I CONQUISTATORI

José Ovejero


– Sono figlia di Changó, sono sangue suo.
Beve una sorsata di Hatuey, si guarda intorno con un misto di alterigia e distacco, come se il suo lignaggio, lo stesso del dio Changó, la collocasse al di sopra di miserie e umiliazioni. Indossa un vestito nero corto, senza maniche, leggermente strappato sotto l'ascella. È truccata appena e, come ornamento, porta soltanto un paio di minuscoli orecchini, tutto il contrario dell'altra che invece è addobbata dalla testa ai piedi: nastri colorati intrecciati ai capelli neri, strati successivi di bracciali tintinnanti ai polsi, due orecchini su ciascun lobo, unghie smaltate, varie tonalità di fard, fuochi d'artificio con cui nascondere la mancanza di intelligenza.
Era stata quella truccatissima a rivolgersi a me per prima. Stavo seduto nella hall dell'Hotel Sevilla, vicino alla porta perché mi giungesse un po' di fresco dalla strada, e bevevo un mojito troppo dolciastro. Lei era ferma davanti all'entrata, e già da un po' mi lanciava sguardi ipoteticamente seduttori che non avevo voluto cogliere. Alla fine si decise e mi fece un segno. Mi volsi verso di lei malvolentieri; la sua professione si indovinava a un chilometro di distanza e a me non andava di portarmi a letto quell'albero di Natale. Mi chiese di invitarle a sedersi con me – solo allora mi resi conto che erano in due – poiché senza l'invito di un cliente non le lasciavano passare e lei ne aveva piene le palle di aspettare in piedi. Non volli sembrare crudele e feci cenno al portiere che le signorine erano mie ospiti.
Non appena ci sedemmo Ivonne, così aveva detto di chiamarsi l'albero di Natale, iniziò a farmi avances di evidente goffaggine: un vero peccato starsene tutto solo, mentre intorno è pieno di focose donne dei tropici; gli uomini, anche quelli sposati, hanno bisogno di libertà, di sperimentare, un gallo non si accontenta di una sola gallina. L’altra pronunciava a malapena qualche parola, non per timidezza ma per una sorta di disprezzo che però risultava più attraente del finto interesse dell'amica. Tuttavia si decise a parlare per dirmi di avere fame e per chiedermi di invitarle a cena. A dire il vero non avevo nulla di meglio da fare; era ancora presto per andare a dormire e non avrei incontrato nessuno fino al giorno dopo.
Mentre la sua amica – come ha detto di chiamarsi? – mi rivela le proprie nobili origini, Ivonne divora un panino dal nome americano e segue attentamente i movimenti di alcuni tedeschi seduti al tavolo accanto. Lancia loro sguardi che suppone particolarmente caldi, quelli li restituiscono un po' imbarazzati e si fingono molto impegnati nella conversazione. Sembra avere già abbandonato l'idea di conquistarmi. Credo pensi tra sé: è un finocchio o un fesso, che è pure peggio.
– Vado a fargli l'intervista – annuncia; si alza, getta i capelli all'indietro, più per la mossa che per il risultato, si liscia i fouseaux che non ne hanno affatto bisogno, visto che aderiscono alle natiche come un abito di neoprene, si pulisce le molliche dalle labbra con gesto deliberatamente lento, tira fuori una sigaretta dalla borsa e mi infila nel taschino della camicia l'accendino che era sul tavolo. Con la sigaretta spenta tra le dita, cammina verso i tedeschi che ammutoliscono vedendola arrivare, altissima, con la carne modellata dal tessuto, l'andatura indecente e lo sguardo copiato dalla televisione.
L'altra, quella di Changó, mi chiede di comprarle le sigarette. – No, ti ho già pagato la cena.
Allora mi fa uno sguardo tra il seduttore e il compassionevole, esagerato al punto da sembrare uno scherzo, ma la colpevolizzazione funziona.
– Va bene, tesoro, oggi è il tuo giorno fortunato. Ehi, ragazzo, portaci un pacchetto di... che marca vuoi?
– Marlboro.
– Light?
– No, quelle vere. Senti, magari ti va di farlo con tutt'e due. Sei già stato a letto con due donne?
