MAI TARDI


Nuto Revelli

 

6 settembre.
Ore 8: messa al campo. Ogni tanto arriva qualche colpo di mortaio. Per distrarmi cavalco una motocicletta dei bersaglieri, poi un ronzino sbandato e decrepito. Ricevo da Anna la lettera n. 14, e da casa notizie tristi: leggo tra le righe che la nonna sta male.

5 settembre.
Nel mattino, addestramento al combattimento. Riceviamo notizie dettagliate sull'attacco del 1° settembre. I battaglioni Vestone e Val Chiese del 6° alpini sono penetrati in profondità senza protezione alcuna e senza la minima probabilità di raggiungere lo scopo. Si dice che sia mancata l'azione di appoggio sui fianchi da parte dei tedeschi. Dopo un grave sacrificio iniziale, gli alpini dovettero ripiegare sulle basi di partenza. Dieci ufficiali ed oltre cinquecento alpini morti.

7 settembre.
Giornata nuvolosa. Siamo sempre al laghetto: le truppe si lavano, ufficialmente provvedono alla spidocchiatura. Un caso di scabbia.
Undici nostri caccia scendono in picchiata e mitragliano le linee nemiche.
Arrivano le prime circolari degli alti comandi. Un foglio “segretissimo” parla di spie tedesche ed italiane infiltrate tra i russi. In previsione che queste spie un giorno o l'altro rientrino alle nostre linee, tutti i reparti devono conoscere le “parole d'ordine”: le spie tedesche grideranno “Nulli devà”, le spie italiane “Olga”... Nel commentare questa favola sorridiamo amaramente: la “parola d'ordine” italiana è un po' troppo frivola e suona falsa, ancora una volta abbiamo voluto scimmiottare i tedeschi.
Con una seconda circolare i nostri capi prospettano già le gravi difficoltà nei rifornimenti, in vista delle piogge e dell'inverno. Ormai siamo “orientati”: tireremo cinghia.
Le nostre salmerie abbandonate a Gorlovka sono ancora in viaggio.
Di fronte a noi, in linea, sono schierati i resti del 3° e del 6° bersaglieri, reparti valorosissimi e spaventosamente provati. Si dice che i resti di alcune compagnie, pochi uomini, siano al comando di sottufficiali. Il tutto dipende dal comando della divisione Celere, dal comando responsabile del massacro del 1° settembre!

8 settembre.
Nella notte, intenso bombardamento d'artiglieria. Una trentina di colpi di mortaio cadono a pochi passi dal nostro accampamento.
Al mattino, addestramento al combattimento per dimostrare agli alpini che questa guerra su terreno piatto è ben diversa dalla guerra di montagna. Qui è molto piú facile morire: il massacro del Vestone e del Val Chiese è la conferma piú eloquente.
Abbiamo appreso altri particolari sul primo sacrificio degli alpini in Russia. L'ordine di operazioni prevedeva che due colonne corazzate tedesche proteggessero sui fianchi il Vestone ed il Val Chiese in movimento. Alle ore 4, dopo un intenso fuoco di preparazione della nostra artiglieria, l'aviazione italiana avrebbe dovuto spezzonare e bombardare le linee russe. Soltanto ad azione aerea ultimata, i battaglioni alpini sarebbero balzati all'attacco.
Ecco come il Vestone ed il Val Chiese andarono al massacro.
La vigilia del 1° settembre i tedeschi segnalano che le colonne corazzate previste dal nostro ordine di operazioni dovranno operare in un altro settore: come se non bastasse, aggiungono che le colonne hanno già raggiunto un altro settore.
Il comando tattico da cui dipendiamo avrebbe risposto sdegnosamente: “Faremo da soli”.
Si raccolgono una ventina di carri armati leggeri della divisione Celere, una ventina di scatolette di latta: si crede di sostituire cosí i panzer tedeschi.
Con l'alba del 1° settembre, alle 5, l'aviazione italiana non è ancora comparsa. Il comandante delle truppe chiede ordini al comando superiore, al comando della divisione Celere. L'ordine è di balzare all'attacco.
Il terreno è piatto, raso come un tavolo, in leggera pendenza. Curvi, sotto i pesanti zaini affardellati, gli alpini cominciano a muovere correndo. Un primo balzo, poi un intenso fuoco di mortai e di artiglieria sbanda i reparti. Un battaglione deve sostare, l'altro avanza e supera i capisaldi russi. I nostri... carri armati, sballottati di qua e di là, hanno le torrette aperte: i carristi, con fucilate e lancio di bombe a mano, tentano disperatamente di neutralizzare i fuciloni calibro 20 affondati nelle sterpaglie. Basta un colpo di fucile per immobilizzare i nostri... carri armati!
Perdite immense, sacrificio inutile di centinaia di alpini e dei migliori ufficiali: questo il triste bilancio dell'azione che sarebbe spettata al Tiràno ed al Morbegno se non fossero morti il maggiore Volpatti ed il capitano Giamminola.


