LA CULTURA DELLA MIGRAZIONE


Giulia Penzo

 

«E’ bello varcare i confini! Il viandante è,
sotto molteplici riguardi, un uomo primitivo».
(Hermann Hesse)

 

La poesia come dimensione interculturale

Adorno riteneva che dopo Auschwitz non si potesse più scrivere poesia. Ed in effetti oggi non si può fare a meno di fare i conti con quella enorme sofferenza che ha portato l’uomo a riflettere su questa frattura dolorosa della sua anima, e pure del suo corpo, a riflettere a quale tipo di etica e di morale era arrivato perché si oggettivasse una simile cattiveria e distruzione dell’umano. Ma la poesia ha in sé la forza per abbracciare anche il futuro, dispiegandosi in un contesto in cui non ci sono confini, in cui disuguaglianze e contraddizioni culturali svaniscono, rimanendo però anche sguardo sulla storia (questa è la mia idea di cosmopolita).
In questo contesto, cosmopolita, (proprio in questi giorni si stanno ultimando i lavori sulla nuova Costituzione Europea), in cui si potrebbe avere la possibilità di organizzare in una cornice culturale multietnica la propria vita e il vivere insieme, la poesia allora si fa carico di mostrarne anche il dolore, il dolore di chi si sente sempre migrante, perché in viaggio continuo di conoscenza e di sofferenza.
Ecco che abbracciando questo sguardo cosmopolita, ma non solo cosmopolita, avvicinandosi all’ascolto di chi vuole parlare ed essere ascoltato, il poeta appunto, ci addentriamo in quella dimensione interculturale che rappresenta l’universale colto con la dimensione del particolare, del particolare che è in ciascuno di noi e che vogliamo esprimere per intraprendere un viaggio che non sempre e non solo metaforicamente è migrazione.

La cultura della migrazione

Nell’avvicinarsi al mondo della poesia, come la poesia al mondo reale si avvicina, si ha bisogno di entrare in una prospettiva internazionale con la consapevolezza del suo carattere universale, in cui il confronto con l’altro è improvvisamente divenuto urgente, per l’immigrazione continua e in continuo movimento.
Che il grido venga quindi dal mondo della letteratura, che d’altra parte riflette la cultura universale, non ci sembra dunque strano.
Soprattutto da una certa parte della letteratura, ossia dalla letteratura comparata, che si occupa “oltre che dello studio dei rapporti e dei confronti tra le diverse tradizioni letterarie, degli aspetti generali della produzione, comunicazione e ricezione della letteratura – () teoria della letteratura, teoria e storia dei () generi letterari, () retorica e stilistica, () sociologia letteraria; dei rapporti tra i diversi codici della comunicazione culturale – letteratura e () letteratura ed arti figurative, letteratura e teatro, () letteratura e cinema, () letteratura e musica; dei rapporti tra la letteratura e il contesto culturale e della funzione della letteratura nei più ampi sistemi della comunicazione culturale - letteratura e () ideologie, tradizioni nazionali e tradizioni locali, tradizioni sovranazionali, () storia letteraria, () multiculturalismo.”
Questo per non dimenticare che anche la letteratura è dovuta entrare in conflitto con questa nuova dimensione fisica/geografica del mondo. E così anche in Italia.
R. Ceserani scrive: “Siano stati per un lungo periodo un paese d’emigrazione ed ecco che d’improvviso – come conseguenza delle grandi trasformazioni in corso – siamo diventati un paese d’immigrazione. Ci ritenevamo privi di pregiudizi razziali, capaci di amare tutte le genti e provare simpatia per gli sventurati – e scopriamo di essere irritati per la presenza dei senegalesi che vendono accendini o dei marocchini che vendono droga all’angolo delle nostre strade o nelle piazze del mercato. E ci siamo visti sui giornali di tutto il mondo mentre goffamente e con scarsa efficienza respingiamo navi e barconi ricolmi di albanesi che scappano disperatamente dalla loro terra e si affidano al mare pensando di traghettare in un paese che, sugli schermi della loro tv, si presentava come una specie di Eldorado. Se vogliamo imparare ad affrontare, politicamente e socialmente questa situazione, che è nuova e esplosiva, dobbiamo abbastanza velocemente riscrivere la nostra letteratura, tenendo conto della doppia caratteristica del localismo e del cosmopolitismo, entrambi, se vogliamo, all’interno di una concezione () polisistemica. (…) Dobbiamo prestare una nuova attenzione alle molte e diverse culture che storicamente hanno fatto dell’Italia quello che è adesso. Se non lo facciamo c’è il rischio reale che il nostro paese venga condotto non verso un confronto postmoderno di differenze ma verso una frammentazione di tipo medievale.”
Non sono le parole di un politico che cerca un pretesto per promuovere un suo programma o di un sociologo, ma sono quelle di uno studioso di letteratura che intravede nella letteratura la possibilità di intraprendere un dialogo, nella constatazione che è essa stessa dialogo, in cui non esiste “la cultura” ma esiste l’intercultura.