– Non vuole farlo con una, figurati con due – interviene Ivonne, che nel frattempo è tornata con la sigaretta accesa tra le labbra.
– Certo, però qualche giorno fa sono stata con uno spagnolo che mi faceva vedere la foto della moglie e addirittura se la baciava tutta, pciu, pciu, poi l'ha rimessa nel portafoglio e mi ha scopato come un assatanato. Con questi con la faccia da bravi ragazzi non si sa mai.
– Hai mai fatto l'amore con una cubana? – chiede Ivonne. – Eh... no, veramente no.
– Allora non sai com'è. Quando si eccita la cubana diventa passione pura, se un uomo le piace gli fa di tutto, anche quello che non gli hanno mai fatto in vita sua.
– E poi – interviene quella di Changó – non sai cosa ti succederà domani, bisogna approfittarne. Magari domani mattina ti ritrovi morto stecchito, – straluna gli occhi e irrigidisce le braccia – cadavere, e chi s'è visto s'è visto.
– Dài, concedimi di vivere un altro po'.
– Te lo dico io, rigido come un palo, – e ripete sadicamente la mimica del cadavere – quindi al posto tuo ci farei un pensierino. Ti facciamo un buon prezzo. Quanto ti costa l'albergo, cento pesos? Per meno della metà ti porti in camera due femmine di prima categoria.
– Ti ringrazio, tesoro, ma non mi interessa. Sono venuto a Cuba per lavorare, non per scopare.
– Come i tedeschi – ride Ivonne. – Sono ingegneri ma uno di loro, quello con i baffi che pare un generale insorto della guerra d'indipendenza, capitolerà stanotte, parola di Ivonne.
– Sono vecchiacci bavosi e io non mi faccio mettere le mani addosso da quelli; finché le tette mi reggono – se le afferra con forza – sarò io a scegliere.
– Be', io mi cucco i tedeschi. Li preferisco agli italiani che sono veri spilorci. Bene, tesoro, se cambi idea, noi di solito stiamo qui al Sevilla.
Mi saluta con un bacio – non mi serba rancore per aver rifiutato la sua offerta – e va a sedersi al tavolo dei tedeschi. L'altra, di cui continuo a non ricordare il nome, si mette a parlare con un cubano, un dipendente dell'albergo mi pare, ignorandomi.
– Stanotte mi devi far venire da te.
– Lascia perdere, le notti passate mi hanno distrutto e non è proprio aria. Ma che, non trovi compagnia? – Il cubano mi lancia uno sguardo di commiserazione. Povero imbecille, mi dice con gli occhi, se fossi al tuo posto immagina tu se me ne starei il, a fare lo scemo, a offrire la cena senza neanche scoparci, poi.
– Lui non vuole, dice che è sposato.
Il cubano scoppia in una risata fragorosa.
–Sposato? – Ride fino alle lacrime mentre mi guarda incredulo, dandosi grandi manate sulle cosce; il bastardo esagera per farmela pesare ancora di più. – Questa è buona. Non vuole scopare perché è sposato. Io invece sì, e proprio per lo stesso motivo.
A questo punto mi alzo, stufo di fare la figura dell'idiota.
– Senti, me ne vado – e le do un bacio sulla guancia; lei lo riceve come chi accetta un'incombenza non eccessivamente fastidiosa ma neppure troppo piacevole. Mentre mi avvicino con le labbra alla sua guancia, mi arriva una zaffata di sesso che mi paralizza. Persino il collo le profuma di sesso. Ne metterà anche dietro le orecchie? Indugio dubbioso; mi è venuta voglia di andarci a letto. Poi però mi congedo, inseguito dallo sguardo compassionevole del cubano. Una volta in camera, mi sento ancora più idiota. Vista dalla finestra la città, immersa nel buio fino all'Hotel Nacional, sembra dormire, anche se so bene che non è così. Mi infilo nel letto. Silverio mi aspetta domani a Holguin con un Willy. Si comincia a lavorare. A meno che domani non sia morto, con gli occhi rivoltati e le membra irrigidite. Quasi tutte.
