LA MIA ETIOPIA


Francesca Grazzini

 

“Ci sono novità?” mi chiedeva sempre mia mamma.
Le novità gliele potevo raccontare solo io, perché lei era bloccata su una sedia a rotelle da tre anni, per un ictus impietoso. E così voleva sempre che io le raccontassi qualcosa di bello.
Ma le novità le porta il destino. Non serve aspettarle quando non hanno voglia di arrivare. Hanno vita propria. I propri tempi.
Quando soffri come soffrivo io, tutte le sere ripeti a te stessa, domani è un altro giorno, seppelliamo questo e speriamo in qualcosa di diverso e di migliore.. Tutte le sere di tutti i giorni ti conforti in questo modo. Oggi non è successo niente, ma domani senz’altro… E non puoi mai sapere da quale direzione e in quale tempo le novità si presenteranno, pigliandoti di sorpresa.

Intanto i tuoi giorni corrono uguali. E tu non hai nulla da raccontare a tua madre.
Per di più c’è da fare attenzione a un’altra cosa: ormai è estate, che è il periodo dell’anno in cui si apre la voragine del vuoto, agosto, il mese più bianco, dilatato, difficile, da riempire con non si sa mai quale trovata. Io non sopporto l’agosto e la domenica: qualsiasi cosa si faccia, le strade hanno le serrande chiuse e la città si nega alla gente che è costretta a bighellonare fuori , con l’intervallo di un gelato. In agosto tutti i giorni sembrano altrettante domeniche.
Ogni volta per riempire l’estate ci vuole una nuova idea particolare, una diversa soluzione. Perché non si può stare dove si sta tutto il resto dell’anno e tutti quelli che si conoscono schizzano via sospinti ai quattro angoli del mondo.
Ma il mondo a me in questo periodo sembra sovraffollato di persone inconsistenti, che salgono e scendono da treni, aerei, automobili, e non cercano di fare altro che godersi la vita come non se la sono mai goduta. Il più delle volte tornano a casa lamentandosi del fatto che è piovuto troppo o che hanno mangiato male.
E’ veramente un caso molto strano quando qualcuno assicura di essersi divertito. In agosto “divertimento” è una parola un po’ forte da tirare in ballo.
Io insomma sono quel genere di persona che non si gode l’estate. La aspetto sempre con ansia e con sospetto.
“ Cara mamma….”
Non è che non succeda che io riesca a mettere insieme un buon programma. Ma prepararlo mi costa una fatica immane. Perché l’essere allontanata da tutto ciò che mi tiene legata all’abitudine mi mette addosso una sensazione di gran fragilità. Come se diventassi un bicchiere di vetro, che nessuno riempie, e che è collocato sul bordo più estremo del tavolo, pronto a cadere.
Andarsene da casa negli altri periodi dell’anno è più semplice, perché tutti quelli che non sei tu rimangono nelle rispettive postazioni e, anche allontanandoti, puoi fare conto su di loro, puoi sempre comporre un numero telefonico e trovarli nelle loro case, sui loro luoghi di lavoro.
In agosto nessuno rimane dov’era (a parte mia madre), si crea un nulla faticoso, e non ho nessuna vergogna nel confessare che quel nulla a volte mi fa paura. Preferisco che le giornate si susseguano ciascuna con il proprio ritmo di cose note da fare e di persone da incontrare. E’ molto più sicuro.
D’estate insomma io e il mio gatto facciamo fatica a capire dove ci possiamo collocare, su chi possiamo contare
Ci guardiamo nelle pupille degli occhi perplessi. Lui si chiama Gatto. I suoi occhi così gialli e brillanti. Lui non teme la solitudine meno di me, credo, per quanto si possa capire un felino. Ma ecco che quest’anno è successo qualcosa d’imprevisto, proprio all’inizio dell’estate.
“ Caro Gatto, Cara mamma, vorrei parlarvi di Milli…”
E tutto ciò che ho pensato finora di questa infame stagione non risulta più vero. Guardo Gatto negli occhi e vorrei che capisse. Dovrò sistemarlo in qualche modo che a lui non piacerà, probabilmente lo porterò da mia madre e mia zia. Loro sono l’unica mia sicurezza, un duo affiatato a cui si aggiunge la presenza serale dello zio. L’estate la passano sempre nella loro cittadina di provincia, perché hanno un giardinetto e mia madre, colpita dall’ictus, è immobilizzata su una sedia a rotelle. La loro vita è allietata dalle parole crociate di mia madre e dai romanzi rosa di mia zia. Mi telefonano tutte le sere per sapere come sto, mia madre strascica sempre un po’ le parole, ma ormai ci sono abituata. Mia madre e mia zia sono un punto fermo che mi fa un po’ tremare, perché temo di perdere anche questo.
Ecco, guardo negli occhi il mio gatto e cerco di spiegargli, magari per telepatia, che finalmente a me è successo qualcosa che promette di cambiarmi la vita.
Perché sulle soglie di un’estate che si annunciava vuota come molte altre, più di tutte le altre, dopo che il mio fidanzato mi aveva lasciato, all’improvviso è capitato qualcosa.
Sconvolgente.
Tale da mettermi tutta in discussione.
La novità è arrivata a buttarmi all’aria presumibilmente tutto il tempo che deve venire. Non sarò più la stessa. Il bicchiere sul bordo del tavolo non cadrà più per terra, c’è chi ha pensato a riempirlo di un buon vino frizzante e metterlo al centro, al sicuro. Ma ecco che cosa è avvenuto.
“ Ho conosciuto Milli, o Million detto Milli”.
Million e la sua Africa sono la mia grande novità. Voglio dire, per una che aveva smesso di aspettarsi qualcosa, c’è di che montarsi la testa. Un intero continente sconosciuto. Mi aspetta. Un intero uomo, sconosciuto, mi vuole. Il mio povero gatto legge nei miei occhi che me ne andrò. Lo lascerò alla mamma e alla zia. Questo mi impone l’estate più strana che si sia mai vista nel tranquillo panorama della mia vita.

Tutto quello che sto per raccontare era impensabile solo prima di luglio. Anzi in quel periodo me ne stavo immersa fino al collo dentro una sofferenza sorda, tutti i giorni uguale. Perchè in primavera ero stata sbalzata fuori dalla mia tranquilla quotidianità, proprio come una cui capita che le si apra la portiera in una macchina in corsa e si ritrovi a rotolare per strada.
La colpa era di Fernando. Il mio uomo. E la colpa era di Raimondo, l’amante di una sera. La colpa era di Flora che era la fidanzata di Raimondo e poi l’aveva lasciato per prendermi Fernando. La colpa era mia che avevo fatto dei pasticci di cui ora avevo tutto il modo di pentirmi.
Soprattutto se si pensa che quello a cui aspiro è un amore totale, di dedizione reciproca. Mi piacciono le vecchie coppie che si tengono per la mano in mezzo alla strada. Però non sono stata capace di rimanere fedele al mio uomo, e mi sta bene che il destino mi abbia punito, togliendomi il mio compagno, questo lo avrei potuto immaginare all’inizio, nel momento in cui ho cominciato a deviare dalla mia retta via. Qualsiasi cosa mi riserverà il futuro, voglio giurare su quanto ho di più caro che non tradirò più chi mi ama. L’esistenza è tanto complessa. C’è bisogno di un uomo fidato da tenersi accanto, qualcuno che stia dalla tua parte, che prenda le tue difese nei confronti del mondo.
Già l’estate è difficile e dura, come ho detto. Ma affrontarla dopo che il mio uomo, Fernando, mi aveva lasciato, avendo scoperto la mia notte d’amore con Raimondo, per preferirmi un’altra, Flora, era un compito assolutamente superiore alle mie forze. Non ce l’avrei mai fatta. “Cara mamma, non so se riuscirò a uscire da questo tunnel di dolore” No, questo non glielo avrei mai detto.
Mi abbandonai a giorni bagnati dalle lacrime e annebbiati dalla disperazione, da passarsi, nel tempo libero, dentro il chiuso della mia stanza, stesa sul letto, senza forze per vivere, ricordando, recriminando. “Sai mammina, credo di avere un po’ di influenza… No, che c’entra Fernando, ho qualche linea di febbre”
A marzo Fernando mi aveva lasciata, e a marzo, privata del suo amore, avevo cominciato a mettere in atto tutti i gesti e le attività tipici delle disperazioni degne di questo nome.
Mi addormentavo mortificata e vinta, dopo aver mangiucchiato i resti di cibo che trovavo in frigorifero, e mi dicevo prima del sonno che l’oggi era stato terribile, e il domani chissà, anche peggiore. E la mattina, con il caffè davanti, imploravo tra me senza crederci, speriamo che oggi capiti qualcosa.
Il giorno dopo si ripresentava pieno del dolore della separazione, senza le sorprese di cui avevo tanto bisogno per dare una svolta alla mia vita distrutta. Mi immaginavo che Fernando potesse tornare, per opera di non si sa quale incantesimo dentro la sua vita, ma questo non succedeva mai. Il telefono non squillava e nemmeno io riuscivo a battere sui tasti il numero del mio ex fidanzato, per via della stima di me stessa, che sola era rimasta a darmi un po’ di consolazione.
Davanti a me vedevo la prospettiva di un tempo infinito senza amore, che per ora riuscivo ancora a riempire dei soliti doveri, ma che in agosto si sarebbe dilatato fino a disperdermi ai quattro venti.
Non potevo ancora immaginare l’arrivo di Million e della sua Africa.
Davvero il destino non si lascia prevedere, e per ora me ne stavo tutta abbandonata a me stessa, dentro al fatto sciagurato della separazione.

Vorrei però per un momento allontanarmi dal cuore del racconto, che inizia in modo così cupo e inquietante, ma anche così imprevedibile ( a causa di Million, dicevo) per concentrarmi un pochino sul mio gatto. Proprio Gatto? direte voi. Sì, il gatto, che mi dà modo di illustrare la mia filosofia e il mio punto di vista riguardo all’amore.
Il fatto è che lui ha vissuto da poco una storia totalizzante e ha sofferto per l’improvvisa scomparsa della sua compagna. Lo si capisce da come trotterella per casa non perdendomi mai di vista. Annusa e si struscia. E’ un campione di bellezza nero e bianco regalatomi da un negozio di animali tre anni fa insieme alla sorellina, che era tale e quale a lui ma in formato ridotto.
Arrivarono in casa che avevano paura di tutto e si nascondevano sotto il letto e il divano. Io dovevo passare il mio tempo appiattita suo pavimento con la guancia contro il parquet per poterli stanare con l’aiuto dei croccantini di cui erano ingordi, una specie di droga.
Se ne stavano acquattati in qualche angolo oscuro della casa e uscivano soltanto quando mi mettevo a scuotere la scatola dei croccantini che come uno strumento musicale fatato, come il flauto magico del pifferaio di Hamelin, li convinceva a sfidare gli immaginari pericoli della mia casa per avanzare guardinghi verso la mia mano protesa.
Quando alla fine, presero confidenza con la casa , da un momento all’altro incominciarono a utilizzarla tutta, fin nell’angolo più impervio e irraggiungibile,
Successe proprio così. Il giorno prima se ne stavano nascosti in qualche loro tana. Il giorno dopo avevano l’aria di essere immensamente incuriositi e di voler esplorare l’appartamento dappertutto. Erano perfettamente affiatati. La casa cominciava ad appartenere più a loro che a me.
Salivano sugli scaffali tra i libri di poesie e i romanzi. Si addormentavano abbracciati sulla poltrona in strane pose, magari con le zampette sulla testa come gli umani che si coprono gli occhi per non vedere la luce.
Ben presto mi resi conto che si amavano con una sorta di coinvolgimento totale che mi escludeva dalla loro vita. Il gatto e la gatta bastavano assolutamente a se stessi. Che io fossi o non fossi a casa non era importante, se non per l’indispensabile ruolo svolto quando dovevo aprire le scatolette del mangiare.
Diventarono i custodi fedeli del mio focolare. Si impossessarono di esso. A quel tempo erano dunque molto indipendenti. Non mi correvano incontro quando tornavo a casa. Conducevano una vita di coppia più che soddisfacente.
Li scoprivo appallottolati in qualche luogo della cucina, della sala, della mia camera da letto e mi rassicurava la loro presenza schiva. Per una che non aveva scelto di avere gatti ma che si era trovata in quella condizione per un moto di generosità improvviso dell’animo, quando li avevo visti serrati in una gabbietta nel negozio di animali, il loro menage discreto e intelligente era di certo l’ideale.
Poi venne l’anno in cui in agosto me ne andai a Londra come cameriera in un pub, per una operazione culturale sovvenzionata dalla mamma. Ero volata via dalla mia casa per impratichirmi in una lingua che conoscevo solo per averla imparata a scuola, spinta a seguire un'amica che aveva trovato un alloggio per due.
Affidai i miei gatti a un’altra amica ancora, che fortunatamente quell’anno rimaneva in città e poteva recarsi a casa mia tutti i giorni ad aprire le scatolette di cibo e mettere acqua pulita nella ciotola. E fui duramente punita. Agosto colpì crudelmente come non avrei mai potuto immaginare. La mia piccola micia morì in circostanze drammatiche. Aveva perso il pelo a ciocche e le si potevano raccogliere qua e là come se il pavimento fosse diventato un giardino di peli. Ritrovai il lenzuolo su cui si era adagiata l’ultima volta tutto sporco di sangue.
La mia amica, non sapendo che fare, aveva spostato il cadavere sul balcone dove lo trovai irrigidito in un sacchetto di plastica del supermercato. Non pensai di meglio che portare la gattina dove l’avevo trovata, nel negozio di animali, perché trovassero un modo per seppellirla. Lì venni a sapere che era rimasta vittima di una malattia che è l’Aids dei gatti.
Gatto, il fratello della gattina, amico e amante, era un portatore sano. Non correva nessun pericolo, ma era condannato a vivere da solo, perché avrebbe potuto contagiare con la sua malattia qualsiasi gatto con cui fosse venuto in contatto.
Da quel momento, da quando rimase solo, senza più l’amore fedele e incondizionato della gattina,il mio gatto divenne dipendente da me, dalle mie carezze e attenzioni.
Si sentiva sperduto. All’inizio era commovente vederlo girare e annusare dappertutto in cerca della sua compagna. Miagolava in un modo da far piangere il cuore.
Alla fine prese l’abitudine di dormire sul mio letto ai miei piedi. Glielo concessi perché capivo che il destino si era accanito troppo duramente contro di lui.
Non c’è niente di più doloroso che vedere la fine di una vecchia coppia perfettamente affiatata. Potrà sembrare strano, ma metto in relazione il mio gatto e la gattina con Gorbaciov e sua moglie Raissa.
Ricordo la commozione che mi prese quando lui apparve in televisione, al funerale della moglie, ed era l’ uomo che aveva cambiato le sorti del mondo, un grande della terra capace di reggere una pericolosissima rivoluzione, un paese immenso come la Russia che cambiava la sua storia dopo più che mezzo secolo, ma ora di queste cose non gliene importava niente, non poteva preoccuparsi, non era più un uomo politico, era un marito sopraffatto dal dolore. Incapace di trattenere le lacrime, si esprimeva come un bambino a cui avessero tolto la mamma. Gorbaciov non aveva più difese e si abbandonava alla disperazione davanti agli occhi di milioni di persone.

