AUTOBIOGRAFIE ALTRUI

 

Antonio Tabucchi

 

(...)
La notte del mio arrivo a Parigi avevo fatto un sogno svanito al risveglio ma che allora, in quel bistrot, mi tornò alla mente con la nitidezza propria dei sogni che riaffiorano allo stato di coscienza quando ormai si crede di averli dimenticati. Era un sogno perturbante. Avevo sognato mio padre.
Mio padre era morto da sette anni a seguito di una grave malattia, un cancro della laringe. Era stato operato in una clinica della sua città. L’operazione era andata bene, almeno tecnicamente, ma per tutta una serie di complicazioni post-operatorie la sua degenza in ospedale era finita in modo disastroso. Il giorno prima di essere dimesso, per un imperdonabile errore, i medici della clinica, introducendogli in gola un tubo che sarebbe dovuto servire a nutrirlo, gli avevano perforato l’esofago. Il tubicino, attraversando il mediastino, gli era penetrato nel polmone e lo aveva ridotto in fin di vita. Del penoso periodo che mio padre passò all’ospedale, quel giorno è stato certamente il più penoso di tutti ed è così profondamente impresso nella mia memoria che niente potrà mai cancellarlo.
Molto penosa fu anche l’estate che seguì. Poiché l’esofago perforato, cicatrizzandosi, aveva creato un’aderenza che impediva la deglutizione, mio padre doveva essere nutrito mediante una sonda che gli entrava nello stomaco attraverso il fianco destro. Senza un’anastomosi, cioè una ricostruzione dell’esofago deteriorato, egli non avrebbe vissuto a lungo. Si trattava tuttavia di un intervento assai delicato e dall’esito incerto, che incontrava lo scetticismo dei medici da me interpellati. Ne parlai ad un amico dell’Università di una città dove insegnavo all’epoca, un chirurgo di chiara fama abituato ad essere chiamato per delicati interventi anche da ospedali americani, eppure disponibile come lo sono le persone di valore. Egli accettò, mettendomi a parte dei rischi dell’impresa, che peraltro era indispensabile. Anche mio padre accettò. Fu tentato l’impossibile, e l’esito fu positivo. All’inizio dell’inverno mio padre tornò a vivere. Poté riprendere i suoi ritmi quotidiani e condurre una vita pressoché normale.

 

Nelle enciclopedie mediche correnti la laringe è definita come segue: “organo cavo semirigido costituito da cartilagini collegate tra loro da legamenti e muscoli e rivestito all’interno da una mucosa. La parte superiore comunica con la faringe, e la parte inferiore con la trachea. Le sue funzioni principali sono: la respirazione; la separazione dell’ingresso dell’apparato digerente (esofago) da quello dell’apparato respiratorio (trachea) tramite l’epiglottide; la fonazione, cioè la formazione dei suoni. I suoni si producono mediante il passaggio di aria attraverso la laringe, mentre la posizione delle corde vocali varia in seguito alle contrazioni dei muscoli preposti a modificare le dimensioni dall’apertura della laringe, o glottide, e il grado di tensione delle corde stesse”.

 

Mio padre aveva dunque ripreso una vita pressoché normale. Tuttavia l’intervento chirurgico gli aveva lasciato una mutilazione, poiché lo stadio avanzato della malattia aveva comportato l’asportazione totale della faringe. In altri termini, quel piccolo organo cavo semirigido costituito da cartilagini, muscoli e soprattutto da corde vocali, attraverso il quale si produce la fonazione, non esisteva più. Mio padre non poteva più parlare. Mio padre visse comunque una vita normale per circa due anni, fino a quando la malattia non si manifestò di nuovo, stavolta in termini irreversibili. Avevamo risolto la difficoltà oggettiva di comunicare tra di noi in maniera abbastanza semplice. Naturalmente, utilizzavamo tutte le forme di semiologia corporea di cui dispongono gli esseri umani, provvista di significati e messaggi specifici che vanno dallo sguardo ai gesti, alla stretta di mano all’abbraccio, ecc. Però, per la formulazione di messaggi più complessi, richiedenti una forma di linguaggio strutturato, avevamo adottato una semplice “lavagnetta magica”, di quelle utilizzate dai bambini, sulla quale si può scrivere e cancellare rapidamente.
È vero che anche se mio padre non parlava il suo udito era perfetto: e dunque, se lui era obbligato a scrivere, io avrei potuto parlargli, dal momento che poteva sentirmi. E in effetti, durante le nostre prime “conversazioni”, io gli parlavo, e lui mi rispondeva con la lavagnetta. Ma a poco a poco, senza rendermene conto, mi misi ad usare anch’io quella lavagna. Non so bene perché ciò avvenne. Forse temevo, utilizzando la mia voce, di sottolineare la sua mutilazione. Comunque sia, fui io ad adeguarmi a lui e al suo mezzo di comunicazione.
Per due anni e mezzo dialogammo dunque in silenzio, attraverso la superficie della lavagna. Solo ora mi rendo conto con stupore che egli non mi scrisse mai la domanda che logicamente avrebbe potuto pormi: “Perché non parli, tu che puoi farlo?”. Non me lo chiese: accettò la mia complicità, come io accettai la sua. Ma l’importante, ai fini di quello che sto per affermare, è che entrambi pattuimmo di passare da un sistema di comunicazione ad un altro sistema di comunicazione: passammo dal piano dell’oralità al piano della scrittura.

 

Devo anche dire che in quel momento questa forma di comunicazione scritta mi parve normale, o naturale: non mi rendevo conto, voglio dire, dell’assenza di voce da parte di mio padre, perché la sua presenza fisica, il suo “esserci”, compensava l’assenza della sua voce. Solo più tardi cominciai a rendermi conto di quest’assenza di voce: quando la sua presenza fisica non ci fu più. Capii che con il tempo il ricordo del suo volto, cioè quanto la mia memoria aveva trattenuto del suo visibile, si sbiadiva a poco a poco, e che facevo fatica a metterne a fuoco l’immagine. Per ravvivarla, dovevo ricorrere all’immagine fotografica: ma le fotografie che possedevo di lui non erano degli ultimi anni della sua vita, appartenevano ad epoche anteriori. Al contrario, la sua voce (strano, per me che ho sempre creduto di avere una buona memoria visiva) era estremamente precisa al mio ricordo. Insomma: se per ricordare un’immagine appartenuta alla nostra vita passata è necessario, come si dice, “chiudere gli occhi”, per ascoltare la voce di mio padre bastava “aprire gli orecchi”, e mettermi in ascolto. E la voce mi arrivava con il suo tono ed i suoi timbri unici. L’immagine di mio padre, per così dire, passava attraverso la sua voce: per evocarne la figura avevo bisogno della sua voce. (...)


(Brani tratti dal libro Autobiografie altrui – Poetiche e posteriori, Feltrinelli, Milano, 2003)



Antonio Tabucchi


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