GLI EMIGRATI
 
   
Emil Cioran
 
 
  
  
  A torto ci immaginiamo l'esiliato come qualcuno che abdica, si ritira 
e si tiene in disparte, rassegnato alle sue miserie, alla sua condizione di relitto. 
Se lo osserviamo, scopriremo in lui un ambizioso, un deluso aggressivo, un amareggiato 
e un conquistatore insieme. Più siamo defraudati, più si inaspriscono 
le nostre bramosie e le nostre illusioni. Ravviso persino qualche relazione tra 
la sventura e la megalomania. Colui che ha perduto tutto, conserva come ultima 
risorsa la speranza della gloria o dello scandalo letterario. Tutto accetta di 
abbandonare, fuorché il suo nome. Ma il suo nome, come riuscirà 
a imporlo dal momento che scrive in una lingua che i civilizzati ignorano o disprezzano? Si 
cimenterà con un altro idioma? Non gli sarà facile rinunciare alle 
parole in cui scorre il suo passato. Chi rinnega la propria lingua per adottarne 
un'altra, cambia d'identità, anzi di delusioni. Eroicamente traditore, 
rompe con i suoi ricordi, e fino a un certo punto con se stesso. Un tale scrive 
un romanzo che dall'oggi al domani lo rende celebre. Vi racconta le sue sofferenze. 
I suoi compatrioti, all'estero, lo invidiano: anche loro hanno sofferto, più 
di lui forse. E l'apolide diventa - o aspira a diventare - romanziere. Ne risulta 
un accumulo di smarrimenti, un'inflazione d'orrori, di fremiti non più 
in voga. Non si può rinnovare indefinitamente l'inferno, la cui stessa 
caratteristica è la monotonia, né tanto meno l'immagine dell'esilio. 
In letteratura niente di più esasperante del terribile; nella vita, è 
troppo contaminato dall'evidenza per soffermarcisi. Ma il nostro autore persiste; 
per il momento tiene in serbo il suo romanzo nel fondo di un cassetto, e aspetta 
la sua ora. L'illusione di una sorpresa, di una notorietà che gli si nega 
ma su cui fa affidamento, lo sostiene; vive d'irrealtà. E tuttavia la forza 
di questa illusione è tale che, se lavora in una fabbrica, lo fa con l'idea 
di esserne un giorno strappato da una celebrità tanto improvvisa quanto 
inconcepibile. Ugualmente 
tragico è il caso del poeta. Chiuso nel recinto della propria lingua, scrive 
per i suoi amici, per dieci, venti persone al massimo. Il suo desiderio di essere 
letto non è meno imperioso di quello del romanziere improvvisato. Se non 
altro ha su di lui il vantaggio di poter piazzare i suoi versi sulle piccole riviste 
dell'emigrazione che si pubblicano a prezzo di sacrifici e rinunce quasi indecenti. 
Un tale si trasforma in direttore di una rivista; per farla durare rischia la 
fame, dimentica le donne, si seppellisce in una stanza senza finestre, sopporta 
privazioni che sconcertano e spaventano. Masturbazione e tubercolosi, questa è 
la sua sorte. Per poco numerosi che siano, gli emigrati si costituiscono in 
gruppi, non già per difendere i propri interessi, ma per fare collette, 
dissanguarsi allo scopo di pubblicare i loro rimpianti, i loro lamenti, i loro 
appelli senza eco. Invano si cercherebbe una forma più straziante di gratuita 
abnegazione. Sono tanto bravi come poeti quanto cattivi come prosatori, e ciò 
per motivi abbastanza semplici. Esaminate la produzione letteraria di un qualsiasi 
piccolo popolo che non ha la puerilità di forgiarsi un passato: la grande 
quantità di poesia è la sua caratteristica più stupefacente. 
Per svilupparsi la prosa richiede un certo rigore, uno stato sociale differenziato 
e una tradizione: è premeditata, costruita; la poesia sgorga, è 
diretta, oppure totalmente artificiale; appannaggio dei trogloditi e dei raffinati, 
non fiorisce che ai margini della civiltà, la precede oppure la segue. 
Mentre la prosa esige un genio maturo e una lingua cristallizzata, la poesia è 
perfettamente compatibile con un genio primitivo e una lingua informe. Creare 
una letteratura significa creare una prosa. Non 
è naturale allora che tanti non dispongano di nessun altro modo d'espressione 