E’ così difficile raggiungere un equilibrio amoroso, e i miei due gatti lo avevano vissuto per molti mesi. Ora mi saltava in grembo tutte le volte che mi sdraiavo da qualche parte. A chi lo avrei affidato per l’estate?
Che avrei fatto di lui e di me, cominciai a chiedermelo a marzo, affogata nelle preoccupazioni, dopo che la storia con Fernando era all’improvviso e definitivamente finita. L’unica via d’uscita che riuscivo a vedere era quella di affidare il gatto a mia madre. O meglio a mia zia che assisteva mia madre, immobilizzata da un ictus. Vedova da qualche anno. Mia zia e mia madre vivono in un’altra città. Come ho detto, anche loro due si vogliono bene, in modo totalizzante, senza se e senza ma. Anche loro sono un modello d’amore. Mio zio torna a casa solo la sera. Ma francamente sembra perfino di troppo, perché mia zia e mia mamma, nella loro difficile situazione, sembrano bastare assolutamente a se stesse. Per raggiungerle bisogna prendere il treno.
L’estate dunque mi si presentava ancora più imprevedibile e vuota perché Fernando, dopo una storia durata nove mesi, aveva capito, disse, di non amarmi più. Noi tre, io Fernando e il gatto, negli ultimi tempi sembravamo diventati più intimi. Dormivamo insieme. Vado matta per questa cosa che è dormire con un uomo accanto. Ora tutto nella mia vita veniva rimesso implacabilmente in discussione.
Chi è Fernando: è ora di introdurlo. Perché Fernando era Fernando. E anche se me lo dovevo ormai dimenticare c’erano stati troppi mesi passati insieme, colazioni, pranzi cene, domeniche rifugiati nei cinema, Il sogno di una notte di mezza estate soprattutto. Appena prima di dimenticare viene la voglia di ricordare tutto. Dal primo bacio alla prima volta a letto. Dalla prima volta a letto all’ultima, quando ancora non ci si rendeva conto che lo sarebbe stata. Fernando era il mio fidanzato.
Mi piaceva vedermelo arrivare davanti quando ci davamo gli appuntamenti. Da lontano cominciavo a guardarlo mentre mi si avvicinava, era lì per me e per nessun altro, mi sembrava di riceverlo in regalo, perché mi piaceva pensare “quest’uomo è mio”. E non c’è un altro modo di definire il mio sentimento per lui che come puro e semplice possesso.Gli toccavo un braccio e pensavo, lo posso fare, con qualsiasi altro uomo no, con questo sì, lo posso accarezzare quando voglio, perché è il mio uomo. L’altra parte di me. Io ho un modo di essere e di pensare da donna e lui è il mio modo di essere e di pensare da uomo. Mi interessava il suo punto di vista, ed ero tutta impegnata a tirarglielo fuori, con fatica, perché Fernando era di poche parole e a volte veniva da pensare che al di là delle parti che recitava a teatro, volesse tenere nascosti e difendere i suoi pensieri più intimi. Avrei voluto che noi due insieme esplorassimo il mondo nei suoi angoli più segreti, come facevano i miei gatti con la mia casa. Fernando però aveva delle difese. E non lo capivo fino in fondo.
Era rimasto il mio uomo fino a marzo. Fino a un bel giorno di primavera spazzato dal vento che in città aveva pulito l’aria dalle sostanze inquinanti, ma che aveva sporcato in un modo irrimediabile la mia vita quieta e appagata da un affetto che durava da così tanto tempo che ormai ci avevo fatto l’abitudine. Ma mi rendo conto che la mia emozione rende il racconto confuso: andiamo con ordine.
Per farmi capire meglio adesso devo dire soprattutto due cose di me. Studio teatro e lavoro in un’impresa di pulizie.

Naturalmente vorrei avere un futuro come attrice, ma il mio mestiere di addetta alle pulizie, quello con cui mi guadagno da vivere, non mi fa provare sentimenti di inferiorità. Lo trovo anzi un’occupazione molto tranquillizzante.
E’ necessario sentirsi in un certo senso responsabili. Ma non è uno di quei lavori che sfidano la vita, come certi che mi farebbero letteralmente impazzire di paura, il medico o l’avvocato. Avere per le mani il destino della gente. Questo sì che mi farebbe provare angoscia. Già è tanto che io debba sentirmi responsabile di me stessa e della mia buona riuscita. Occuparmi delle pulizie era decisamente rassicurante. Qualcosa che riuscivo a portare a termine positivamente ogni giorno. Avevo la possibilità di restare infilata nei panni dei miei personaggi senza essere distratta troppo.
Quest’anno la mia piccola compagnia teatrale voleva mettere in scena il Sogno di una notte di mezza estate, e a me era stata assegnata la parte di Puck. I miei capelli rossi tagliati cortissimi mi favorivano, ero ben compenetrata con il mio personaggio, che deve essere un po’ monello, un po’ fatato. E così mi era di aiuto la mia voce da ragazzino.
I versi che dovevo recitare mi tornavano in mente mentre trascinavo l’aspirapolvere sulla moquette degli uffici di una società situata in periferia, dall’altra parte della città da dove vivo. L’aspirapolvere andava avanti e indietro, avanti e indietro, con lentezza e precisione.
” Per il bosco ho scorrazzato
e nessun ateniese vi ho trovato
su cui provare se il fiore
è poi vero che suscita amore…
Ecco là la dama dorme
sulla terra sporca e mezza.
Poverina non s’azzarda
a giacersi accanto a lui,
lui che tanto ne disprezza
ed affetto e cortesia.
Sui tuoi occhi a te villano
ecco verso il succo arcano…”

Il succo arcano che induce la passione amorosa.
Mi sentivo molto brava e preparata. In sintonia con la mia parte (pure se conoscevo a memoria anche i versi degli altri interpreti). Puck è un genio della natura che inventa scherzi e compie sortilegi. Era stato molto divertente infilarsi nei suoi panni. Lo vivevo come una specie di marionetta più che come essere in carne e ossa. Un piccolo buffone. E soprattutto, preparandomi ad essere Puck, mi lasciavo influenzare dal suo personaggio e mi sembrava di potermi permettere di vivere in modo più lieve e spiritoso del solito. Non riuscivo a staccarmi dal mio personaggio quando avevo finito le prove, lo portavo con me.
Quindi anche la mia vita era diventata così, più leggera, allegra.
“ Sai mamma, va tutto bene” Ma non potevo raccontarle davvero tutto quello che mi succedeva.
Puck e la presenza di Fernando mi facevano sentire sistemata in una realtà accogliente. Quindi non so bene come successe, ma successe davvero.
Amavo Fernando, e dopo un po’ venni presa anche da una strana attrazione per Raimondo, un altro attore della compagnia. Come se la contentezza che provavo ogni giorno lasciasse lo spazio a essere contenta anche un po’ di più.
Da parte sua Raimondo mi cercava. Era diverso da Fernando. Per una notte sola ero stata la sua amante. Ma non credo che avrei limitato il mio tradimento a una notte sola, se Raimondo non si fosse subito tirato indietro, confidandomi che non era innamorato di me ma di Flora, la sua fidanzata, regista della compagnia.
Per me quell’unica notte era stata importante. Per Raimondo un semplice divertimento. Io ero divisa tra le qualità e i difetti di Fernando e Raimondo. Ma nel frattempo, in mezzo a questa confusione amorosa, quando portavo con me Puck sul mio luogo di lavoro, negli uffici resi metafisici dall’assenza e dal silenzio, non lasciavo mai angoli inesplorati dal mio aspirapolvere, perché avevo imparato che il dovere è stabilizzante e avevo così bisogno di punti fermi a cui ancorarmi.
Non permettevo che la mia passione per il teatro e per due uomini mi distraesse da ciò che dovevo fare. I miei sentimenti ballerini tra Fernando e Raimondo. In questi grandi uffici a perdita d’occhio, scrivanie, scaffali e piante finte, pulivo a fondo usando tutti quegli accessori in dotazione all’ aspirapolvere che servono per stanare lo sporco.
Avevo imparato a considerare la polvere come la mia grande nemica e ad esultare ogni sera, quando l’avevo sconfitta. La polvere può essere molto dannosa. Contiene acari che provocano allergie noiosissime. Puck aveva un compito e lo assolveva con piacere: adorava togliere la polvere. Passando l’aspirapolvere si formavano nella moquette strisce pulite che via via vincevano la parte di pavimento impolverata.
Mi comportavo come una di quelle casalinghe entusiaste delle pubblicità televisive, che con una sola passata trasformano la superficie sporca in superficie lucida e brillante. In qualche modo mi sentivo fiera, sia della mia scelta di recitare che di quella di pulire le moquette degli uffici. Forse in questo stavo mettendo in atto un’eredità ricevuta da mia madre, che prima della paralisi, che le aveva tolto l’uso di metà del corpo, era sempre stata una brava donna di casa e in più, cosa che io non ero, un’ottima cuoca.
Avrei dovuto mettere ordine nella mia vita come facevo negli uffici.
Forse era merito degli insegnamenti di mia madre, ma io ci tenevo a che tutto fosse a posto e pulito. Il rumore dell’aspirapolvere mi ispirava. I luoghi inabitati in cui dovevo operare avevano un aspetto strano, stimolante. Come se tutto quello spazio in genere occupato da persone operose ,quando loro non c’erano più, cadesse in mio potere. Mi veniva consegnato perché ci facessi ciò che volevo. E ciò che volevo era ripulirlo a fondo, in modo che le persone operose tornassero in grado di svolgere i loro compiti.
Era una cosa che sapevo fare. Così mi sentivo soddisfatta. E soprattutto, nonostante non ne abbia parlato sinora,c’era Asli a lavorare con me, un’etiope molto capace, che parlava tanto ed era decisamente simpatica.