Migranti e letteratura

“…Ritorniamo al discorso delle migrazioni. Possiamo guardarle come fenomeni socio-statistici e storico-culturali, ma possiamo anche andare a cercare i migranti per chiedergli di divenire interlocutori, presenti e vivi. Per intervistarli? Per farci un’inchiesta sociologica sul territorio? Per avviare un’antropologia del migrante, ormai urgente e indispensabile in una società sempre più inoltrata nella dimensione della interculturalità?…No. Interlocutori, innanzitutto, in un discorso che si possa fare insieme. Per parlare di che? Del nostro incontro. Di noi chi? Di noialtri che nel nord dimoriamo inquieti e scontenti quasi come clandestini nel nostro (nostro?) mondo e lavoriamo per decolonizzarci dalla nostra stessa cultura (…)..,; e di loro che vengono verso di noi a traverso l’esperienza di incontrare proprio noi.[...] Se li si ascolta parlano e scrivono, e scrivono per parlare proprio con noi: in italiano. Attraverso la comunità della lingua si avvicinano a noi azzerando la distanza dell’estraneità e togliendone di mezzo il fantasma più antico e volgare: quello del “non sanno nemmeno parlare una lingua cristiana”. […] La lingua e la letteratura, i discorsi, allora ci sono e ci invitano a rispondere, ci provocano al colloquio. ”1
Non potevo fare a meno di trascrivere almeno alcuni frammenti dell’articolo di Armando Gnisci, che insegna Letteratura comparata all’Università La Sapienza di Roma, perché bene riesce a porre in luce uno dei problemi maggiori di chi migra, quello appunto della comunicazione, del dialogo.
Uno dei primi scogli che incontrano, infatti, gli immigrati è proprio quello della lingua.
Chi viene per trovare lavoro, per mangiare, deve imparare in fretta la lingua del paese che lo accoglie, ma è una lingua scelta per necessità, una lingua quasi imposta, e sappiamo bene che la lingua non serve solo per soddisfare le necessità di tipo biologico, ma forma di per sé una realtà fatta di relazioni e comportamenti e valori. Ecco che chi sceglie di comunicare nella nostra stessa lingua fa uno sforzo in più per superare, richiamandomi a Hegel, quella fase dell’oggettività mondana, strettamente materiale, basata sull’istinto e sul bisogno, dipendente dalle cose per aspirare ad essere in una dimensione che va oltre il mondo delle cose. Egli non vuole dipendere dalle cose, non più solo cibo, casa, lavoro, vuole essere in un luogo superiore alle cose stesse. Non più quindi desiderio della cosa ma desiderio di qualcosa che permetta di tenere l’istanza delle cose, che faccia valere la propria autonomia rispetto alle cose e la consapevolezza che il proprio essere si fonda essenzialmente su un desiderio, su un’altra coscienza che lo riconosca. Solo gli altri esseri umani gli possono conferire una certa autorità sul mondo, solo gli altri esseri umani gli possono dare una identità umana.

Gli scrittori migranti

Nell’identità /istituzione (ad es. letteratura) si costituisce un punto fisso di me stesso rispetto all’evanescenza del corpo stesso (con la morte). Non è forse questo che cerca lo scrittore migrante, ma in definitiva qualsiasi uomo che cerca di travalicare il limite della morte? Scrivendo, lavorando, plasmando, poetando lascia un simbolo di sé che è destinato a vivere per chiunque, il prodotto del suo lavoro potrà essere riconosciuto da chiunque altro. La sua identità è ora nell’umanità, che si trova nel mondo, che ha plasmato e trasformato. Non esiste più il “migrante”, ma un “essere”, un “essere umano” che “lavora per l’altro”.
Certo che questa è la mia visione, “alla luce dell’educativo”, della scrittura migrante, alla luce soprattutto di quell’educativo come viene espresso da M. Buber.



1 ARMANDO GNISCI, Migranti e letteratura, articolo a p.23 di Semicerchio, Rivista di poesia comparata XX-XXI 1999, a cura di Francesco Stella, Casa Editrice Le Lettere, Firenze 1999.



Giulia Penzo, è nata a Chioggia, Venezia, nel 1966. Educatrice professionale dal '92, ha collaborato a diversi progetti in ambito sociosanitario presso varie Usl. Si è laureata quest'anno presso l'Università degli studi di Padova come Educatore professionale.

 


        
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