eccetto la poesia? Anche quelli non particolarmente dotati, nel loro sradicamento, 
attingono all'automatismo della loro eccezione quel sovrappiù di talento 
che non avrebbero mai trovato in un'esistenza normale. Sotto qualsiasi forma 
si presenti e indipendentemente dalla sua causa, l'esilio, agli inizi, è 
una scuola di vertigine. E alla vertigine non a tutti è dato accedere. 
~ una situazione limite e come il confine estremo dello stato poetico. Non è 
forse un privilegio l'esservi portato d'un tratto, senza le tortuosità 
di una disciplina, per la sola benevolenza della fatalità. Pensate a quell'apolide 
di lusso, a Rilke, a quante solitudini dovette accumulare per liquidare i propri 
legami, per radicarsi nell'invisibile. Non è facile non essere di nessun 
luogo quando nessuna condizione esterna vi ci costringe. Il mistico stesso non 
giunge a disincarnarsi che a prezzo di sforzi mostruosi. Sottrarsi al mondo, quale 
sforzo di annullamento! Da parte sua, l'apolide vi giunge senza darsi un gran 
daffare, con il concorso - con l'ostilità - della storia. Niente tormenti 
né veglie per giungere a spogliarsi di tutto; vi è costretto dagli 
avvenimenti. In un certo senso, somiglia al malato, che come lui si installa senza 
merito personale nella metafisica o nella poesia, per forza di cose, grazie ai 
buoni uffici della malattia. Assoluto a buon mercato? Può darsi, quantunque 
resti da provare che i risultati acquisiti con sforzo valgono di più di 
quelli che derivano dal riposo nell'ineluttabile. Un 
pericolo minaccia il poeta sradicato: quello di adattarsi alla propria sorte, 
di non soffrirne più, di compiacersene. Nessuno può salvare la freschezza 
delle proprie pene; le pene si consumano. Così avviene per il mal di patria, 
per ogni nostalgia. I rimpianti perdono il loro smalto, essi pure avvizziscono 
e, al pari dell'elegia, diventano presto desueti. Che cosa allora di più 
normale che stabilirsi nell'esilio, Città del Nulla, patria alla rovescia? 
Più vi si compiace, più il poeta dilapida la materia delle sue emozioni, 
le risorse della sua sventura, così come il suo sogno di gloria. Poiché 
non lo opprime più la maledizione da cui traeva orgoglio e profitto, egli 
perde con questa sia l'energia della sua eccezione sia le ragioni della sua solitudine. 
Scacciato dall'inferno, invano tenterà di farvi ritorno, di rituffarvisi: 
le sue sofferenze, ormai placatesi, lo avranno reso per sempre indegno. L'urlo 
di cui un tempo andava ancora fiero s'è fatto amarezza, e l'amarezza non 
si trasforma in versi: essa lo porterà fuori della poesia. Niente più 
canti né eccessi. Quanto alle sue piaghe ormai cicatrizzate, potrà 
tormentarle quanto vorrà per estrarne nuovi accenti: al massimo sarà 
l'epigono dei suoi dolori. Un decadimento onorevole lo attende. In mancanza di 
diversità, d'inquietudini originali, la sua ispirazione si inaridisce. 
Rassegnato all'anonimato e quasi incuriosito dalla sua mediocrità, presto 
assumerà la maschera di un borghese di nessun luogo. Eccolo al termine 
della sua carriera lirica, al punto più stabile del suo declassamento. "Entrato 
nei ranghi", assiso nel comodo scranno della sua caduta, cosa farà 
in seguito? Potrà scegliere tra due forme di salvezza: la fede e l'umorismo. 
Se porta ancora con sé alcune tracce di inquietudine, le liquiderà 
a poco a poco per mezzo di mille preghiere; a meno che non si compiaccia di una 
metafisica garbata, passatempo dei versificatori inariditi. E se, al contrario, 
è incline alla beffa, minimizzerà le sue sconfitte fino al punto 
di gioirne. Secondo il suo temperamento, si conformerà dunque alla pietà 
o al sarcasmo. In entrambi i casi, avrà trionfato delle sue ambizioni, 
come pure delle sue sventure, per giungere a un più alto fine, per diventare 
un vinto decoroso, un reprobo per bene.
    
   
   Emil Cioran    
          
   
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