Fino all’inizio della primavera mi sentii perfettamente calata nella mia realtà. C’era il teatro, c’era Fernando (con l’intervallo di Raimondo) e c’erano gli uffici da pulire.
Ma poi a marzo la mia piccola storia d’amore con Fernando si concluse bruscamente.
Lui, nel Sogno di una notte di mezza estate, interpretava la parte di Lisandro. Un mese prima che mi lasciasse io lo avevo tradito con Raimondo, che nella commedia aveva il ruolo di Demetrio. Dunque. Credo che il clima del Sogno avesse favorito l’insorgere di sentimenti fluttuanti, che non mi sono propri.
Raimondo si era accorto di me. Mi guardava da lontano. Mi prendeva per mano alla prima occasione. E così poi successe quel che succede in questi casi. Avevamo fatto velocemente l’amore e lui se n’era subito dimenticato. Il giorno dopo non mi guardava già più, non mi prendeva più per mano, più nulla, come se l’aver fatto l’amore avesse esaurito tutta la sua curiosità..
Non lo aveva saputo quasi nessuno. Ma quel “quasi” lo aveva raccontato a Fernando. Che aveva reagito con grande compostezza. Lo avevo rassicurato che si era trattato di uno sbandamento temporaneo. Anche se invece l’amore con Raimondo mi aveva lasciato tracce dalle quali non riuscivo a liberarmi. Era successo, e mi aveva creato delle aspettative che Raimondo aveva provveduto subito a cancellare.
Raimondo si era semplicemente servito di me per ingelosire la regista, Flora, che non sembrava innamorata di lui come una volta. La nostra unica notte d’amore, quella mia con Raimondo, per quanto a me forse parsa sincera, si era rivelata semplicemente un diversivo. Questo mi aveva confuso. Non sapevo più dove stare, in bilico tra Fernando che amavo da mesi, e Raimondo che mi aveva attirato in una specie di tela di ragno, per mangiarmi in un solo boccone la notte che avevamo passato insieme, e risputarmi fuori tutta masticata e avvilita il giorno dopo, quando mi aveva confessato la sua predilezione per la sua fidanzata Flora.
Strano percorso quello che passava attraverso di me per arrivare a lei.Tutto inutile del resto, perché Flora non ricambiava più l’amore di Raimondo ed evidentemente aveva già messo gli occhi su Fernando. Il mio Fernando.
In marzo Flora aveva deciso di rivelargli la sua passione. Lei aveva preso l’iniziativa. Credo che il suo ruolo tra tutti, quello di regista, fosse il più affascinante. Flora era la guida del nostro gruppo d’attori. Reggeva lo scettro del comando. Era lei che ci imponeva i gesti, le intonazioni. Non si può negare che la sua sicurezza nel distribuire ordini e consigli fosse seducente. Io stessa l’ammiravo. E Fernando da quando Flora si era dichiarata, si era accorto di non amarmi più e di corrispondere invece appassionatamente all’amore di lei.
Ero rimasta di punto in bianco senza fidanzato, Fernando, senza amante, Raimondo, senza la guida di Flora, e senza la parte, quella di Puck.
Eppure dentro di me rimanevo un piccolo elfo dai capelli tinti di rosso, vittima dei suoi stessi inganni. Naturalmente non me la sentivo più di recitare in una compagnia dove la regista si era fidanzata con il mio fidanzato. Eccomi dunque sola, con il mio gatto solitario. Alle soglie della temibilissima estate. Come dicevo, c’era di che tremare.

Passai le prime notti insonni a ricostruire il mio dramma in ogni sua forma ed aspetto. Piangevo di notte e anche di giorno. L’ aspirapolvere, per quanti sforzi facessi di mantenermi ligia al mio compito quotidiano, ormai non funzionava più a dovere. Dov’era andata a finire la mia passione per l’ordine e la pulizia? Ero diventata distratta e svagata.
I miei due amanti, Fernando e Raimondo, si erano entrambi liberati di me.
Non volevo più vedere nessuno di loro. Dovevo cancellarli dalla mia vita. Cosa non facile, perché i versi di Puck continuavano a passarmi e ripassarmi nella mente, senza avere però la forza di scacciare il mio dolore, ricordandomi continuamente quello che avevo perduto.
Il desiderio di essere Puck mi resisteva dentro e mi dava sofferenza. Mi sentivo come una donna incinta a cui fosse negato di partorire il suo bambino. Per tanto tempo avevo provato e riprovato la parte. In tutto quel periodo ero stata una persona veramente completa, nella sua vita sentimentale come in quella lavorativa. Avevo perfino immaginato che non avrei temuto l’estate come al solito, ora che avevo Fernando sempre vicino a me e la prospettiva di mettere in scena il Sogno in autunno.
Ma adesso tutto era diventato oscuro e privo di speranza. Come potevo fare per uscire da quel vuoto assurdo che minacciava i miei giorni a venire?
O notte angosciosa, o lunga notte tediosa,
accorcia le tue ore!…
E il sonno,che talvolta serra gli occhi al dolore
per un po’ lungi mi porti dalla compagnia di me stessa.

E ancora “Mai così stanca e mai tanto infelice!”
Ma, ora è il tempo di dirlo, in mezzo a quei giorni fatti di lacrime e disperazione, il destino aveva ancora in serbo per me qualcosa di bello. Di molto bello, se penso a come apparve Million all’improvviso nei miei giorni feriti.

Però non devo fare così. Non devo introdurre Million all’improvviso. E’ vero che proprio all’improvviso mi apparve davanti. E che da allora vive dentro di me, nel mio mondo immaginario che mi consola e che si accompagna a quello reale che fa i conti con la vita severa. Ma non posso fare confusione. Devo raccontare con un certo ordine e Million dunque deve aspettare che io ne parli dopo che avrò descritto la festa di San Gabriele e la sera del ballo da Usman, in mezzo alla campagna, e naturalmente, molto prima, la mia amicizia con Asli.
Così in quella primavera dai cieli azzurri in cima ai palazzi che il sole tingeva di rosa, dolce preludio all’estate che sempre invece mi incuteva terrore, avendo perso contemporaneamente la mia parte nella commedia e il mio amore, trovai sollievo insperato nell’amicizia con Asli.
Asli era molto nera. La compagna di lavoro assegnatami dall’agenzia delle pulizie. Non mi ero curata molto di lei fintanto che ero stata impegnata con la compagnia teatrale. Mi piaceva averla accanto perché era una chiacchierona, allegra e divertente. Capivo poco quel che diceva perché si inventava un italiano buffissimo, ma era allegra e solare. Avevo provato stima per lei fin dall’inizio perchè era proprio brava nel suo lavoro ed era impossibile non accorgersene. Mi incuteva rispetto e fiducia.
Immaginate qualcosa di molto grande e grosso. Un volto allegro in cima a un bel corpaccione ampio. Treccioline ai lati della faccia fin giù sul petto ampio. Fianchi larghi e sedere fiero, sulle gambe più lunghe e affusolate del mondo. Mentre io mi occupavo dei pavimenti lei doveva riordinare e spolverare i mobili e le scrivanie.
E’ facile capire il livello di difficoltà di una simile mansione se soltanto ci fermiamo a pensarci. Si tratta di passare ovunque lo straccio senza compromettere l’ordine particolare in cui ciascuno lascia i propri documenti, in modo che possa trovarli nell’identica posizione il giorno dopo. E sono documenti importanti, di cui i possessori si servono per affari di grande complessità. E’ vitale che una scrivania non sia sopraffatta né dalla polvere né dal disordine. Asli riusciva in pieno a raggiungere i suoi obiettivi.
Così come io ero competente con il mio aspirapolvere lei lo era con il suo straccio sulla superficie accidentata delle scrivanie. Io e Asli formavamo una squadra vincente. A mia madre Asli risultava così simpatica, per quello che le avevo raccontato di lei, e sempre al telefono mi chiedeva più notizie sulla “tua amica negra” che su Fernando, quasi presagisse che un giorno avrei avuto più aiuto e collaborazione da lei che da lui.
Asli era etiope.
Quando mi vide precipitare nell’angoscia dell’ abbandono cominciò a consolarmi con brevi frasi che diventarono sempre più efficaci. Io fermavo l’aspirapolvere per mettermi a piangere in modo soddisfacente. Lei abbandonava lo straccio per soccorrermi e a volte abbracciarmi stretta.Un uomo che mi lasciava per un’altra non meritava che lo piangessi tanto. Dov’era finito l’orgoglio? Peccato soprattutto che avessi dovuto rinunciare alla mia bella parte nella commedia. Questa era la perdita più importante, veramente, diceva Asli. Come potevo fare per distrarmi?Una sera mi tenne stretta mentre piangevo e mi disse che dovevo imparare a trovare un nuovo scopo nella vita, un desiderio, per non pensare a Fernando che non mi amava più.
Anche lei era stata abbandonata dal marito, per il quale continuava a provare un sentimento d’amore infelice e non corrisposto.
Ma la vita doveva ricominciare, era distruttivo tenersi attaccate a un amore impossibile. C’era tutto un mondo, al di là della sofferenza e della solitudine. E c’è sempre la speranza. Lei non aveva mai smesso di sperare che i suoi figli, che vivevano con il padre, la raggiungessero in Italia.
Per sua volontà, in aprile, cominciai a prendere confidenza con le comunità nere in città.
Andavo in giro con lei. Mi telefonava o mi faceva la sua proposta mentre lavoravamo insieme, ed io per non stare da sola dicevo sempre sì.
Perché Asli viveva in modo molto intenso i suoi rapporti sociali. C’era sempre un matrimonio o un battesimo o un compleanno a cui partecipare.
E da un certo momento in poi, essendo io stata lasciata sola da Fernando e da tutta la compagnia teatrale, Asli cominciò a coinvolgere anche me, che non avevo motivi per resistere ai suoi inviti pressanti.
“ Allora esci con Asli adesso?” mi chiedeva mia madre al telefono, dopo essersi informata di cosa mangiassi e di come mi vestissi per andare fuori, che erano i suoi argomenti preferiti. Aveva capito forse che cominciava un nuovo periodo per me.
In effetti cominciai a sentirmi come se fossi stata accolta da un’altra compagnia teatrale. Solo che in questa gli attori recitavano tutto il giorno la loro parte, ed io non ero abbastanza preparata. Mi mancava un testo. Dovevo improvvisare sul momento.
I neri, imparai presto, sono molto diversi dai bianchi . Non fu facile all’inizio traslocare da tutti gli amici che avevo frequentato a teatro a queste nuove persone che all’inizio mi sembravano molto estranee e per questo tutte uguali e designate da nomi che scordavo nell’esatto momento in cui loro si presentavano, prendendo con convinzione la mia mano e pretendendo di baciarmi, sempre tre volte, dovevo ricordare.
Ma a poco a poco, con l’aiuto o la regia di Asli, cominciai a distinguerli, a conoscere qualcosa delle loro storie.A interessarmi ai loro fatti e alla loro musica . Una total immersion in un continente altro, che fino a quel momento era esistito di fianco al mio, nella mia stessa città, ma con cui non ero mai entrata in contatto. Finii con lo stupirmi di non essermi accorta prima di tutta quella vita.
Mi circondarono di affetto fino dal primo momento. Di questo fui subito grata.
A loro piacevo. A tutti piacevo. Mi avvicinavano. Soprattutto volevano che facessi festa con loro. Dovevo mangiare abbondantemente i loro piatti ricchi di sorprese, e condividere la gioia per la loro musica.
Ce n’erano di perfettamente inseriti, che avevano portato in Italia anche i fratelli e i genitori, ce n’erano di soli, lontani dai figli piccoli e dalle mogli o dai mariti, che tuttavia non potevano più fare a meno del sistema di vita occidentale. I loro stipendi assolutamente incompatibili con quelli che avrebbero potuto ottenere a casa. Vestivano anche cose firmate e false. O casacche colorate sui jeans.
Però se la testa era in occidente i piedi rimanevano in Africa, e di questo sembravano ricordarsi quando per celebrare qualche rito mettevano i loro abiti tradizionali, ascoltavano i loro cantanti, quando ballavano, quando mangiavano il loro cibo, quando lo mangiavano con le mani con un’abilità tale che le dita rimanevano pulite.
Alcuni di loro mi fecero un’impressione più forte: ad esempio c’era una nera del Senegal che alle feste era invitata come ballerina professionista, ma aveva un sedere grosso come quello di un grosso animale. Quando cominciava a muoverlo diventava impossibile non rimanere ipnotizzati. Anche le cosce erano belle tonde, ma sode. I polpacci maschili.
Lei cominciava a ballare con grazia paradossale, il pubblico si entusiasmava e la copriva letteralmente di soldi. Glieli infilava nella scollatura, oppure glieli incollava sulla fronte sudata. Una sera mi chiese di raccoglierglieli se le cadevano a terra. La cosa più sorprendente però era il fatto che fosse sposata a un avvocato italiano talmente bianco di carnagione da sembrare albino, e che votava per Forza italia.
Lei era di sinistra, mi disse, ma c’era l’amore a tenerli insieme. Sulle cose della politica litigavano immancabilmente, nella vita di tutti i giorni andavano perfettamente d’accordo.
Mi sorprendeva anche il matrimonio tra un vecchio di sessant’anni, magro e rugoso, con una ragazza cubana che non doveva avere venticinque anni. Lui alle feste si occupava della loro figlia, una bimba alta quasi quanto la madre, mentre lei non faceva che sculettare a ritmo di salsa. In generale le coppie di neri e bianchi risultavano sorprendenti e nello stesso tempo rassicuranti. L’amore riusciva a mettere insieme di tutto.
E poi naturalmente c’era Asli. Ben presto invase completamente la mia vita, con il suo fare materno e protettivo.