Un tassista clandestino mi accompagna all'aeroporto; in realtà è un cameraman ma sono più di tre anni che non lavora a un film. Mi chiede dieci dollari, cinque in meno di quelli che avrei pagato per un taxi pubblico. Ho già fatto varie volte il tragitto in direzione dell'aeroporto José Marti e la mia curiosità per il mondo esterno non è forte quanto il sonno. Stanotte ho dormito male, perciò mi sdraio sul sedile e mi addormento. Mi giunge soltanto il rumore dei clacson, lo scoppiettio dei motori e l'inevitabile puzza di benzina. All'aeroporto mi tocca fare una fila di un'ora per il check-in. L’aereo, un apparecchio a elica russo con i sedili logori, decolla puntuale.
Anche l'arrivo a Holguin rispetta la tabella di marcia. Appena uscito dal brutto edificio dell'aeroporto, vedo Silverio seduto in un Willy. La descrizione che mi avevano fatto di lui corrisponde: biondo, magro, con i baffi e un paio di Ray-Ban. Che porta anche quando caga, mi era stato detto. Anche se è ancora presto, il sole intima ai cani di cercarsi un riparo all'ombra. Gli faccio un fischio e un cenno con la mano. Con l'andatura dinoccolata del cowboy, viene verso di me e mi si ferma davanti.
– Sono Silver. E lei è il signore del reportage su un rivoluzionario cubano. Non mi hanno detto il suo nome.
– Carlos.
Ci stringiamo la mano, insisto per portarmi da solo la valigia – un borsone sportivo – e montiamo sul Willy.
Durante il viaggio imbastiamo a fatica una sorta di conversazione. Lui non è un gran parlatore e nemmeno io. Fra l'altro, quando gli domando della situazione di Cuba, risponde con molta cautela. Be', come lei sa è dura, ma si sopporta. Non si allarga, e io non insisto. Riesco invece a strappargli qualcosa di più sul suo lavoro. Fa il cartografo per il Geocuba di Holguin, ovvero l'Istituto cartografico cubano. Ci ha messo in contatto un'amica dell'Avana.
– Ce l'hai il tempo per accompagnarmi? Non ti crea problemi con il lavoro?
– Ma figurati. Stavo andando a bere qualcosa con i colleghi perché siamo rimasti senza inchiostro. Dimmelo tu come si fa a disegnare senza inchiostro.
Nel frattempo, abbiamo cominciato a darci del tu.
– Senti, se non ti dispiace, verrebbe con noi anche un mio collega. Uno degli autisti del Geocuba; lui conosce meglio la macchina, che ogni tanto fa i capricci, e sa dove possiamo rifornirci di carburante lungo la strada. Perché quando inizieremo a salire la montagna, le cose si faranno più complicate. Hai abbastanza pesos?
– Dollari?
Scuote la testa.
– Questa non è l'Avana. Con i verdoni qui non ci fai quasi niente. In campagna si continua a pagare in pesos.
Anche se probabilmente quelli che ho non basteranno, gli dico che non c'è problema. A Cuba non esiste niente che non si possa risolvere con un po' di pazienza e di immaginazione. Attraversiamo la piana di Holguin percorrendo strade piene di buche, tra piantagioni di canna da zucchero dove i tagliatori hanno appena iniziato la raccolta, o almeno questo sembrano indicare i residui mozzi di canna visibili dalla strada. Dev'essere l'ora del pranzo perché tagliatori in giro se ne vedono pochi. Ci fermiamo a un incrocio. Un mulatto magro, dall'espressione ottusa e tenera al tempo stesso, di quelli che chiamano jabaos – cioè rossicci di capelli – salta sulla jeep, batte vigorosamente la mano di Silver e mi dice: Robinson, a sua disposizione, compagno.