Il 25 settembre, alle 0,15, l'alpino Castellini, di guardia al baracchino del comando compagnia, dà l'allarme. Infiliamo il cappotto, in fretta e furia afferriamo qualche bomba a mano ed il parabellum, raggiungiamo di corsa il II plotone.
Lungo la nostra linea, qualche fucilata, qualche raffica. Le vedette segnalano di aver avvistato un pattuglione di una cinquantina di uomini: i russi erano acquattati, a tratti quattro o cinque in gruppo affioravano tra le sterpaglie, si alzavano in piedi per osservare meglio.
Diffido delle vedette, allarmi falsi ne abbiamo già avuti parecchi: la stanchezza, il nervosismo, il vitto scarso aiutano a confondere gli arbusti con le pattuglie russe...
De Minerbi esce dalle linee con un fucile mitragliatore. Una pattuglia della mia squadra esploratori mi raggiunge nel camminamento. Si discute, si decide di uscire dalle linee, di avanzare un centinaio di metri. Escono anche Grandi, De Filippis ed alcuni alpini. Restano nei camminamenti soltanto due ufficiali, Perego e Guicciardi.
Avanziamo decisi, senza tante precauzioni. Il caporalmaggiore Apollonio, il piú coraggioso degli esploratori, è al mio fianco. Sostiamo tra le erbacce.
Apollonio mi dice che vede alcune ombre: me le indica con il braccio teso. “È là che viene curvo”, mi dice.
De Filippis, per osservare meglio, avanza di quattro o cinque passi. Apollonio, che indietro non vuoi mai restare, lo raggiunge.
Mi sposto, mi piazzo sulla sinistra di Apollonio, a mezzo metro da lui.
Parte una lunga raffica, da brevissima distanza. Apollonio cade rantolando. Mi piego per sorreggerlo, parte un'altra raffica, sento uno strappo violento e un bruciore al braccio sinistro. Non ci faccio caso.
Apollonio implora aiuto. Lo afferro con il braccio destro, ma si lamenta. Mi dice: “Mi fate male”. Chiedo che mi carichino a spalle il ferito, voglio portarlo in linea a tutti i costi: ma gli alpini stanno immobili, fanno i morti. De Filippis lo afferra per le braccia, io lo afferro per un piede. Grandi e De Minerbi, con raffiche precise, tengono a testa bassa i russi. Correndo, trasciniamo Apollonio in linea.
Lo sdraiamo nel camminamento. Ho le mani intrise di sangue. Sta male, Apollonio, soffre molto e si lamenta. La sparatoria continua, adesso stanno sparando tutte le armi di postazione.
Arrivano i portaferiti, trasportano Apollonio al posto di medicazione.
Sento il sangue caldo che scorre lungo il braccio: la ferita comincia a bruciare. Il sottotenente Talucci della 48 mi fascia con il suo pacchetto di medicazioni. Resto in linea ancora mezz'ora, poi raggiungo l'infermeria.
Chiappa sta medicando la ferita più grave di Apollonio: due buchi grossi come il pollice, uno al ventre e l'altro d'uscita nella schiena: anche il polso della mano destra butta sangue.
Mi sento male, ho una gran voglia di vomitare: fumo una sigaretta dopo l'altra.
In linea ricominciano le sparatorie violente: mortai e artiglierie iniziano un fuoco di sbarramento. Razzi rossi e bianchi solcano il cielo. Un'autoambulanza porta via Apollonio.
Ritorno in linea. Soltanto alle 3,30, con il fronte definitivamente calmo, abbandono il camminamento piú avanzato e raggiungo il comando di compagnia. Chiappa, nel disinfettarmi la ferita, fa una smorfia, come se il bicipite sbrindellato non gli piacesse troppo. Arriva il maggiore Zaccardo: telefona al comando battaglione, chiede che la sua camionetta raggiunga subito quota 228.
Alle 3,45, con Balossi, lascio la linea. Poco prima della sezione di sanità incontriamo un'autoambulanza: scendiamo dalla camionetta di Zaccardo, proseguiamo con l'autoambulanza.
Alla sezione di sanità svegliano il capitano medico Prada: si fa in quattro, mi medica, mi fa l'antitetanica, mi offre un liquore. Poi raggiungiamo l'ospedaletto da campo 618.