Asli mi raccontò che era lontana dal marito e dai figli che lui le aveva sottratto, rimasti ad Addis Abeba, e ogni tanto piangeva nella sua solitudine, ma solo ogni tanto, e sempre brevemente, perché la vita doveva avere la meglio. Fino a quel momento avevo solo saputo che era lontana dalla sua famiglia. Ma non mi aveva mai confessato il suo dolore.. Non era qualcosa che si potesse immaginare, perché il suo atteggiamento era sempre stato molto aperto e disponibile, di grande coraggio.
Scopersi che quando era in compagnia diventava la più incredibile ideatrice di scherzi e narrazioni di ogni tipo. E, accuratamente truccata, gli occhi sottolineati dal rimmel, il rossetto sulle labbra, madreperla sulle unghie delle mani e dei piedi, mi trascinò nella baraonda che era la sua vita, di giorno in compagnia delle sue amiche, e molte sere in mezzo alle musiche e alle danze di una discoteca che si chiamava Le scimmie.
La notte, nella confusione, all’inizio io mantenevo un silenzio carico della mia sofferenza, dalla quale non riuscivo sempre a prendere le distanze. Ma intanto avevo cominciato a uscire. E il darmi da fare in qualche modo mi permetteva di tornare a casa stanca morta e di buttarmi sul letto a dormire per dei periodi abbastanza lunghi, senza pensare al Fernando perduto.
Asli dimostrava un atteggiamento entusiasta nei confronti della vita, che le garantiva torme di ammiratori e la mia riconoscenza. Da un certo momento in poi vissi della sua luce riflessa. In discoteca, dopo aver provato e riprovato a muovermi al ritmo noioso del reggae che Asli prediligeva, mi addormentavo verso le tre con la testa abbandonata sulle braccia conserte sul tavolino.
L’importante era uscire. Reagire. Tornavo a casa intontita, e mi gettavo sul letto vestita completamente, e subito raggiunta da Gatto che mi aveva atteso tutto il giorno e la notte.
Quando Asli mi invitò alla festa di San Gabriele della sua chiesa cristiano copta decisi che volevo saperne di più di lei e della sua gente.
Dovevo documentarmi.
Dovevo fare come quando leggevo un testo prima di recitare e lo imparavo a memoria, e diventava una parte di me. Salii fino all’ultimo ripiano della libreria, a nascondere Il sogno di una notte di mezza estate in mezzo ai libri di cui avevo meno bisogno, e uscii a comprare una guida dell’Etiopia.

Mi piaceva l’idea di conoscere qualcosa di Asli e dei suoi amici a loro insaputa. Li avrei sorpresi con la mia competenza.
La guida era ben scritta. Era una bella guida della Lonely planet con una donna nera in copertina, avvolta in vestiti colorati. Lessi un po’ della storia, che era assurdamente complicata, e di come erano fatti Addis Abeba e i dintorni. “All’inizio del XX secolo l’Etiopia era l’unico stato a essere stato risparmiato dalla corsa europea alla spartizione dell’Africa. Tuttavia la sua scomoda posizione tra le colonie italiane dell’Eritrea e della Somalia la rendeva un bocconcino assai appetibile agli occhi dell’Italia. Quando Mussolini salì al potere nel 1922 le ambizioni coloniali italiane esplosero e accadde l’inevitabile”.
Quando arrivò il giorno della festa alla chiesa copta mi unii ad Asli, volevo imparare un po’ come era la loro messa, in quale rapporto fossero con Dio.
E, arrivata alla chiesa, vidi che tutte le donne erano addobbate come quella della copertina della guida, con abiti lunghi, bianchi e ricamati. Per fortuna mi ero vestita con una camicetta elegante. Non sfiguravo.La funzione incominciò molto presto la mattina e durò diverse ore. Per me non era facile stare sui due piedi ad ascoltare cose che non capivo. C’erano uomini e donne dentro e fuori la chiesa. A volte si ballava e si cantava. Mi piaceva l’idea che pregassero battendo tutti insieme le mani. Il sacerdote condusse il suo pubblico in corteo fuori dalla chiesa dietro l’Arca dell’alleanza.
Ad Asli quel giorno non era concesso di entrare in chiesa, mi disse lei. Perché, chiesi. Perché aveva le mestruazioni. Con le mestruazioni non si poteva entrare in chiesa. E nemmeno le donne che nella notte avevano avuto un rapporto con il proprio marito potevano entrarci, o, figuriamoci, con un amante. Così molti rimanevano nel cortile a chiacchierare. Tanto amore si doveva essere consumato la notte prima. C’erano capannelli vivaci e un chiacchiericcio che naturalmente mi colpiva per quanto mi faceva sentire estranea e lontana. Dovunque c’erano torme di bambini ben vestiti che giocavano in qualunque modo. C’era un’atmosfera da festa paesana.Più tardi distribuirono pane e ngera da mangiare.
E per la verità fu lì che vidi per la prima volta Million.
Era un bel tipo con una gran massa di capelli rasta . A momenti si metteva a giocare con i bambini. Li rincorreva, e li prendeva in braccio. Notai solo questo. Asli me lo presentò velocemente e non capii come si chiamava.
Alla fine andammo, senza di lui, a casa di amici eritrei di Asli, che prepararono il caffè alla loro maniera su un complicato mobiletto di formica, sotto il quale furono sparse delle foglie colte da un albero. Insieme al caffè vennero serviti dei pop corn. Fu divertente e strano.
Poi arrivò, a fine luglio, quando l’estate ormai si stava aprendo davanti a me con le sue lunghe giornate bianche, ma con la consolazione di Asli, arrivò, dicevo, l’invito che cambiò tutto, quello di cui ho parlato prima, cioè il giorno della festa di Usman, che era amico di Asli.