Arriviamo all'albergo di M. nell'ora più calda. Avevo tentato di prenotare le camere dall'Avana, ma all'ufficio del turismo non sapevano dell'esistenza di questo hotel. Però non ci sono problemi. Tutte le camere sono libere. Silver e Robinson prendono una doppia, mentre io mi aggiudico la suite nuziale, costa quindici dollari invece di dieci e, oltre alla camera da letto, ha un salotto con un divano in similpelle e un tavolo con i piedi rosicchiati da non so quali insetti o tarli. Alla finestra del salotto una sola tendina di tulle grigiastro copre uno dei vetri; la luce proviene da due tubi al neon polverosi e assolutamente nudi. Ispeziono le lenzuola: sono piene di buchi e c'è qualche capello sparso qua e là, ma sembrano lavate da poco. Il posto ha un aspetto desolato, più da luogo di penitenza che di piacere. Resto in camera a riposare un po', poi mi avvio verso il ristorante dell'albergo dove ho appuntamento con i miei due accompagnatori.
Quando arrivo sono già lì che fumano, senza bere né mangiare nulla, seduti a uno dei venti o trenta tavoli coperti da tovaglie scolorite, sotto un tetto di canne. Non ci sono altri clienti. Tre cameriere attendono in piedi, accanto alla porta della cucina. Sul fondo della sala noto un piccolo palco sul quale, anni addietro, certamente suonava un'orchestra. Ma per l'hotel quei tempi sono finiti: l'arredo, i pavimenti, la luce smorta, nonché l'atteggiamento disinteressato delle cameriere, indicano una decadenza irreversibile e un totale abbandono all'incuria e al tedio.
Per cena c'è maiale con patate. Chiedo se hanno anche qualcos'altro – dopo due settimane a Cuba comincio a non poterne più della carne di maiale – e la cameriera, per tutta risposta, si guarda mortificata la punta dei piedi. Anche Silver distoglie lo sguardo.
– Va bene, maiale per tutti. E tre birre belle fredde.
La cameriera si rivolge a Silver come per chiedergli aiuto, ma lui si limita a schioccare la lingua e a tamburellare sul tavolo senza alcun ritmo, un mero rumore monotono e fuori luogo.
– Non abbiamo birra, signore – risponde finalmente la cameriera. Cerco di dissimulare il mio sconcerto e di sorriderle nel modo più amichevole possibile.
– Non fa niente.
Quando se ne va per trasmettere l'ordinazione, offro una sigaretta ai miei compagni e restiamo un po' a fumare senza sapere cosa dire. In quel mentre si apre la porta della cucina e spunta un uomo, probabilmente il cuoco, a giudicare dalle macchie sul grembiule; un tipo magro, baffuto, con le sopracciglia folte, che si ferma a guardarmi con aria divertita e poi se ne torna in cucina senza proferire parola. Ma subito dopo lo sentiamo scompisciarsi dal ridere.
– Scusami.
Silver si alza, infila la porta dove poco prima era entrato il cuoco e, dopo un attimo, lo sento gridare: cazzo, è un compagno venuto da fuori e ci comportiamo con lui come selvaggi. Che idea vuoi che si faccia di Cuba? Un po' di dignità, cazzo, di educazione.
Torna immediatamente a sedersi vicino a me.
– Senti, non te la prendere. È che non ci sono abituati. Peccato che tu non sia venuto qualche anno fa; era un posto carino. Ma poi è andato a puttane...
Gli dico di non preoccuparsi; cambiamo argomento. Robinson apre a malapena la bocca; solo ogni tanto, per elogiare la carne di maiale, niente altro che ossa con pochissima polpa. Noto le scarpe rotte, con la suola mezza scucita e le punte bucate; i pantaloni sono quasi trasparenti alle ginocchia. Lui segue con gli occhi il mio sguardo e sposta indietro i piedi, come per nasconderli sotto la sedia.
Finito di cenare, io e Silver andiamo nella mia `suite' a organizzare il viaggio.
– Ti va un po' di rum? – gli chiedo nel frattempo.
– Quello non si rifiuta mai.
Ci avviciniamo a un bancone che si trova su un lato del ristorante, dietro alcuni cubani ascoltano musica e bevono rum. Chiedo una bottiglia.
– E la tua dove ce l'hai, amico?
Me l'ha domandato uno di loro, probabilmente l'unico che lavora lì. Non ho capito la domanda, il che deve sembrare evidente dalla mia espressione.
– Se non me ne dài una vuota, come pretendi di portartelo via, con le mani?
Silver viene a darmi man forte.
– Non ne avete una vuota? Il signore è un cliente di fuori. Non vi preoccupate, ve la riportiamo.
