine, essa prorompe in parole, le più ardenti, le più tenere, le più penetranti che un fanciullo possa udire. Egli ne è come ubriaco, la gioia gli lacera il cuore, e, ad un tratto, non potendone più, si solleva sul letto e: "Madre," grida "non soffrire, non avere più male: ho scherzato!". E abbandona la testa sul suo cuore, ansando per la gioia di non essere respinto. Altre volte, invece, le sue fantasticherie si compiacciono di una disperazione senza scampo, di una amarezza senza conforto. Egli si figura d'essere sepolto da vari anni nel cimitero del suo paese: una piccola croce è piantata sulla sua fossa, dove c'è scritto: "Mario". E' Natale. Nevica. In casa, la madre è tutta intenta a preparare la tavola, mentre il babbo legge il giornale, e il suo viso si rivolge di quando in quando, estasiato, verso la vecchia culla dove balbetta e ride un nuovo bambino. Ogni tanto gli va vicino e lo abbraccia con tenerezza infinita. Mario, benché oppresso da qualche metro di terra nera, già tutta inargentata dalla neve, vede benissimo la casa lontana, la scorge nell'oscurità del mattino d'inverno, pei suoi vetri fatti gialli e talvolta rossi dalle fiamme del camino, e così segue in ogni movimento la figura adorata della madre. Non la tristezza, ancora così leggera, ma una disperazione pari soltanto al peso di una cupa montagna che è nel suo petto; e l'amore che egli prova in quel momento per quella Bontà che lo ha dimenticato, la sua fame di lei, lo distruggono come un fuoco invisibile. "Madre, madre cara!" egli si prova a chiamare "oh se tu potessi sapere come ti amo! Se tu potessi capire! Se tu venissi vicino al tuo bambino, madre!". Là, nella sua fossa, oppresso dal peso della terra, irrigidito dal gelo della sua morte, egli sente con certezza che, se solamente ella lo chiamasse, se solamente, laggiù, ella pensasse un attimo a lui, vi pensasse con affetto e rimpianto, egli avrebbe caldo, avrebbe vita, il suo cuore ricomincerebbe a battere nuovamente e il sangue a pulsare. Ma la cara madre non viene. Essa lo ha veramente dimenticato. Essa lo ha veramente sepolto, con le sue proprie mani; e, allora, sollevato da un terrore infinito, da uno sgomento inesprimibile, quello di essere stato tradito dalla propria madre - dalla Bontà stessa -, l'immaginoso bambino si sveglia e si guarda a fatica intorno. Quando, più tardi, la madre rincasa, egli non si muove dal suo angolo, sperando con tutta l'anima che sia lei a venirgli incontro, che , durante la sua angoscia, ella abbia misteriosamente sofferto, e ora desideri riabbracciarlo, stringerlo al cuore, consolarlo con le sua carezze. Ma, dopo averlo salutato con un cenno non freddo ma stanco della mano, la madre va vicino all'armadio per riporvi il cappello; poi passa in cucina per vedere a che punto è la cottura della minestra; infine rientra, ma (in quell'attimo egli ha sperato tanto!) non va vicino a lui. Siede, e domanda tranquillamente se ha fatto i suoi compiti. Si meraviglia ch'egli non risponda subito. "Maleducato!" dice. Crede che il pianto improvviso e segreto di lui (ha voltato la faccia verso il muro) sia di dispetto o rancore per quel giusto rimprovero.

Il figlio ch'è stato così presto congedato dalla madre, che ha misurato di giorno in giorno l'angoscia di vedersi allontanato, respinto da chi gli aveva dato la vita e doveva nutrirlo ancora, e ciò dopo innumerevoli assalti di speranza e fiotti di tenerezza e nuvole di sogni che lo hanno indebolito e reso più fragile di quanto fosse naturalmente, mostra, divenuto più grandetto, due occhi seri e tranquilli come un bel cielo da cui sia sparito da poco il sole. Obbligato a vivere solo, ha acquistato un certo equilibrio, ma non la spavalderia naturale agli esseri che si sentono amati. E' istintivamente curvo. Presagisce confusamente che la parola d'ordine , per lui, è solitudine, e, intenerito dagli strazi sofferti, si china con un interesse insolito agli altri giovani esseri sulle piccole cose. Ha una debolezza morbosa per un piccolo gatto, il cui lamento, se ha fame o freddo, o lo sguardo timido e supplichevole gli ricordano con un brivido le sue recenti disperazioni. Una lucertola che riposi timidamente al sole, su un sasso, coi piccoli occhi velati di piacere e di paura, gli fa battere a precipizio il cuore, e si strugge dal desiderio di carezzarla. Se, d'autunno, una foglia secca scivola vicino al suo piede, egli si curva a raccoglierla, e per un po' la tiene nel cavo della mano, istintivamente desideroso di consolarla, perché nessuno, più di lui, può sentire quanto è sola una foglia, dopo che l'albero l'ha abbandonata. D'altra parte, le cose immense lo spauriscono, e mai e poi mai egli ascolterà senza terrore il canto pacifico del mare , né osserverà volentieri la grandezza di un cielo stellato, o contemplerà senza un lamento lo spettacolo della primavera dilagante e marzo per la campagna in fiore. Il senso di tutto questo gli sfugge, poiché egli non può vedervi, essendo stato così ferito, il prodigarsi di una maternità infinita e giusta per tutti. Sa che molti hanno una madre, e molti sono orfani, generati cioè non dall'amore, ma da una forza insensata. Un bene, una quiete, li ritrova ormai non più figurandosi d'essere egli stesso amato e protetto o rimpianto (di ciò gli è uscito per sempre il desiderio dal cuore), ma egli stesso amando e proteggendo qualche cosa: forse un filo d'erba, un uccello ferito. Qualcosa che sia la vita senza unghie nè denti, trepida e disarmata; qualcosa, o qualcuno, che lo guardi con gli stessi occhi sperduti, la stessa intenerita speranza che la buona madre estirpò -forse troppo presto, e con indifferenza- dal suo vivo cuore.


(Tratto dal libro L'Infanta sepolta, Adelphi, Milano, 2000)




L'autrice, Anna Maria Ortese.


         Precedente             Copertina