Io non conoscevo Usman, ma non aveva importanza. Mi aveva invitato lo stesso, perché Asli gli aveva parlato di me. Usman era originario del Senegal. Aspettava che la moglie e i due figli, l’ultimo dei quali non aveva mai visto,.lo raggiungessero in Italia. Era magazziniere. Aveva organizzato la festa per il suo compleanno, alla quale aveva invitato gli amici e gli amici degli amici.
La sua casa era in mezzo alla campagna, saremmo andate con la mia auto. Mi pettinai con il gel che dava alla mia zazzera rossa un aspetto spettinato. Infilai il mio vestito più attillato, con uno spacco che metteva in risalto la mia gamba sinistra. Infilai braccialetti in tutte e due le braccia. Avevo pianto per Fernando anche quel giorno, ma mi ero imposta di non farlo più, almeno fino al giorno dopo. Poi avevo telefonato alla mamma. “Questa sera c’è una festa”. “Cosa ti metti?” mi aveva chiesto. “Un vestito attillato”, risposi. Mi parve contenta. Il suo sguardo da lontano sulla mia vita, nelle sue condizioni, mi rassicurava.
Avevo tutta l’intenzione di lasciare il fantasma del mio ex fidanzato fuori dalla serata. E uscii per andare da Usman piena di una strana e perfino eccitata aspettativa.
Questo nero del Senegal accoglieva i suoi ospiti vestito di un abito con grandi stampe chiassose. Compiva trent’anni. Portavo con me una torta salata come contributo al buffet, e la depositai sul tavolo accanto agli altri sformati, e in particolare allo zighinì cucinato da una qualche eritrea, che è un piatto di pane, ngera, da riempirsi di carne e verdura, che loro mangiano abilmente con le mani, piccante. Era un nuovo tipo di Sogno
“ Questo è un posto come Dio comanda
per le nostre prove. Questo spiazzo erboso
farà da palcoscenico.
Questa siepe di biancospino da spogliatoio.
Ed ora reciteremo proprio come davanti al duca”
.
Anche qui il giardino prometteva magie e avventure.
Era un prato di velluto tagliato di fresco, percorso da donne di ogni tipo che sfoggiavano vestiti strani e seducenti, e da uomini bianchi e africani che interpretavano a piacere la combinazione maglia pantaloni, in mezzo a un tripudio di zanzare.
C’erano tre grandi statue tribali quasi appoggiate agli alberi e la musica era molto ritmata. Guardai tra i cd impilati su un tavolo, Yousson N’dour, Cesaria Evora, Fela Kuti, Papa Wemba e altri di cui non sapevo nulla. Nel patio della casa due cubane strizzate in jeans e top brillanti ballavano meravigliosamente, invitando già dal pomeriggio anche gli altri a fare altrettanto.
Non sapevo bene come comportarmi. Volevo starmene a guardare un po’.
A dire la verità ero discretamente paralizzata dentro di me. Nessuno mi aveva dato consigli su come recitare questa parte. Ma non volevo recitarla male, non essendo all’altezza degli altri ballerini.
Ero e mi sentivo tragicamente bianca, molto impacciata nonostante avessi tanta voglia di sciogliermi dentro alla vita e alla musica senza sapere da dove cominciare. Asli partecipava con entusiasmo, rumorosamente. Pretendeva che ballassi anch’io. Ma ogni mossa che il mio corpo riusciva a inventare impallidiva di fronte alla spontanea e allegra perizia degli africani.
Non avevo imparato come loro da bambina certi movimenti delle spalle e del bacino che rappresentavano quindi per me delle mete irraggiungibili di bravura. La musica sembrava entrare nei loro nervi e scuoterli, e dentro di me era inutile, non produceva questo effetto.Ero in grado tutt’al più di spostarmi da un piede all’altro in un modo che fino a quel momento era stato il mio modo di ballare, ma che ora, in mezzo ai ballerini così capaci di quella festa, non sentivo per nulla convincente.
Immaginavo che il movimento fosse connaturato con loro così come la parola. Facile muoversi come facile parlare. Anzi, ballando parlavano di amore e sesso e speranza e felicità
Noi occidentali dobbiamo aver perso la capacità di muoverci in qualche fase precoce della nostra esistenza, non può esserci mancata questa occasione da piccoli, ma è come se qualcuno ci avesse intimato allora di crescere timidi e impacciati.
Ed ora per me, e per gli altri bianchi che vedevo osare il ballo in mezzo al patio, era troppo tardi. Non potevo fare altro che ammirare. Asli mi spiegò che il loro modo di ballare si chiama iskista e consiste nel tener immobili le anche e nel muovere su e giù, avanti e indietro solo le spalle, come spinti da una molla. Questa molla mi mancava..
Quando la luce scese e il cielo divenne fluorescente per il tramonto si formò un cerchio che si muoveva coerentemente secondo un’altra modalità di danza che probabilmente era dell’Africa nera: di volta in volta due danzatori si staccavano dal gruppo e entravano nel centro per inventare movenze sessuali, intrecciando le gambe e dondolando il bacino in modo da simulare il coito. Questi uomini e queste donne che nella vita di tutti i giorni facevano i lavori più umili,facchini, magazzinieri, trasportatori, per mezzo della musica si trasformavano e diventavano principi e principesse di un mondo primitivo, capaci di gesti dal contenuto primordiale, ed io ero sopraffatta dalla loro superiorità, perché riuscivano a essere espliciti e nello stesso tempo eleganti.
Mi sedetti da una parte. Ero stanca e un po’ avvilita per il fatto che il mio corpo, che avevo esercitato nell’ambito del teatro, mi tradiva ora così tanto, inerte e inespressivo nonostante il fascino della musica. E fu allora che alzando gli occhi sul gruppo che ancora ballava che mi accorsi di lui, per la prima volta.
Doveva esserci stato anche prima, ma lo vedevo davvero solo in questo momento. Ballava benissimo. Quest’uomo era Million, che avevo conosciuto alla chiesa copta. Non era alto e nonostante dal modo di ballare e dai dred sulla testa si dichiarasse africano, era tuttavia di pelle piuttosto chiara. Si era tolto la camicia e ballava a torace nudo con un paio di calzoncini corti. Non poteva dirsi bello, ma la sua faccia mi colpì e rimasi a guardarlo dalla mia postazione su una sedia laterale.
Era lui, quello che durante la messa della festa di San Gabriele avevo visto giocare con i bambini. Quando sono in mezzo alla gente sento spesso la solitudine caratteristica di chi è circondato da estranei. Ma qualche volta nella vita succede che all’improvviso, dentro una folla uniforme, un perfetto straniero diventi famigliare, per qualcosa che, non so dire come, lo avvicina all’improvviso e lo fa diventare significativo.
Sui tuoi occhi a te villano
ecco verso il succo arcano
.
Stava dunque succedendo di nuovo, così, imprevedibilmente.
Incominciavo a provare qualcosa di speciale per Million, senza ancora sapere chi fosse e perché mi piacesse.
Seduta in un angolo potevo guardarlo senza che nessuno se ne accorgesse.
Parlava e danzava con Asli, sembrava che si conoscessero bene.
E infatti a un tratto smisero tutti e due di partecipare al ballo e vennero dalla mia parte dove alcune sedie vuote aspettavano di venire occupate.
Vi si lasciarono andare apparentemente esausti. Asli rideva per qualcosa che lui le stava dicendo nella sua lingua, l’amarico. Asli era seduta tra noi due.
“ My name is Million” mi ricordò lui sporgendosi in avanti e avvicinando una mano alla mia. “Antonia” dissi io presa alla sprovvista,
“ Million come milione” suggerì Asli.
“ Veramente?” dissi io “Million come Milione?”
Lui annuì “Milli for my friends. And also for you. I come from Addis Abeba. And you? Are you Asly’s Friend”
“ Yes, I work with her”.
La musica a tutto volume ci impediva di scambiare informazioni più precise. Era il momento di Bob Marley. “I prefer african reggae”, disse Million.
Ora non potevo più guardarlo, perché mi sedeva vicino, ma tra me e me mi interrogavo su quel viso che mi appariva familiare. Il suo viso sembrava promettere un mondo di storie strane. Immaginai subito che Million avesse passato l’infanzia e l’adolescenza per strada e che i molti incontri che aveva fatto gli avessero segnato i lineamenti. Aveva le braccia muscolose e il torace largo. Il resto del corpo era quasi minuto. Le gambe erano magre e i piedi erano chiusi in sandali grossolani.
Quando Asli se ne andò a cercarsi da bere lui mi prese una mano e le fece accarezzare le sue gambe sotto il ginocchio. Erano piene di punture di zanzare. Rideva.
Mi fece cenno di chiedermi se poteva accarezzare le mie gambe. Feci di sì con la testa.
“ No mosquitos” disse “Your blood is not sweet enough”.
Poi rimanemmo in silenzio a guardare gli altri ballerini che passavano da una salsa a una danza africana. Sentivo l’impressione di essergli molto vicina. Mi prese di nuovo per mano perché mi alzassi e andassi a ballare con lui. Cercai di resistere. La sua mano era forte. Mi lasciai trascinare. Muoveva le spalle alla maniera del suo paese, io non potevo riuscirci. Mi fece cenno di ballare lo stesso. Ci provai vergognandomi molto. Asli ci raggiunse. Si misero spalla contro spalla a seguire il ritmo. Erano bravissimi. Li lasciai per tornare a sedermi. Che lo guardassi o meno, ormai esisteva, tra tutti quanti. Milli.
Mi diede dispiacere che qualcuno venisse a occupare le sedie accanto a me.
La notte era scesa dolcemente con la sua oscurità ovunque, sul giardino popolato di gente, sotto il patio della casa illuminato dalle lampadine. Sembrava che le ore buie infondessero nuovo vigore a tutti, come se ci fosse un acme da raggiungere a poco a poco, prima di decidere che la festa fosse finita.
La musica incalzava, lasciavo che mi sfinisse. Avevo bevuto anche un pochettino. Tutto sembrava facile e a portata di mano. Quell’uomo al centro dei miei pensieri. Era bello che quest’uomo mi piacesse tanto. Ci eravamo già accarezzati a vicenda . Le zanzare, una semplice scusa. Come toccarlo ancora? Avanti, farsi venire un’idea, per non perderlo, per parlarci ancora. Ma non fu necessario prendere nessuna iniziativa.
Asli venne dalla mia parte e mi fece capire che voleva dirmi qualcosa.
Mi alzai abbandonando la sicurezza della mia postazione.
“ Milli è rimasto solo. Suo cugino è già tornato a casa con la famiglia. Chiede se lo portiamo indietro noi. Potremmo dormire a casa tua stanotte”.
“ Certo Asli, perché no. Ma ho un pochino bevuto”
“ Possiamo far guidare lui”.
Acconsentii. Dunque era così facile introdurlo nella mia vita. Come di cosa decisa dall’alto. Destino appunto, quello che all’improvviso rovesciava la mia vita e le dava una direzione nuova. Più tardi vennero a prendermi e io lasciai scivolare le chiavi della macchina nel palmo della mano di Milli. Salutavamo tutti come se tutti fossero i nostri amici del cuore, anche se molti di loro li avevo visti per la prima volta quella sera. Mi sentivo in un’ottima disposizione d’animo, piena di speranza, e lottavo con me stessa per non cadere addormentata.
Milli prese possesso come un vero padrone prima della mia auto, poi della mia casa. Come il gatto, ben presto si mosse come se ci fosse sempre stato, dentro la mia vita e le cose che mi appartenevano.
Era un modo di fare da neri. Anche Asli a casa mia sembrava la padrona. Andava ai fornelli, prendeva le pentole, il riso, cucinava quello che aveva voglia. Milli prese i bicchieri dalla cucina. Lui e Asli avevano portato con sé una bottiglia di whisky e si misero pazientemente a sorseggiarne il contenuto sdraiati sul divano della mia sala dove il gatto li aveva raggiunti.
Parlavano amarico. Il suono delle loro voci non smise di cullarmi mentre nel mio letto lentamente prendevo sonno e li lasciavo alla loro conversazione. Il vino che avevo bevuto mi impedì di stare sveglia. Nemmeno per amore, e nemmeno per un amore che stava per nascere.
La mattina mi svegliai con Asli accanto a me. Il suo corpo rotondo si stagliava immobile accanto al mio. Milli dormiva sul divano del tinello con la coperta addosso, le gambe nude e in una strana posizione. Il gatto si era acciambellato su di lui. L’unico posto dove potevo stare sola era la cucina. Mi preparai il caffè. Sedetti in un angolo sorseggiandolo con grande piacere.
Insomma era successo. Non avevo dovuto aspettare nemmeno poi tanto, anche se l’attesa m’era sembrata più lunga di quanto potessi sopportare.
Nella vita non ero contenta se non ero innamorata.
Ed ora mi sembrava proprio di essere sul punto di un nuovo amore. Benvenuto.
Il gatto arrivò guardingo, stiracchiandosi davanti a me per segnalarmi che era pronto per la sua razione di croccantini. Lo accarezzai e lo accontentai subito. Era così bello vegliare sul sonno degli altri, dopo essermi addormentata con gli altri che vegliavano sul mio.
Preparai con grande cura la colazione per tutti. Ma loro sembravano ancora sprofondati nel sonno. Sbirciai in sala. Milli se ne stava a pancia in giù in un precario equilibrio sul bordo del divano letto. Girandosi anche poco avrebbe potuto cadere come un bambino.
Sul tavolo i miei due ospiti avevano lasciato i bicchieri e la bottiglia di whisky vuota. Andai in bagno a lavarmi e vestirmi e uscii di casa a comperare il giornale, percorrendo la strada affollata del sabato. Al ritorno Asli e Milli avevano cambiato posizione, ma non si erano svegliati ancora. Toccai Asli sulla spalla. Gemette rivoltandosi. “E’ quasi ora di andare”, le dissi. Controllò l’orologio da polso a fatica. Si alzò, si grattò la testa e prese in considerazione l’idea di cominciare la giornata. Quando fu pronta le chiesi, “Che facciamo con Milli?” Ci mettemmo d’accordo di lasciargli una copia delle chiavi ben in vista sul tavolo.
Al lavoro fui più efficiente del solito. L’essere nuovamente sul punto di innamorarmi mi riempiva di energia. Passai da un ufficio all’altro aspirando dappertutto come una pazza. Pulii le macchie con acqua e detersivo.Non so se Asli si accorse del mio cambiamento, ma non disse nulla. Mi sedetti a una scrivania e composi il numero di casa. Milli non rispose. Doveva essere già uscito. Mi prese forte la nostalgia. Ebbi paura di averlo perso.
Asli disse: “Lo troveremo a casa di suo cugino”. Sì, forse aveva notato il mio cambiamento, ed ora mi proteggeva. Però finsi di essere preoccupata per le chiavi che avevo lasciato a Milli. Le dissi:”Mi piacerebbe che tornaste stasera a cena”
“ Va bene” disse lei, “Ma ricordati che Milli non mangia né cavallo, né maiale”. “Come mai?” “Per via della Bibbia” tagliò corto.
La sera alle otto erano di nuovo da me.
Il cugino di Milli portava i dred come lui. Cenammo insieme, guardammo un documentario alla televisione. Si vedevano luoghi selvaggi e spiagge coralline. Acqua del mare verde smeraldo., palme e vegetazione lussureggiante. Milli mi chiese “Is Italy this?” “No Milli, there are not place like this in Italy”.
Il gatto andava e veniva, facendosi accarezzare e a tratti rintanandosi nei suoi angoli preferiti. Spesso gli etiopi si mettevano a parlare nella loro lingua e mi tagliavano fuori dalla conversazione, ma mi sentivo bene lo stesso.
Era abbastanza che Milli fosse vicino a me. Questo è il primo segnale dell’amore. Che ci si accontenta semplicemente del fatto che l’altro sia presente. E quando manca l’ambiente diventa un po’ vuoto, uno spazio non molto significante. Lo spazio dell’attesa che l’altro ritorni.
Arrivarono le una di notte ed erano ancora con me. Io stranamente resistevo sveglia. Guardai alla finestra. Il ristorante di fronte aveva spento le sue luci e così anche il gelataio all’angolo. Milli disse che sarebbe uscito per una passeggiata. Dissi che sarei andata anch’io. Gli altri due ci salutarono tranquillamente e ripresero le loro confidenze intorno al tavolo.
Fuori c’era un venticello tiepido e una bella luna dorata che camminava con noi da sopra i tetti.
Le strade erano quasi deserte e silenziose.
Nell’attraversare Milli si faceva più vicino a me e a volte mi teneva per il braccio, come se fosse pericoloso che io proseguissi da sola, senza la sua vigilanza.
“ Tell me your story” mi chiese. Lo guardai sorpresa.
“ Your love story. Everyone has a love story”
“ I am an actress, you know” risposi allora, perchè gli avevo già raccontato della mia passione per il teatro. Continuai il racconto.
“ I fall in love for a young actor, younger than me. His name was Fernando. His caracter was not easy. He was very ambitious. We loved each other for almost one year. After that there was a comedy where we had to… recitare. How do you say recitare?”
“ To play”
“ E’ vero, to play. Well, then the director arrived. She was a woman. A beautiful woman. She fall in love for Fernando. There was a difference of age of twenty years. But it did not matter. Fernando left me, and now I’m alone”.
Stavamo attraversando una strada, deserta come le altre, e Milli allungò un braccio per guidarmi e nello stesso tempo per consolarmi del mio triste resoconto.
“ I’m sorry for you. But now you can meet someone else better than him”.
“ Ormai il dolore sta passando. But you? What about a girlfriend in Addis Abeba?”
“ Yes, I had a girlfriend”, rispose molto lentamente, tenendo la testa reclinata sul petto e i dred gli nascondevano gli occhi.
“ Tell me about”.
Non cominciò subito. Percorremmo un breve tratto in silenzio. Non c’era nessuno. Davanti a un portone chiuso si fermò e poi scandì bene il suo racconto. “She was nice. She was eritrean. When the war began she had to go back in Asmara. She was called at the army. Her family doesn’t know anything about her”
“ Oh Milli. Do you think she’s dead?”
“ I don’t know. I wait always some news about her. But now time passed.”
Mi guardò dritto negli occhi e mi prese il mento tra le mani: “You too are so nice”, disse Poi riprendemmo a camminare: “Do you want to come with me in Etiopia. If you want I can show you my country. I leave soon”.
“ For your job?”
“ I’m… commerciante” disse in italiano “I’ve business with China.
Gli alberi di città, alti e forti, allineavano i loro tronchi neri nel buio della notte. I semafori lampeggiavano tingendo l’aria di un po’ di colore giallo. Il mondo si era fermato per dormire, e noi due eravamo le uniche presenze vive in quelle strade.
Mi fermai di fronte alla saracinesca di un meccanico. Ero indecisa su quello che era più adatto e utile dire. “Do you want I come with you?”
Accennò a baciarmi sulle guance. Prima su una guancia poi sull’altra. Aspettavo il terzo bacio che è proprio del rituale etiopico. Ma la sua bocca scivolò sulla mia e vi si fermò. Aprimmo le labbra Mi si strinse addosso. Mi appoggiò alla saracinesca. Il suo sesso indurito cercò il mio, i vestiti a separarli. Gli affondai le mani nei capelli folti e lo allontanai un po’ “Wait Milli”. Mi mordicchiò le labbra e si staccò da me. “We can make love tonight?” chiese. Ci baciammo ancora a lungo poi lo fermai di nuovo.
“ No, we cannot make love”.
“ Why not?”
Dissi molto sicura: “We haven’t anything to make sex sure”
Seguì un momento di silenzio. Sembrava che questa volta ci mettesse un sacco a tradurmi.
“ Do you mean condom?”
“ Yes”. Ma sapevo che non era solo questo. Avremmo potuto andare a cercarne un pacchetto in una farmacia notturna. Non era quello.
C’era altro.
Lo sapevo, mentre rimanevo zitta nel silenzio calato tra noi.
C’era qualcosa che avevo capito definitivamente con Raimondo. Quella cosa che è l’amore di una volta sola. Com’era stato quello con Raimondo e con altri prima di lui.
L’amore della prima volta per me era sempre soltanto l’inizio. Quello che apriva la porta alla conoscenza più intima
Per un uomo invece, questo avevo capito, una volta sola poteva bastare. Questa la differenza.
Fin dal primo momento io cadevo nell’esistenza dell’altro tutta intera. L’altro invece si accontentava di assaggiare il mio corpo come per una curiosità repentina e passeggera.
Con Raimondo era successo così. Con altri era successo in passato. Io sempre mi immaginavo fin dall’inizio il grande amore. Non può essere il fatto così, di passare una notte soltanto. Per un uomo, ora lo sapevo, una volta sola è una facile esercitazione di cui godere e poi dimenticarsi.
Per una donna come me invece ogni sospiro, gemito, ogni atto e ogni gesto racchiudevano come in un regalo un’attenzione speciale e una promessa di futuro.
No.
Con Milli non volevo consegnarmi senza difese. C’era la serena delicatezza di quella notte così silenziosa e profumata. Questo mi spingeva a confidare nelle carezze e nei baci.. C’era la brutalità del suo sesso contro il mio. Era troppo presto. La mia mano che lui aveva condotto giù in basso oltre la cintura ritornò al suo posto chiusa in un pugno.
Mi guardai intorno per vedere se arrivasse qualcuno. La strada era completamente deserta. Riprendemmo a camminare fianco a fianco in silenzio. Poi si fermò di nuovo “Come with me, Antonia”, disse di nuovo.
“ Certo che verrò con te”, dissi in italiano.
Mi baciò ancora sulle labbra.
Tirai fuori le chiavi per aprire il portone e gliele porsi perché aprisse lui.
“ Sleep with me, please” gli chiesi.
Milli rise : I could not sleep with you. I could not, you know. Let me go home. Ci vediamo domani” terminò in italiano.
Salì in casa a prendere suo cugino che nel frattempo si era ubriacato e se ne andò con lui e con Asli lasciandomi sola nel silenzio della mia stanza a pensare.