Il cameriere cerca in uno sgabuzzino, prendendo a calci certi scatoloni che gli intralciano il passaggio. Alla fine, riemerge con una bottiglia di birra vuota in mano. La riempie di rum e me la porge.
– Però la rivoglio indietro domani stesso, io mica le fabbrico, le bottiglie.
Nel salotto della mia suite distendo la cartina sul tavolo e insieme tracciamo quello che dovrebbe essere più o meno il percorso. Andremo fino a Sagua de Tánamo e da lì saliremo su per la Sierra, andando alla ricerca dei villaggi in cui si stabilirono i ribelli quando aprirono il Secondo Fronte. Se ce lo permettono, dormiremo in un accampamento che si trova da quelle parti, altrimenti chiederemo ospitalità a qualche contadino.
Silver rigira tra le mani il pacchetto di tabacco. Io aspetto senza mettergli fretta; alla fine mi dirà quello che ha in mente. Poi si decide:
– Non so, forse preferisci non andare da solo.
Mi accade spesso di non capire quello che mi viene detto. Sembra incredibile che parliamo la stessa lingua.
– Avevamo deciso di andare noi tre, no?
– Ceeeerto! Voglio dire che non dobbiamo essere per forza noi tre soli. Potremmo portarci qualche femmina.
Non sono ancora sicuro se si riferisca a prostitute o a qualche arnica sua, ma subito chiarisce.
– Cavolo, dico che potremmo invitare due o tre puttane, sei tu sei d'accordo, è chiaro, ma non credere che ti costerebbero molto, con la fame che c'è si accontentano di qualche saponetta o di un profumo.
A essere sincero, ci penso su un attimo: potrebbe essere divertente. Ma potrebbe anche essere una scocciatura andare in giro per le montagne con una attaccata al braccio che ti fa le moine e che, nel peggiore dei casi, non ti attrae neppure, ma a quel punto non puoi certo mandarla a quel paese. Rispondo di no, che stiamo andando lì per lavorare e le sue puttane sarebbero d'intralcio: e poi abbiamo deciso di cercare una guida che conosca bene la zona e possa illustrarmi la vegetazione, la fauna e la storia del posto. Nella jeep non ci sarebbe spazio sufficiente.
– Va bene, come vuoi. Magari ci sarà tempo alla fine del viaggio.
Dopo che Silver se n'è andato, resto per un po' a ripassare l'itinerario e a confrontarlo con la Historia del Segundo Frente che ho comprato all'Avana, al mercatino di La Rampa. Ogni tanto uno scarafaggio attraversa la stanza a gran velocità. A volte non camminano, ma tentano un goffo volo da cui atterrano rumorosamente. Lancio una scarpa che, più per caso che per abilità, ne intercetta uno in fase di atterraggio e lo spiaccica sul pavimento. In camera da letto, dove uno dei tramezzi non arriva al soffitto, resto spaventato dalla quantità di zanzare che registro al primo sguardo. La maggior parte, però, è fuori dalla mia portata: i soffitti sono così alti che non riesco a toccarli neppure saltando sul letto. Cerco per vari minuti l'interruttore della luce, finché non mi accorgo che dai tubi al neon pendono due fili elettrici che fanno contatto. Li separo e la luce si spegne. Mi avvolgo ben bene nel lenzuolo e mi preparo a trascorrere una notte scomoda.
Un vero martirio. Completamente fuori di me, inizio a bestemmiare a voce alta. Sono almeno quattro ore che mi rigiro nel letto, sudando come un maiale in quella specie di sindone con cui cerco di proteggermi dalle zanzare. E dalla finestra arriva una canzonetta insopportabile, di quelle vivaci, fatte per essere ballate con grandi oscillazioni di bacino e scintillio di sorrisi. Non ne posso più. Non è possibile che in un albergo in culo al mondo debbano mettere questa musica infernale nel cuore della notte: non c'è neanche un turista! Mi alzo e accendo la luce. Mi capitano a tiro due scarafaggi che calpesto per pura cattiveria. Conto le punture di zanzara: cinquantaquattro. Sul serio, non ne aggiungo neanche una. I cari animaletti stavano proprio morendo di fame e di inedia, chiusi tra queste quattro mura. Ho salvato intere famiglie di simulidi. Se non mi viene la malaria, potrò ritenermi soddisfatto. Grattandomi in modo rabbioso, esco dalla stanza per risalire all'origine della musica. Quant'è vero Iddio – e anche se non è vero – gli faccio smettere la festa. Non è difficile scoprire da dove proviene la salsa. Alla reception, una radio spara a tutto volume una melodia di moda che mi sta perseguitando da quando ho messo piede all'aeroporto dell'Avana mentre, a pochi passi, sdraiata su un'amaca, un'impiegata dell'albergo se la dorme beata.