Apollonio è sotto i ferri, lo stanno operando. Aspetto un'ora. La prognosi è pessimistica. Poi tocca a me: mi stendono sulla lettiga, anestesia locale, tagliano e cuciono i nervi, applicano un drenaggio, asportano la carne bruciata. Sento lo sforbiciare del chirurgo. Il direttore dell'ospedale, capitano medico Deotto, mi sorregge, mi offre una sigaretta dopo l'altra. Mi offrono un cognac, ma insisto perché lo riservino per il... momento buono. L'intervento dura venti minuti. A cose fatte, prima di andarmene, ringrazio e butto giú il cognac.
Spero che Apollonio si salvi. Alle 19 apprendo che è grave e lo raggiungo.
Geme, rantola, chiede acqua, grida che brucia, butta via le coperte, morde il guanciale. Soffre tremendamente. Si arrabbia con i medici, dice che l'hanno anche operato di appendicite...

28 settembre.
Apollonio è morto il 26 mattina, dopo una notte di tremende sofferenze. Ho voluto una branda accanto al suo letto, ho seguito le sue ultime ore di vita. Verso le 4 è riuscito a parlarmi: “Ciao, Revelli. Hanno poi trovato il mio fucile? La pattuglia com'è andata? Quando andremo di nuovo? Ma mi mori, mori per la patria”, e parve addormentarsi. Alle 6 dormiva tranquillo; poi d'un tratto spirò.
I conducenti del battaglione hanno fabbricato una cassa. L'ospedale, per mancanza di legname, ha sempre avvolto i caduti in un lenzuolo. Il funerale è stato il piú solenne possibile: i nostri conducenti funzionavano da picchetto armato. Il capitano Deotto mi dice che probabilmente proporranno Apollonio per la medaglia d'oro.