Il gatto mi raggiunse subito.
Dunque questa era una fase della mia vita diversa. Doveva esserlo se volevo imparare qualcosa dalle esperienze.
L’amore non può essere la malattia di un attimo indotta da un Puck in vena di pazzie con l’aiuto di un succo magico che sveglia o assopisce i sentimenti, che così come produce l’incantesimo lo scioglie e lo deride.
Non c’è niente da ridere in amore. Io volevo una storia duratura. Qualcosa che assomigliasse all’attaccamento dei miei gatti, di Gorbaciov per Raissa, di mia madre e di sua sorella. Volevo un compagno alleato nei confronti degli avvenimenti della vita.
Durante la notte, non riuscendo a dormire, continuavo a pensare e pensare. Cos’è il modo diverso di intendere l’amore dell’uomo e della donna. In cosa consiste. Nel corso del tempo mi ero fatta un’idea. Il mistero che spingeva l’uomo a possedere una donna anche solo una volta, senza amore, si chiamava erezione.
Oh sì, era di questo che ragionavo, stranamente non riuscendo a prendere sonno, nel buio della mia camera, avvolta nelle coperte e sola perché Milli se n’era andato a casa invece di rimanere semplicemente a dormire accanto a me per dare un avvio che io ritenevo più poetico alla nostra relazione. Nel buio della notte, rassicurata dal calore del mio letto, ragionavo sugli uomini e su quel buffo meccanismo che si impadronisce del loro sesso e li comanda e dirige, senza romanticismo.
Il loro pene singolarmente dotato di vita propria, come un bambino piccolo e capriccioso che reclama di venire accontentato subito quando la fame incalza.
L’amore si accompagna al sesso solo dopo quella frequentazione che permette a due amanti di imparare i reciproci desideri.
Quindi la prima volta non dovrebbe mai essere l’ultima. E’ una prova. Farlo una volta sola e poi basta è togliere l’anima all’amore e lasciarlo sbucciato, indifeso, morente.
Non che non mi piaccia la sfacciataggine dell’erezione, pensavo. L’uomo non può mentire.
Il pene inalberato come una bandiera, un segno così vistoso e bello del desiderio. Il desiderio sciolto nel sangue che finisce con l’erigere un simile monumento, ardito, vigoroso, allegro perfino, al bisogno dell’altro. L’erezione è bellissima. Una donna ha desiderio di provocare l’erezione. Non solo quella però. Non per una volta sola e poi basta.
Come lo posso dire? Per me attrice era come affrontare un provino e subire il rifiuto.
Avanti un’altra. La parte non ti è affidata. Buttala via, non c’è pubblico, non c’è recita, niente applausi alla tua interpretazione.
L’amore è un turbinio che ha bisogno di venire calmato alla fine, di acquietarsi tra le braccia e dentro la vita dell’altro.
“ Qui sulla nuda terra
dormi profondo.
Il mio farmaco
o dolce amante
ti stillerò
sul ciglio
E al tuo risveglio
Troverai
grande piacere
nel rivedere
gli occhi del primo amore.
E il detto di campagna
“ tocca a ognuno il suo dovuto”
sarà vero al tuo risveglio. Gianna avrà Giannino
e niente andrà per il peggio.
Chi l’ha persa riavrà la cavalla
e tutto finirà per il meglio.”

Con Milli io volevo qualcosa che non fosse di una volta sola e per finta.
Che sapevo di lui, se non che mi attraeva.
Non sarei più riuscita a giocare.
Gli avrei insegnato a tenere a bada il suo istinto impietoso, quel suo sesso così reclamante, per dare la possibilità a una storia che stava nascendo di costruirsi un po’ alla volta, con tutta la poesia che poteva contenere. Volevo che mi portasse il suo paese e tutti i suoi amici in dote.
Un povero paese pieno dell’energia primordiale di tutti i paesi poveri. In cui la gente aveva a che fare con problemi essenziali e non con le nevrosi, così immaginavo. I loro sorrisi a dispetto di tutto. Il loro corpo che ricorda tutti i movimenti e il fascino e l’allegria del ballo anche quando loro sono esuli e mortificati da lavori che noi occidentali gli lasciamo in elemosina. Perché vivere è bello nonostante ogni confusione e il dolore.
Mentre così ragionavo nella notte insonne il gatto era preso da una delle sue estemporanee follie e saltando e correndo di qua e di là per la casa come un cacciatore in cerca di preda contribuiva a tenermi sveglia.
Scesi dal letto per cercare la guida lonely planet dell’Etiopia. Il sonno non voleva venire. Allora pensai di passare il resto del tempo a sognare a occhi aperti, capacità che un’attrice possiede al massimo grado, quando è guidata da un testo.
La prima cosa che immaginavo con veridicità era che Milli mi fosse accanto nel letto.
Lui non era rimasto, io chiamai a sostituirlo il suo fantasma, più accondiscendente con me.
Questo Milli immaginario era sdraiato nel letto al mio fianco e mi accarezzava la pelle nuda con la stessa delicatezza con cui io accarezzo il mio gatto. Mi accucciai contro di lui e lo pregai, come faceva mia madre con me: “Raccontami qualcosa di bello”.
Nel mio sogno Milli rispose in uno strano italiano, quello che una straniero usa dopo qualche tempo che sta nella nuova terra ospitante.
“ Cosa vuoi sapere?”
“ Di te e del tuo paese”
“ Ad Addis Abeba ci vivo da quando ero bambino. Stavamo per strada, spesso giocavamo alla guerra con una banda di amici. Alcuni di loro poi sono morti nella guerra vera. Anch’io ho visto i cadaveri, quelli della battaglia del Tigrè…Ma questo non è bello da sapere. Non te lo voglio raccontare, dentro di me è cancellato Invece quand’ero bambino ero felice. La mia è una città enorme. Se vuoi che continui, prima mi devi baciare”.
Baciai Milli castamente sulla fronte, e ridemmo.
E lui riprese.
“ Come sono le strade di Addis Abeba?” gli chiesi
“ Piene di gente, Confuse. Ti terrei sempre per mano per non perderti. Però è accogliente e per nulla pericolosa. Ti sentiresti sicura con me e anche senza di me. Ti divertiresti, ci sono grandi alberghi, palazzi dell’epoca fascista insieme a capanne d’argilla, e macchine e taxi, e bus e asini e capre che brucano sui marciapiedi.”
“ Bello. Andrei di sicuro in qualche mercato, ma davvero dovresti starmi vicino, perché mi piace girare senza dover pensare a dove sono. Da sola mi perdo. Nei posti che mi prendono di più sono capace di andare in estasi, perdo il senso del tempo. Mi affiderei tutta a te”.
“ Fai bene a dirmelo, non ti perderò d’occhio. L’Addis Ketema ti piacerebbe molto , è il più grande mercato dell’Africa orientale. “
“ Com’è fatto?”
“ Odore di spezie e colori dei tessuti. Devi vederlo. Vieni qui per favore. E togliti un po’ questa cosa che io non ci riesco”
“ Non ci riesci perché per ora non voglio. Ma dopo lo vorrò anch’io. Dimmi ancora cosa farei al mercato. “
“ Ti piacerebbero le bancarelle dove gli artigiani trasformano le latte d’olio e i pneumatici. Cammineremmo per ore. Ma non solo in questo mercato. Ti porterei al museo a vedere Lucy, lo scheletro umano più antico del mondo. Lo scoprirono negli anni Settanta in un lago prosciugato. Ha tre milioni di anni, riesci a capire? Metà donna e metà scimmia, pesante non più di 30 chili, alta poco più di un metro. Una piccola donna attraente come sei tu. Sai perché si chiama così? Perché al momento della scoperta gli archeologi ascoltavano Lucy in the sky with diamonds”
“ Dei Beatles”
“ Certo. Per ringraziarmi adesso baciami qui”
“ Sì, lo meriti”
“ Sai che l’Etiopia è considerata la culla dell’umanità?Veniamo da un passato pieno di meraviglie”
“ Ma oggi…la carestia nel tuo paese…”
“ Carestia? Non ne ho sentito parlare. “
Così il Milli vero mi aveva risposto quando gli avevo chiesto della “famine” di cui raccontavano i giornali.
Chissà com’era che non ne sapeva niente.
Non conosceva il problema della Nestlè, che aveva intentato una casa al governo dell’Etiopia per un esproprio subito, e poi l’aveva ritirata per problemi di immagine aziendale.
Il mio Milli inventato preferiva, come quello vero, raccontarmi di favole e leggende. Dovevo accettarlo. Probabilmente non voleva fare brutta figura con un’occidentale e per questo prediligeva i racconti sul passato mitico.
Disse che voleva condurmi a Lalibela, una delle meraviglie del mondo, con le cattedrali scolpite nella montagna. Ma non accennò al fatto che fossero abitate dai poveri che inseguivano i turisti per chieder loro denaro.
Voleva dimenticare che il suo paese era uno dei più poveri del mondo, dove gli aiuti internazionali venivano trattenuti tra le maglie della burocrazia statale, mancava l’acqua per gli allevamenti, il crollo del prezzo del caffè aveva costretto migliaia di persone ad emigrare, c’era stata la guerra…
“ E tu hai mai sentito del regno di Axum.?” chiese il Milli dei miei sogni.
” I negus che si sono succeduti alla guida del paese derivano il loro potere dalla storia d’amore tra la nostra regina di Saba e il mitico re d’Israele Salomone. La regina si recò in Israele e venne accolta da Salomone che se ne innamorò. Tornata ad Axum ebbe un figlio, Menelik che da grande rivide Israele e trafugò l’arca santa con le tavole della legge. Allora l’Etiopia era piena di giacimenti d’oro e per tutto il paese viaggiavano le carovane ricche di mercanzie. Il mio popolo è di nomadi che fondavano accampamenti e poi li scioglievano. Addis Abeba ha solo un secolo di vita.”
“ Tu fai commercio, Milli. Ma di cosa?”
“ Di quello di cui c’è bisogno. Vestiti, cibo…dipende da quello che richiede il mercato. Qui in Italia ho cercato automobili usate da importare, ma sono troppo costose. Quando verrai viaggeremo in aereo o in pulman. O affitteremo una macchina, come vuoi tu, se preferisci che andiamo a Sud dove ci sono le tribù più strane. Andremo dagli Aborè che coltivano banane e caffè. I loro bambini fanno da spaventapasseri viventi. Le donne Hamer sono coperte di gioielli di conchiglie. I Galeb hanno i capelli impastati di cenere e ocra e si adornano di penne di struzzo. I migliori agricoltori sono i Konso. I loro villaggi sono molto belli. Ci entri per una stretta porta, un tunnel di tronchi. Le ore del tramonto le passano a suonare con flauti e tamburi…”
In realtà piano piano questo racconto che mi stavo inventando mi portava finalmente verso il sonno e cominciavo a sbadigliare. “Dove andremmo se fossimo stanchi?”
“ Potrei condurti al New Filwoha Hotel, ad Addis Abeba, dove ci sono le acque termali e i massaggi. Vuoi un massaggio ora? Anch’io sono bravo. E tu? Sapresti massaggiarmi un pochino?”
“ Oh, Milli, quel che ho letto è che l’Etiopia ha perso tanti animali selvaggi che si sono estinti, ma è rimasto il paese degli uccelli”. Socchiusi gli occhi e mi preparai ad addormentarmi.
“ Ci sono trampolieri, cicogne, aironi, pellicani, fenicotteri, falchi, otarde. Hai mai visto volare gli storni?” chiese allora il mio Milli fantasma.
E continuò:“Volano tutti insieme a creare nuvole scure nel cielo, che cambiano forma continuamente in mezzo all’azzurro. Formano queste composizioni perfette senza mai sbagliarsi, senza scontrarsi, però sono migliaia, in ammirevole armonia, in un equilibrio magico, incomprensibile. Io penso che il volo degli storni sia la descrizione del paradiso, quando noi tutti esseri umani avremo imparato a volare insieme, e ci ritroveremo in un modo armonioso e danzeremo nell’aria e ci vorremo bene senza fraintendimenti e fatica.”
Poi disse: “Vieni, cominciamo da noi due ora…facciamo l’amore, vuoi?”
“ Sì” dissi io, “ora facciamo l’amore”.
E così dicendo mi addormentai.