– Ehi! – le grido, ma se riesce a dormire con un casino simile, non ho motivo di credere che possa sentire la mia voce. Entro nell'ufficetto e scuoto la ragazza, una donna altissima, robusta e muscolosa ma anche piuttosto bella, che alla fine apre gli occhi sonnacchiosi.
– Non potresti abbassare un po' la musica?
Mi guarda come se non riuscisse a spiegarsi da dove arrivo.
– Ma dài, no, siediti qui con me, fammi compagnia.
La sfilza di bestemmie che mi esce dalla bocca la coglie del tutto impreparata. Credo che si renda conto soltanto allora che sono spagnolo e, pertanto, un cliente dell'albergo. Si alza di scatto per spegnere la radio e resta a guardarmi con un'espressione contrita. Però non c'è sguardo che possa intenerirmi a quell'ora della notte e dopo averne passate molte altre a sudare, rigirarmi, grattarmi, tapparmi le orecchie e bestemmiare.
La mattina seguente, invece, mi sento dispiaciuto per averla sgridata a quel modo. Quando scendo per la colazione, le tre cameriere sono già lì a parlottare vicino alla porta della cucina. Non sono le stesse di ieri sera. Una di loro, mulatta, molto giovane e con i capelli cortissimi quasi bianchi, mi porta il caffè. Parla a voce molto bassa, con un dolce sorriso insinuato tra le labbra. Forse è solo timida, ma la voce e l'espressione sembrano stillare tenerezza. Le chiedo cosa c'è per colazione; pane, mi dice, e una parola che non comprendo.
– Che cos'è?
– Be'... aspetti un secondo, glielo faccio vedere.
Sparisce e torna all'istante con un tubetto mezzo schiacciato. Leggo l'etichetta, ma non riesco a capire cosa possa essere. Il colore sembra quel-lo del foie gras, ma l'odore è assolutamente dissuasivo.
– Cos'è, cosa c'è dentro?
Lei ride un po' mortificata e un po' divertita. Lancia uno sguardo alle sue colleghe, come per chiedere un aiuto. Ma nessuna risponde.
– Aspetti, vado a domandarlo.
Se ne va di nuovo e inizia un conciliabolo con le altre, poi torna da me cercando di non ridere.
– Nessuno lo sa, signore.
– Portami del pane, e nient'altro.
Riappare col caffè che sa di bruciato e alcune fette di pane. Dopo avermeli dati non si allontana, resta in piedi a un paio di passi dal mio tavolo. Ha un'espressione talmente luminosa che riesce a dissipare il malumore che mi trascinavo dietro dalla notte precedente.
– Come ti chiami? – le chiedo come un cretino, ma non mi viene in mente nulla di meglio.
– Sabina.
Almeno non rispondo che bel nome. Poi mi chiede se mi piace l'albergo e io mento senza battere ciglio. Non so se invitarla a sedersi con me, è un po' assurdo che resti in piedi accanto alla mia sedia. Le altre due cameriere – parecchio più vecchie – non ci staccano gli occhi di dosso.
– Il signore è uno scrittore.
È un'affermazione la sua, non una domanda, quindi immagino che glielo abbia detto Silver.
– Ed è venuto a scrivere sulla nostra città?