(...) Alle 16 arriva il colonnello direttore dell'Unione Militare. I piantoni dicono che sovente il colonnello si rifiuta di ricevere, non rilascia buoni. Comincia una lunga trafila, il motivo del colloquio, ecc. ecc. Dopo mezz'ora il colonnello mi riceve. E un tipo pieno d'arie, fa cadere dall'alto un mísero buono per un paio di mutande e due di calze.
Come lascio l'ufficio del colonnello vedo che l'Intendenza è piena di gente, di imboscati. In ogni ufficio tre o quattro ufficialetti, tutti grassi e tutti belli: sono i figli di papà alla caccia di nastrini!
Con Angelini ritorno all'Unione Militare. Sull'entrata dell'emporio un carabiniere controlla il buono, ci permette di entrare. Tutte le scansie sono letteralmente vuote. Dietro a tre tavoli, un cassiere e due impiegati. Devo compilare due stampati. Mi chiedono i documenti di riconoscimento, registrano i miei dati su una rubrica.
Tanto rigore dice che dev'essere successo qualcosa di grave. Il cassiere, un giovane di Torino, ci racconta questa storia: “L'Unione Militare decise di immagazzinare in un grande centro delle retrovie russe un'ingentissima quantità di vestiario, scarpe, equipaggiamento. Un servizio di autocarri avrebbe poi dovuto smistare tutta la merce verso le immediate retrovie del fronte, servendo gli ufficiali e le truppe di linea. Partirono dall'Italia le tradotte di vestiario, stoffa, manufatti di lana, stivali, scarpe, ecc. Raggiunsero Voroscilovgrad. Nel giro di quindici giorni l'Unione Militare svuotò i magazzini vendendo tutta la merce ai civili russi, a prezzi favolosi”.
Quando ormai i gangsters italiani avevano concluso l'affare, scoppiò lo scandalo. I puri militari dell'Intendenza aprirono un'inchiesta. Certo, i colpevoli dovrebbero finire al muro. E se li promuovessero di grado?
Usciamo, con la speranza di respirare un po' d'aria meno fetida. In giro non si vedono che ufficialetti in diagonale e stivaloni. E sono pieni di arie i conquistatori, i figli di papà. Si vedono capitani e maggiori con straccione e sgualdrine sottobraccio.
L'indomani torno ad uscire. Osservo con più attenzione i negozi, i bazar. I prezzi sono favolosi: un'icona di latta costa trecento marchi. In certi negozi si possono comprare sigarette italiane di ogni qualità, dalle Popolari alle Tre Stelle. E farsetti a maglia, scarponcelli, mantelle, insomma tutto l'equipaggiamento in dotazione al regio esercito.
Non riesco piú a stupirmi di nulla. Perfino in linea si diceva che nelle retrovie i baldi ufficiali italiani si arricchivano commerciando: si diceva che in alcune città gli ufficiali italiani vendevano tranquillamente sui mercati, al dettaglio, sigarette, viveri, equipaggiamento.
Mentre mi dibatto tra queste malinconie, mi viene incontro una colonna di partigiani, di borghesi, una ventina di uomini incolonnati per due, tra i fucili spianati.
Camminano a testa alta, sanno dove vanno!
Li guardo con grande ammirazione. Il contrasto tra le nostre retrovie e queste vittime predestinate mi umilia. Non siamo che straccioni, con arie e pretese da signori.
A sera, rientrando all'ospedale, incontro un ufficiale medico che conosco. Dovrà sostare un attimo presso la casa di tolleranza organizzata dai nostri comandi per la soldataglia di Voroscilovgrad: insiste perché lo accompagni.
La casa è sistemata in uno stabile decente. Un carabiniere controlla i documenti militari dei clienti. Al piano terreno funziona l'ambulatorio con il medico di guardia: è prescritta la visita medica all'entrata, la disinfezione anticeltica all'uscita.
L'impianto della casa non fu facile. Fu diramato un invito alle donne russe della città: con la fame e la miseria furono centinaia le candidate. Ma la visita medica le bocciò quasi tutte, perché denutrite o malate. Comunque il lavoro ebbe inizio, ma dopo pochi giorni anche le poche prescelte furono licenziate perché non resistevano. Si ricorse allora a donne rumene.

Anche in queste lontane retrovie sono già stati distribuiti i pacchi del treno APE1: Vidussoni ed altri gerarchi fascisti funzionarono da Befana.
I pacchi, offerti dalla provincia di Milano, erano destinati soltanto ai milanesi dell'ARMIR. I comandi fecero i conti, decisero di accontentare tutti, milanesi e non milanesi, distribuendo un pacco ogni cinque soldati.
Mi raccontano che in una batteria dell'artiglieria alpina, dove coraggiosamente si era spinta la “missione Vidussoni”, vennero distribuiti i pacchi mentre si girava il film Luce: naturalmente, un pacco per ogni artigliere alpino. Poi, come la “missione” partí, i pacchi vennero ritirati e fu rifatta la distribuzione sulla base di un pacco ogni cinque soldati.
Nella stanzetta accanto alla mia incontro il tenente G., che mi fa intendere di essere un personaggio importante: collabora con il colonnello del genio C., dice di viaggiare di continuo in aereo. E il progettista del cimitero monumentale della città: il cimitero è a pochi passi, nel recinto del centro ospedaliero, e vuole accompagnarmi, vuole che lo veda.
Vedo un muro altissimo, bucato da file di nicchie. Ai piedi del muro un grande altare. Direi che il monumento è incompleto. Timidamente gli chiedo a che punto sono i lavori. Mi dice che il monumento è finito.
Allora gli chiedo che cosa significano tutti quei buchi. Mi risponde che quando il sole è da una certa parte, i raggi infilano i buchi e si proiettano con un gioco di luci straordinario sull'immensa distesa di tumuli e croci. Sarà!
Aggiunge che il cimitero monumentale di Voroscilovgrad ha una storia particolare: tutti gli ufficiali medici del centro ospedaliero, dal colonnello al subalterno di sussistenza, hanno zappato, hanno sotterrato i morti, hanno contribuito all'imponente realizzazione. Il tenente G. non lo dice, ma a me viene da pensare che se gli ufficiali del centro ospedaliero non avessero scavato tanto, forse molti feriti ed ammalati non avrebbero raggiunto il cimitero, monumentale finché si vuole, ma soltanto cimitero. (...)