Nei giorni che seguirono ebbi solo due problemi, ma molto gravi, da dover affrontare.
Dove portare il gatto e come mettere insieme i soldi per partire per l’Etiopia.
Milli mi aveva detto che la vita laggiù non sarebbe stata costosa, ma il prezzo dell’aeroplano era già tale da procurarmi delle difficoltà.
Fernando, Raimondo, Flora e Puck ero ormai sul punto di dimenticarli.
Mi era passata la voglia di piangere, naturalmente. Dovevo soltanto organizzarmi il più velocemente possibile, perché non sapevo quando Milli avesse intenzione di partire e volevo tenermi pronta. Sarebbe successo ad ogni modo entro agosto.
Per il momento lui era volato insieme al cugino in Svezia da parenti, ma progettava di tornare in Italia al momento di ripartire per il suo paese e mi aveva confermato che voleva portarmi con sé. Mi telefonava tutti i giorni con qualche frase carina in italiano che probabilmente si faceva tradurre dal cugino.
Questa cosa della mia partenza mi metteva, come mi capitava al solito di fronte ai viaggi, in uno stato di allerta costante, dalla mattina alla sera. C’erano un sacco di questioni pratiche da affrontare, più di quelle che sapessi risolvere. La realtà è molto complicata e mette i bastoni tra le ruote all’immaginazione.
Un giorno, prima di partire per la Svezia Milli mi aveva detto: “I want merry you”.
Sembrava serissimo.
Era molto di più di quello che potessi sperare. Volevo impegnarmi, correre il rischio, accettando di aprirmi a una vita inaspettata. Un amore serio, che passa attraverso esperienze profonde. Un altro mondo che mi rende ricca di nuove conoscenze. Non ci avevo mai pensato. Ed ora era lì di fronte a me. E con quanta facilità, nell’espressione convinta di Milli che mi teneva le mani, accettavo paradossalmente di andare a cercare sicurezza e continuità in un paese insicuro e frammentario. L’unica possibilità che avevo di affrontare i miei problemi era andare a trovare la mamma. Dovevo chiederle di tenermi Gatto e poi di darmi in prestito un po’ dei suoi risparmi. Io certo i soldi per il viaggio da me non li avevo.
Era una soluzione che mi pesava, ma non ne vedevo altre.
Per un momento però mi sentii perduta. E un dubbio feroce mise in forse i miei programmi.
La colpa era di una storia raccontata per filo e per segno nella cronaca del mio quotidiano. Lessi con avidità. Una ragazza era andata in vacanza a Sharm el Sheikh, sul mar Rosso, e si era innamorata di un ragazzo egiziano. La loro relazione era durata tre anni, con lei che volava da lui appena poteva. Finchè aveva deciso di sposarlo. Aveva preparato i documenti necessari e l’italiana li aveva portati con sé al Cairo. Ma i documenti non bastavano, le dissero gli impiegati. Ce ne volevano altri. E a quel punto il giovane egiziano, convinto di tornare con lei a cominciare una nuova vita in Italia, e ora impossibilitato a partire, aveva perso la testa. Aveva chiuso la sua fidanzata in una stanza e l’aveva picchiata. Chissà per punirla di cosa. A salvarla era stato il fatto che in un momento di distrazione di lui lei aveva mandato un messaggio con il telefonino a un amico in Italia. E il ragazzo egiziano l’aveva lasciata andare, triste e terrorizzata.
Mostrai l’articolo ad Asli. “E’ solo una storia. Chi racconta invece tutte quelle che finiscono bene? Eppure tu le conosci. Tra i nostri amici è pieno di coppie miste felici, non ti sei accorta, non le hai mai contate?”
“ Milli mi vuole sposare per venire in Italia?” chiesi
“ Non ci sarebbe niente di male. Ma per quello che capisco di lui, non ti farà soffrire”
Così una bella mattina mi inginocchiai in corridoio, con la gabbietta di fianco, e mi misi a chiamare il mio gatto con i soliti bacetti e soprattutto scuotendo la scatola di croccantini, in modo che facesse il rumore che lo incantava.
E Gatto arrivò e io riuscii ad agguantarlo e nonostante facesse resistenza lo pigiai dentro la gabbia dove cominciò a miagolare e a starsene con la bocca aperta e la lingua di fuori.
Il giornalaio della stazione, dove mi ero fermata per comperare l’ultimo Harmony da regalare a mia zia Una regina made in Usa, vedendo così il mio gatto, mi fece una disamina della situazione degna di un veterinario.
“ E’ ansia da viaggio, lo vedo da come tiene aperta la bocca. Ci sarebbe voluta della xamamina e gli sarebbe passata. Contiene serotonina che calma i timori”.
Edicolante d’eccezione.
Forse anch’io ero soggetta a quell’ansia, anche se non tenevo la bocca aperta. Quando il treno partì, Gatto per fortuna smise di miagolare e io potei immergermi nella mia nuova lettura, che era Ebano di Ryszard Kapuscinski. Un reporter polacco che era stato in Africa a lungo. “In passato, quando gli uomini giravano il mondo a piedi, a cavallo o per nave, il viaggio dava loro il tempo di abituarsi al cambiamento. I panorami scorrevano con lentezza, la scena del mondo si spostava di poco alla volta. Un viaggio durava settimane, mesi…Oggi di questa gradualità non resta più niente. L’aereo ci strappa bruscamente alla neve e al gelo e il giorno stesso ci scaraventa nell’abisso ardente dei tropici”.
Così mi sentivo io anche prima di cominciare. Scaraventata.
Scaraventata da Puck e dal mio Sogno pieno di atmosfere magiche, a un mondo completamente nuovo, altrettanto fatato, a considerare le descrizioni dei paesaggi che avevo letto sulla guida, ma così imprevedibile, perché ero abbastanza scaltra da capire che quel che leggi sulle guide non corrisponde mai alla realtà che poi si incontra. Mettiamo che tu sia davanti a uno scenario incantevole. Ma hai le vesciche ai piedi per quanto hai camminato. E al contrario, in un luogo senza particolari attrattive, lui ti dà un bacio diverso da tutti quelli mai dati. Nonostante la mia capacità di immaginare, avevo la sensazione che l’Etiopia mi fosse sconosciuta quanto uno qualsiasi dei pianeti del sistema solare.
Avrei dovuto spiegare alla mamma cosa mi ci spingeva tutto d’un tratto. La mia attrazione per Milli non sarebbe stato un buon motivo per lei come lo era per me.
Arrivai e la zia mi venne ad aprire la porta tutta eccitata.
Era sempre molto contenta di vedermi. Era sempre molto contenta di vedere qualcuno, perché con la mamma passavano le giornate da sole e avevano fame di visite. C’era una signora della parrocchia che portava loro l’ostia della comunione. C’erano le vecchie amiche. E verso sera arrivava anche lo zio che lavorava da autista. Ma per il resto trascorrevano il tempo in cucina a risolvere le parole crociate la mamma, a leggere i rotocalchi e gli Harmony mia zia. Fantasticavano sulla vita dei vicini di casa che si vedevano attraverso le finestre. Oppure stavano in sala a guardare i quiz alla televisione, le telenovelas, i telegiornali.
Ed ora che l’estate era cominciata, sedevano fuori, davanti al giardinetto circondato da cespugli di fiori. Mia madre era paralizzata nella parte destra del corpo da un ictus che l’aveva colpita tre anni prima, dopo la morte di mio padre. Mia zia Emilia l’aveva immediatamente adottata e se l’era portata a casa, in una città lontana un’ora di treno dalla mia, per accudirla con un amore sorprendente, perché prima della disgrazia non aveva avuto modo di manifestarsi in tutta la sua pienezza come ora.
Ora, così, quelle due donne vivevano intimamente la malattia capitata a mia madre.
La zia Emilia le aveva concesso di portare con sé dei mobili dalla sua vecchia casa, dei soprammobili e dei dipinti. Così ora l’appartamento della zia era arredato in maniera sovrabbondante.
C’erano fotografie incorniciate di tutta la famiglia, statuine di ogni tipo, centrini di pizzo, vasi, candelieri. C’erano piante e fiori che la zia curava con amore. Le petunie viola pendevano fuori dalle finestre come un tappetino profumato.
Nel giardinetto mia zia e mia madre si erano perfino inventate di far piantare un filare di pomodorini, che ora pendevano rossi e brillanti, rallegrando il verde del prato.
Mia madre mi chiamava tutte le sere per salutarmi biascicando un po’ le parole. Ma oramai sapevo a memoria quello che voleva dirmi. La prima cosa era che aveva caldo. Aveva sempre caldo, d’estate come in pieno inverno. In secondo luogo si informava su di me. Voleva sapere come mi ero vestita per uscire. Insieme a ciò che avevo mangiato, era quello che voleva sapere da me. E spesso aggiungeva: “Novità”, e a scelta “Raccontami qualcosa di bello”. Anche dopo la rottura con Fernando il suo interesse nei miei confronti non aveva cambiato di modalità. Come mi vestivo e cosa mangiavo. Però aggiungeva che Fernando non mi meritava e che dovevo smettere di piangere.
Anche mia zia insisteva che avrei trovato qualcosa di meglio, a saper aspettare.
E alla fine della telefonata mia madre mi informava sempre di quello che mangiava lei, che dava sempre indicazioni alla zia su come cucinare, ma che aveva perso purtroppo l’appetito.
Aveva avuto un carattere molto forte, e continuava a mantenerlo anche dopo la paralisi. Mia zia, che era più vecchia, si sottometteva con piacere. Era una bella donna con i capelli ossigenati, che aveva superato i cinquanta e che nonostante la presenza del marito, continuava a coltivare sogni d’amore leggendo i suoi adorati romanzi rosa.
Quando entrai in casa dopo che mi era venuta ad aprire, vide contemporaneamente la gabbietta tenuta dalla mia mano destra e Una regina Made in Usa nella sinistra.
Catturò il suo Harmony e mi accompagnò in cucina leggendo a voce alta la trama sulla quarta di copertina.
“ Essere un principe ereditario di Treviboni obbliga Antonio Lorenzo a trovare una moglie al più presto, viste le precarie condizioni di salute del padre. Per schiarirsi le idee e prendere una decisione parte per un viaggio al campo profughi di Malmeno, in cui infuria la guerra civile. Non si aspetta che ad accoglierlo ci sia la bella Jennifer Allen, un’americana intraprendente”.
Era una strana storia d’amore ambientata in un terzo mondo da operetta. La protagonista si dedicava alla cura dei poveri. Il protagonista era un aristocratico dotato di nobili sentimenti.
“ Ce l’avevi già, zia?” chiesi.
“ No, questo dev’essere l’ultimo e qua non è ancora arrivato. Poverino il gattino, guarda come tiene spalancata la bocca. Gli manca l’aria, piccino”.
“ Ma come fai a leggere certi romanzi, io proprio non capisco” disse mia madre rivolta alla zia.
La baciai . Appariva sempre più piccola e magra nella sua carrozzella.
La baciai sulle due guance, quella paralizzata e quella no e le dissi che mi pareva che stesse bene. Le presi tra le mani la mano che non poteva più muovere. Poi liberammo il gatto che appena uscito dalla gabbia corse a nascondersi sotto il letto della zia. Lei gli riempì la scodella con il cibo e gliela mise davanti, per non lasciarlo solo a risolvere i suoi problemi.
La zia era abituata a risolvere i problemi della mamma. Nonostante non le piacessero le parole crociate si impegnava sempre a cercare le risposte, quando la mamma glielo chiedeva. 36 orizzontali, Fu redenta con Trieste. 15 verticale, adoravano Giove. E la mamma, nonostante non le piacessero i romanzi rosa, accettava che la zia gliene raccontasse la trama, quando aveva finito di leggerli.
Mia mamma aveva imparato a usare la sinistra per scrivere, ma era sempre impaziente di fronte alle proprie limitazioni.
La zia no, sopportava tutta la sfiducia e il malumore di mia madre quando si manifestavano. Accettava e sorrideva. L’aiutava a fare la doccia. Spesso la puliva dopo il gabinetto. Le spalmava anche una crema grassa sulle gambe e le braccia dove la pelle si squamava. In ogni momento, se glielo chiedevi, la zia avrebbe saputo raccontarti per filo e per segno com’erano andate le giornate con la mamma di un’intera settimana, quando aveva dormito e quando no, quello che aveva mangiato e come si era sentita.
Mia madre cercava di fare quello che le era concesso dalla paralisi.
Negli ultimi tempi aveva tentato con successo di mettersi in piedi, appoggiata a un bastone di metallo che finiva con tre punte. Di questo andava veramente fiera. Quello che la divertiva era anche spiegare alla zia come andavano eseguite le ricette di cucina, perché era stata una brava cuoca, e sempre trovava che la zia avesse sbagliato qualcosa. Per questo mangiava sempre meno, con una smorfia di disgusto sulle labbra.
Mia zia le metteva davanti piatti su piatti, sempre speranzosa che l’altra ne avrebbe accettato qualcuno: nervetti, aringa marinata, il lesso con i sottaceti. La zia aveva chiamato un giardiniere che aveva piantato in giardino un filare di pomodorini. Era un altro tentativo di far mangiare alla mamma qualcosa di buono.
Le due sorelle, da quando mia madre si era ammalata, non potevano fare a meno l’una dell’altra. Ogni settimana aggiungevano a tutto l’arredo già sovrabbondante statuine comprate quando uscivano insieme, la zia alla guida della sedia a rotelle della mamma, per andare al mercato il venerdì mattina. E ancora: c’erano oggetti per la ginnastica della zia, acquistati alle aste della televisione. Non mancavano i gadget dei settimanali femminili
Anche mia madre e mio padre avevano passato una vita di dedizione reciproca. Sempre litigando, ma i litigi erano la prova dell’importanza che rivestivano l’uno per l’altra. I litigi avevano come scopo quello di farli rimanere insieme.
Mio zio era sposato con mia zia da vent’anni.
Come ho detto, tutti loro, mia madre e mio padre, mio zio e mia zia, mi facevano pensare all’amore tra i miei gatti, a quello di Gorbaciov per Raissa. Qualcosa di così profondo …una specie di attaccamento speciale, che non avevo conosciuto, perché Fernando, nel lungo periodo che avevamo passato insieme, era stato sempre sfuggente e parziale nei miei confronti, ora me ne rendevo conto, altrimenti non avrei ceduto alla seduzione di Raimondo, anche questo ero arrivata a capire.
Quello che cercavo era una speciale unione d’intenti. Molta libertà di movimento, ma dedizione nei sentimenti. Nel passare da un amore a un altro è contenuto troppo dolore.
Ed ora, come sarebbe stata la storia con Million?
Cosa avrebbe portato l’Africa nella mia vita?
Da lontano l’immaginavo come il luogo di storie selvagge e primitive, capaci di mettere alla prova la mia vita fatta di sicurezze e ripetizioni. E di comodità. Ma priva di quella energia così spontanea che intuivo nei neri. Il loro resistere nonostante tutto. Un senso di inferiorità nei confronti dei bianchi. Una volontà di riscatto. Il complicato esercizio di assimilarsi a noi mantenendo intatto il proprio carattere e vive le radici.
Avrei potuto affrontare tutto questo solo se fosse cresciuta la intimità tra me e Million. I suoi baci erano così generosi. Avrei voluto che lui mi raccontasse anche della guerra. E della fidanzata sparita. E dei poveri che muoiono di fame. Accettando che le zone d’ombra della sua esistenza entrassero a far parte della nostra vita insieme. Perché le mie zone d’ombra, la mia solitudine e la paura delle lunghe estati bianche io gliele avrei portate in dote, come parti di me che lui poteva provare a guarire.
Le difficoltà affrontate in due.
E mi chiedevo se sarei stata capace di partecipare al nuovo racconto della mia vita che mescolava tante esperienze insieme, sentendomi contenuta in nuovi affetti e conoscenze, o se mi sarei sentita diversa e al di fuori, come alla festa di Usman, quando non ero riuscita per nulla a ballare.
Non so per quale motivo Million mi sembrava promettere che mi avrebbe protetto. Ma che ne potevo davvero sapere? Il futuro non lo puoi mai prevedere.

