GLOBALIZZAZIONE E LIBERTÀ


Amartya Sen

 

Il mondo in cui viviamo è allo stesso tempo notevolmente comodo e assolutamente povero. Il nostro mondo, assai più ricco di quanto sia mai stato, sperimenta una prosperità senza precedenti. I nostri antenati avrebbero persino faticato a immaginare la gestione su larga scala delle risorse, la conoscenza e la tecnologia che oggi diamo per acquisite. Ma il nostro è anche un mondo di estreme privazioni e disuguaglianze sconvolgenti. È impressionante il numero di bambini malnutriti, analfabeti e condannati a morire, ogni settimana a milioni, di malattie che potrebbero essere completamente debellate o alle quali, se non altro, potrebbe essere impedito di uccidere persone abbandonate a se stesse.
La contemporanea presenza di opulenza e agonia nel mondo che abitiamo rende difficile evitare interrogativi fondamentali sull’accettabilità etica dell’organizzazione sociale prevalente e sui nostri valori, la loro rilevanza e la loro portata. Una delle questioni che dobbiamo affrontare immediatamente è: come è possibile che la maggior parte di noi, di fronte alla gravità e alle conseguenze del contrasto fra agi e miseria, conduce una vita priva di problemi e preoccupazioni, ignorando del tutto le iniquità che caratterizzano il nostro mondo? La riluttanza all’esame critico è il risultato di una mancanza di compassione, una sorta di cecità morale e di sorprendente egocentrismo, che distorce i nostri pensieri e le nostre azioni? O esiste qualche altra spiegazione, coerente con una visione meno negativa della psicologia e dei valori dell’uomo?
Non è un tema facile. Vorrei tuttavia iniziare sostenendo che la nostra indifferenza, da un lato, e il nostro autocompiacimento, dall’altro, potrebbero essere legati a un’incapacità di capire, piuttosto che riflettere una sostanziale assenza di compassione. Un fallimento cognitivo può derivare tanto dall’irragionevole ottimismo quanto dal pessimismo infondato e, cosa strana, i due atteggiamenti talvolta interagiscono. Per cominciare dal primo, l’inguaribile ottimista tende a sperare, anche solo tacitamente, che le cose possano migliorare abbastanza presto: la combinazione di processi che, come lo sviluppo dell’economia di mercato, hanno portato prosperità a una parte del mondo condurrà presto a un analogo benessere per tutti. In questa luminosa prospettiva chi dubita, sia esso d’animo nobile o meno, tende ad apparire sciocco. “Dacci tempo, non essere così impaziente” dice la voce soddisfatta dell’ottimista.
D’altra parte il pessimista cronico riconosce, e anzi sottolinea, che la miseria continua a essere presente nel mondo. Ma, piuttosto di frequente, è anche scettico sulla nostra capacità di cambiare il mondo in maniera significativa. Il ragionamento è: “Dovremmo cambiare le cose, se potessimo. Ma sii realistico, proprio non possiamo”. Il pessimismo può indurre – e spesso lo fa – ad accettare quietamente molti mali. Come, in altri termini, affermò sir Thomas Brown più di tre secoli e mezzo fa: “Il mondo... non è una locanda, ma un ospedale”. Le persone possono imparare a vivere felici in un ospedale, pieno di malati, riuscendo a non pensare alle miserie da cui sono circondate.
Dunque, c’è una parziale ma effettiva convergenza tra il pessimista cronico e l’inguaribile ottimista. Il secondo ritiene che la resistenza non sia necessaria, il primo che sia inutile. Nelle parole di James Branch Cabell (a proposito di un aspetto del tutto differente dello stesso enigma) “l’ottimista proclama che viviamo nel migliore dei mondi possibili, il pessimista teme che sia vero”. I punti di vista opposti confluiscono nella rassegnazione. La passività globale non si nutre dunque soltanto di cecità morale, apatia ed egocentrismo, ma anche di una convergenza conservatrice di opposti radicalismi. Persuasi – o se non altro confortati – dalla nostra supposta incapacità di opporci alle condizioni attuali (sia perché non è necessario sia perché, comunque, non farebbe alcuna differenza) possiamo vivere le nostre vite, badare ai nostri affari senza vedere nulla di moralmente problematico nella pacifica accettazione delle iniquità che caratterizzano il nostro mondo. L’etica può essere messa a tacere dalla prematura rassegnazione.

 


(Brano tratto dal libro Globalizzazione e libertà, di Amartya Sen, Oscar Saggi Mondadori editrice, Milano, 2003. Traduzione di Giovanni Bono.)


Amartya Sen (Santiniketan, Bengala, 1933) ha insegnato a Calcutta, Cambridge, Delhi, alla London School of Economics, Oxford e Harvard. Premio Nobel per l’Economia nel 1998 per i suoi studi sullo Stato sociale, nello stesso anno è divenuto rettore del Trinity College a Cambridge.




     Precedente    Successivo      SPAZIO SAGARANA     Copertina