1 – Treno di pacchi dono e generi di conforto per i combattenti.


Riprendiamo la marcia. In punta c'è Perego con il suo plotone.
Cinque o sei isbe disposte in fila offrono un riparo: le raggiungiamo.
C'è una batteria di artiglieria alpina, con i pezzi da 75/13 in postazione. E sulla sinistra, a quattro passi dalle isbe. I pezzi sono puntati con alzo zero, per tiro anticarro.
Mancano i serventi, sono morti tutti, attorno ai pezzi. Un artigliere rovesciato in avanti su un pezzo ha la schiena aperta a ventaglio, aperta come quella borraccia che trovai a quota 228, la borraccia di uno dei tanti alpini morti il 1° settembre.
Forse è la 33' del gruppo Bergamo. Si dice che fosse in postazione fin dalla notte, per appoggiare il battaglione Val Chiese.
E chi ne ha saputo nulla dei combattimenti della notte! Noi si dormiva tranquilli a Nikitovka mentre qui combattevano. Anche stamane, all'alba, nessuno segnalò che nella notte si era combattuto, che la resistenza continuava, qui, ad Arnautovo. Cento morti di piú, cento di meno non hanno alcuna importanza: i comandi non contano piú i morti, tanti ne abbiamo.
Salvare il salvabile. Anche questa teoria non regge piú. Nessuno distingue i sacrifici inutili dai necessari. Disordine, indisciplina, incoscienza, insubordinazione, diserzione. E il disastro, la fuga pazzesca di una massa senza reparto, senza armi!
Sfiliamo dietro le isbe, ci buttiamo sulla destra.
Un reparto russo sta muovendoci contro; ha quasi raggiunto il ciglio che ci divide, è a cinquanta metri.
Sparano i russi, sparano raffiche lunghe con le mitraglie ed i parabellum.
Con un balzo ci spostiamo decisamente sulla destra,a gruppetti, per raggiungere un leggero avvallamento.
La neve è fresca, si affonda fino al ginocchio. E i russi sono lì, a quattro passi, che rafficano, che colpiscono a segno.
Sono alle spalle di Perego, guardo avanti, guardo i russi in faccia. Grandi mi segue, con De Minerbi e gli altri.
Mi volto, cerco Grandi, lo vedo che s'insacca proprio come su quota 228 si era insaccato Apollonio. L'hanno colpito all'addome. Grandi, con voce ferma, ma che non è piú la sua, grida ancora: “Siate coraggiosi”; poi si rovescia in avanti.
Guardo i russi: avanzano in schieramento serrato, sono in piedi come se andassero a passeggio. Cantano una cantilena che dà alla testa, e sparano, sparano senza requie.
Perego si gira a guardare i suoi uomini, si gira e grida “Avanti secondo”.
Una lunga raffica lo colpisce al fianco sinistro. Cade all'indietro sulla schiena crivellata: grida “mamma, mamma, mamma”, con voce strozzata. Cade sulle ferite, trova la forza, l'estrema forza di rovesciarsi in avanti.
I nostri parabellum arrugginiti non sparano. Lanciamo una decina di bombe a mano: non scoppiano. I mitragliatori senza olio e per il gelo non sparano. E i russi da dieci metri sparano, ammazzano.
Ho per guanti un paio di calze, li butto. Sfilo il rotolo al mio parabellum: le pallottole si presentano storte, le mani mi gelano.
Butto il mio parabellum, con due salti sono su Perego.
Il parabellum di Perego è infilato nel braccio, di traverso, sotto il petto. Alzo Perego, per sfilare l'arma.
Il suo fazzoletto di seta a colori, attorno al collo, è intriso di sangue.
Anche il parabellum di Perego non spara.
Stanno trascinando Grandi all'indietro. De Minerbi, De Filippis ed altri combattono ancora sulla destra.
I russi non si vedono piú. Arrivano alcune raffiche, ma passano alte.
Hanno soltanto ricaricato le armi. Sono tornati sul ciglio, ricominciano a vomitare pallottole.
Abbiamo avuto molti morti: la neve alle nostre spalle è nera di macchie ferme, immobili. I nostri feriti sono tornati indietro. Siamo rimasti in pochi.
Parlo con De Minerbi. Occorrono uomini e munizioni, oppure ripiegare.