Introdussi l’argomento Etiopia solo dopo pranzo.
La mamma si pulì la bocca del budino di cioccolato che era l’unico alimento che avesse accettato e, seduta nella sua carrozzella, giù in giardino, si apprestò tranquillamente ad ascoltarmi.
“ Ho bisogno dei soldi per andare in Etiopia. Ti ho detto (era successo qualche giorno prima al telefono) che ho incontrato questo Milli che mi piace molto. Fa del commercio, è venuto in vacanza in Italia da un suo cugino, ed ora è in Svezia a trovare dei parenti. Ma poi tornerà in Etiopia e mi ha offerto di andare con lui. Io vorrei tanto andare”.
“ Ma non sai neanche chi è” rispose mia madre lentamente, perché faceva fatica a parlare.
“ Sono sicura che se lo conoscessi ti piacerebbe molto”
“ Ma non lo conosco, e neanche tu. Ti basi solo sulla prima impressione”.
“ Ho sofferto tanto con Fernando. Ho bisogno di qualcuno”
“ E’ questo che mi spaventa. Ti lasceresti… avvicinare da chiunque. Io non capisco questo vostro modo di passare dall’uno all’altro. Con Fernando ti sei lasciata che era marzo. Avresti potuto far passare più tempo”.
Come spiegarle che a me quel periodo tra Fernando e Milli era sembrato lunghissimo? Una collana di ore senza senso. Poi Milli era arrivato e con lui di nuovo la voglia di fare progetti e sognare.
“ Per caso non avrai pregiudizi perché è nero?”dissi
“ A tuo padre in effetti non sarebbe piaciuto”.
“ Ti assicuro che ha la pelle bianca, anche se a me non mi importa. E poi Asli ti piace, mi pare, anche se è nera”.
“ Cosa ne dice Asli?” chiese mia madre che aveva simpatia per la mia amica etiope.
“ Dice che le cose si chiariranno col tempo. Bisogna solo aspettare. Del resto mi sembra che sia così per ogni tipo di uomo. All’inizio non sai mai se sarà una cosa duratura. Ma Milli mi ha assicurato che non vuole un’avventura”
La zia aveva finito di sparecchiare e si sedette di fianco a me: “Cosa ti è piaciuto di lui?” chiese, con quella premura che le derivava dalla frequentazione delle storie d’amore di Harmony.
“ E’ sempre disponibile e aperto con le persone. Anche con me. Mi telefona tutti i giorni. E ha un bel modo di giocare con i bambini. …non lo so. Ti ricordi che recitavo in quella commedia di Shakespeare? Ti piacerebbe, zia. Te la porterò la prossima volta magari. Sogno di una notte di mezza estate.è una storia d’amore. Succede che tutti si innamorano e disamorano all’improvviso, per l’effetto di un succo magico posato sugli occhi. E provano passioni positive e negative assolute. Se ami ami alla follia, altrimenti il disprezzo è totale. In questo momento io comincio fortunatamente a disprezzare Fernando, e Milli mi manca tantissimo. Mi manca il suo mondo. Ho letto una guida dell’Etiopia. Mi attira.Ho l’occasione di partire con qualcuno che mi farà conoscere il Paese. Questa è la più bella occasione che mi sia capitata. Sai come non soffro l’estate. Da una parte è qualcosa di totalmente diverso da qui, e quindi mi crea un po’ di inquietudine. Provo sempre un po’ di paura prima di partire. Però dall’altra vorrei vedere come vive Milli, conoscere i suoi parenti, gli amici. E poi fare un viaggio insieme a lui. Deve essere un Paese strano, è pieno di popolazioni diverse che hanno diversi modi di organizzarsi la vita… Anche tu e papà avete molto viaggiato, dopotutto”
Questo in realtà non era un argomento vincente, perché la mamma era sempre stata trascinata nei viaggi che papà la costringeva ad accettare. Al ritorno raccontava sempre soltanto di quel che aveva mangiato e delle tappe forzate.
“ Ma i nostri erano tour organizzati. Non puoi fare confronti. “rispose la mamma, “Qui te ne vai senza nessuna sicurezza. In Etiopia c’è la carestia, lo sai?” aggiunse, perché non si perdeva mai le notizie tragiche del telegiornale.
“ Million dice che non ne sa nulla. Forse da loro è come da noi che passiamo accanto ai poveri e continuiamo la nostra strada senza esserne colpiti. Forse ci sono zone protette ed altre no e quelli che abitano nelle zone protette non sanno nulla degli altri. Capirò tutto questo quando sarò là. Vi telefonerei spessissimo per farvi sapere cosa faccio, dove sono”.
“ E’ bello?” interruppe mia zia.”Ce lo fai conoscere?”
“ Chi? Milli?Non è bello come Fernando, ma non mi importa per niente” Me lo vedevo davanti, le sue spalle larghe e le gambe sottili.
“ Beh, allora è davvero amore. E quando un amore è sincero è un peccato non viverlo, secondo me”.
Avevo un debole per la zia. Quelle che preferiva erano “le storie d’amore che hai sempre sognato di vivere e di leggere: romantiche, travolgenti, calde, positive” come c’era scritto sul libro che le avevo regalato.
La mia storia aveva tutte quelle caratteristiche. Romantica,travolgente, calda, positiva. Una storia rosa. Era solo sul punto di nascere, ma si presentava particolarmente ricca di sorprese. In ogni senso.
C’era l’incognita, di cui davanti alla mamma e alla zia non era il caso di parlare: io di Milli non sapevo gran chè. Non era facile comunicare in inglese. Solo mi accorgevo che quando parlavamo cercava di dare al suo tono di voce un accento sincero. Si occupava di me. Aveva sempre quell’atteggiamento di volermi guidare su strade sicure come la notte che eravamo andati in giro per la città e mi prendeva il braccio quando bisognava attraversare.
Ma il mistero rimaneva ancora grande. E io stessa mi stupivo di tutto il mio coraggio. Forse era l’agosto che avanzava con tutto il suo carico di nonsenso a incalzarmi perché prendessi una decisione. Mettiamola così. Dall’altra parte del mondo c’era un gran teatro che mi aspettava. Un palcoscenico con scenografia e sceneggiature ignote. Era necessario che accettassi la nuova parte che mi era stata proposta. Lasciava un grande margine all’improvvisazione. Ma avevo la certezza che se non avessi rischiato, come si dice, non me lo sarei mai potuto perdonare.
Dovevo lasciare il mio gatto e la mia casa, prendermi una vacanza dal lavoro, salutare tutti quelli che conoscevo e mi volevano bene e andarmene lontano. Chissà dove. Chissà cosa mi aspettava davvero. La situazione imponeva che io agissi in modo precipitoso. La prudenza, non dovevo sapere che cosa fosse.
Guardai mamma negli occhi. Mi voleva bene. Sembrava cedere un po’ per volta.
La zia andò a cercare le carte.
“ Facciamo un solitario”, propose, “Anzi ne facciamo tre. Se uno dei tre dovesse riuscire” disse rivolta a mia madre, “ allora le presterai i soldi per fare il suo viaggio”.
“ Vuoi veramente?” mi chiese mia madre. “Hai deciso?”
Dissi di si con la testa. Non ero d’accordo che la decisione fosse affidata alle carte. Ma mia madre e mia zia avevano questo tipo di debolezze. Andavano pazze per gli oroscopi e le previsioni di ogni tipo. Ci si misero d’impegno. La zia dispose le carte sulla tavola lì in mezzo al giardino, e cominciò a armeggiare. Improvvisamente si fecero tutte e due, madre e zia, molto serie e pensierose. Le carte non sono il mio forte. Non riuscivo a capire se il primo, il secondo, il terzo solitario fossero sul punto di riuscire o no.
Mamma e zia facevano del loro meglio. Non ne riuscì nessuno.
“ Ma dai…”, protestai quando anche l’ultimo fu concluso e la zia raccolse le carte sparpagliate sul tavolo.
La mamma allora disse con un sospiro “Se proprio vuoi andare vai, i soldi te li do.”
Ecco, era fatta. La mia piccola mamma. Mi alzai di scatto per abbracciarla. Sentii la sua guancia premere la mia.
“ Però devi chiamarmi sempre per farmi sapere dove sei..”
“ Ma certo mamma, figurati, sicuro…”
La zia rientrò in casa a prendere del vino bianco, per brindare.
Ritornò in giardino. Il cielo d’agosto era privo di nuvole, pieno di promesse.
“ Per festeggiare”., disse la zia.
Disse così. Ed io abbracciai anche lei.

“Cara mamma, eccomi ad Addis Abeba”.

 


Francesca Grazzini: Dopo aver provato a studiare da medico mi sono messa a fare la giornalista. Negli anni Settanta e Ottanta sono passata da tutte le testate di quotidiani e settimanali e mensili e da Radio popolare. A trent'anni ho cominciato a ritagliare il legno e dipingere e creare libri per bambini e ho esposto le mie opere. Ora sto preparando un libro di racconti, e una serie di mostre. Lo scrivere mi aiuta a dipingere, e viceversa.

 


        
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