Ripiegare vuoi dire attraversare una lunga piana, sotto le raffiche, affondando nella neve fino al ginocchio.
Corro verso le isbe, a cercare rinforzi, pallottole che mi sfiorano, che mi cercano. Un colpo di mortaio scoppia a tre metri.
Arrivo senza fiato; ce l'ho fatta.
Dietro le prime isbe, dozzine di feriti ammucchiati. Le isbe ne sono piene.
Anche Grandi è steso sulla neve, ferito a morte; e chiede che gli alpini cantino la canzone del capitano che sta per morire...
Vedo la 49, i pochi superstiti della 49 che ripiegano. Il sottotenente Calvi, ferito da tre pallottole al fianco, è ancora in piedi sotto le raffiche, e agita la pistola e urla al maggiore Maccagno che gli è accanto:
“ Dio... andate voi avanti, andate voi a vedere, sono morti tutti”.
Chiedo uomini a Maccagno. Dice di non averne, di temere l'aggiramento sulla destra.
Torno avanti, oltre le isbe, nella piana sulla destra. Dalla valletta sono già ripiegati trascinando Perego.
Ormai spariamo dalle isbe dei nostri feriti. Apprendo che anche sulla sinistra le perdite sono gravissime, sono morti í migliori ufficiali del Tiràno.
La CCT, al comando di Alessandria e Talucci, punta decisamente sulla destra, per parare l'aggiramento. Combattono eroicamente. Alessandria ferito. I russi indietreggiano, le raffiche si fanno rade.
Un nostro 47/32 e un mortaio da 81, spinti fin oltre il ciglio, sparano sui russi che ripiegano. Darè e Pilis sono avanti, soli, a sparare le ultime fucilate.
Arrivano il generale Reverberi ed il colonnello Adami. E compare anche V.
Ormai che nella piana è tornato il silenzio, la massa di sbandati, le immense colonne, riprendono la fuga.
L'eterno gioco: chi è morto non vale piú nulla, chi è ferito rischia di essere abbandonato.
Scappano gli sbandati, le colonne. Noi restiamo tra i nostri morti, tra i nostri feriti, a piangere.
Con De Minerbi e De Filippis tentiamo di sistemare i feriti sulle quattro slitte. De Minerbi ha il cappotto sbrindellato dalle raffiche.
La confusione si è fatta immensa: gente che urla, che corre avanti. Inutile chiedere ad una slitta di un altro reparto, ad uno sbandato in fuga, di accogliere un nostro ferito: la legge è una sola, pensare a se stessi.
Entro nell'isba di Grandi; apprendo che Perego è morto. Grandi è seduto per terra, con la schiena appoggiata al muro: soffre, non spera piú. “Sento già la mia puzza”, mi dice con un filo di voce. Attorno, alpini bucati malamente, che gemono.
Cerco un medico per Grandi, per i feriti. Il nostro medico è disperso da piú giorni.
Trovo un capitano: ha le maniche rimboccate, ha sangue di alpino fino al gomito.
Raggiungo l'isba di Perego. Povero caro Peppo. Accanto c'è il suo attendente Clementi, inginocchiato, come se pregasse.
Mi piego su Perego, lo bacio, scoppio in un pianto disperato. Da tanto tempo volevo piangere cosí.
Torno fuori. Un ungherese alto, magro, disarmato, mi taglia la strada. Lo afferro, lo giro, lo butto in avanti. Cade a peso morto, a tre passi da me.
Vedo il dottor Taini dietro un'isba che amputa il braccio sbrindellato di un alpino con un comune coltello. Gli penzolava giú il braccio e si doveva toglierlo. Un russo sta girando in mezzo a noi, un soldato russo sbandato. Così imbottito nella sua divisa trapuntata sembra grasso, rotondo. C'è altro a cui pensare, e il russo corre indisturbato verso la piana, fuori dalle colonne. (...)


(Brani tratti dal libro Mai tardi – Diario di un alpino in Russia, Einaudi, Torino, 1967)



Nuto Revelli, combattente nell’ARMIR e poi partigiano, è morto all’inizio del 2004. Oltre a Mai tardi, ha pubblicato La guerra dei poveri, La strada dei davai, L’ultimo fronte, L’anello forte, Il disperso di
Marburg
e Il prete giusto.

 


        
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