Le spiego il mio progetto senza entrare nei dettagli. Quando ho terminato abbassa lo sguardo, si avvicina di un passo e sussurra: anch'io scrivo. Ah sì? E cosa scrivi? Fingo un interesse maggiore di quello che provo. Mi parla di un'opera teatrale che ha scritto per la scuola. Una cosa molto sentimentale e di forte impegno sociale. Di certo sarà molto piaciuta ai suoi professori. Confesso di non ascoltarla con molta attenzione; sto pensando che, sebbene quel tipo di fascino un po' infantile solitamente non mi attragga in una donna, lei invece mi attira; i tratti sono armoniosi e la figura ben proporzionata, senza essere una di quelle donne statuarie che non sai se portarti a letto o mettergli una brocca in mano e sistemarle in un angolo del salotto come oggetto decorativo. La bellezza di Sabina è molto umana, vicina, calda, e mi porta a immaginare non solo di spogliarla e fare l'amore con lei, ma anche di starle seduto accanto, mentre le accarezzo i capelli e respiro l'odore del suo collo. Forse sono io stesso a sedurmi, abbagliato dal personaggio attraente in cui mi trasforma la sua ammirazione, e per questo mi fa tanto piacere parlare con lei.
Silver arriva nel bel mezzo della nostra conversazione e Sabina si allontana, non senza prima avermi fatto promettere che leggerò qualcosa di suo. Sarebbe proprio gentile da parte mia e lei me ne sarebbe molto grata. Le dedico il mio sguardo più paterno. Prima di intraprendere il viaggio per la Sierra del Cristal la cerco per salutarla e dirle che, al ritorno, leggerò le sue cose.
Il Willy è un rudere, glorioso, ma pur sempre un rudere. Un pezzo da museo che non dovrebbe circolare per le strade, bensì essere ammirato sotto vetro. È del '46 e, quindi, nonostante le doti di meccanico di Robinson, che devono essere notevoli, bisogna fermarsi di tanto in tanto per far raffreddare il motore; inoltre, quasi sempre nei momenti più inopportuni, come ad esempio all'inizio di una curva, si sente un violento martellio, il volante inizia a vibrare e Robinson è costretto ad afferrarlo con tutte le forze per tenere la strada. In ogni caso, mi sarei sentito più
sicuro se il primo rifornimento mattutino di Silver e Robinson non fosse stato presso un chiosco a riempire di rum una bottiglia di plastica. Cominciano a bere molto presto; io mi limito a un paio di sorsi per pura formalità.
Seguiamo la strada che corre parallela alla costa fino a Sagua de Támano, lì facciamo una deviazione verso l'interno e iniziamo a salire. La mia ambizione è di raggiungere i luoghi dove erano accampati i ribelli, per farmi un'idea di come poteva essere vivere lassù, dei suoni che senti-vano al momento di andare a dormire, del tipo di luce che vedevano quando uscivano dalle tende e della vegetazione che dovevano attraversare aprendosi il cammino a colpi di machete. Quando inizia a piovere, cerco di immaginare come doveva essere camminare per quelle fangaie trascinando l'equipaggiamento, e sdraiarsi tra i cespugli con l'uniforme fradicia, attendendo il passaggio di una truppa di regolari; quindi morire poco a poco, con le budella spappolate dalla mitraglia, nel bel mezzo di uno di quegli acquazzoni così frequenti, tra la violenza delle gocce che si schiantano sulle foglie di palma e lo schiamazzo dei pappagalli che, quando piove, risalgono le chiome degli alberi in modo che l'acqua li liberi dai parassiti. Almeno però quando pioveva le fangaie bloccavano i camion dell'esercito, che per un po' smettevano di inseguirli. E allora immagino la paura che avevano quando tornava a splendere il sole, costretti ad arrampicarsi di corsa su per la montagna, con un esercito alle calcagna e gli aerei che mitragliavano la foresta.
L'apprendista guardia forestale che siamo andati a prendere in un piccolo villaggio già piuttosto inoltrato sulla montagna, mi fornisce spiegazioni su tutto ciò che vediamo. È un ragazzo magro, cortese e silenzioso, tranne quando deve rispondere alle mie domande; allora diventa preciso e pensa bene prima di parlare ma senza essere avaro di parole. Mi spiega quali piante sono commestibili e quali no, salta giù dalla jeep per raschiare il terreno con un coltello e mostrarmi la malanga silvestre; nomina – ma non riusciamo a vederli – i pochi animali che vivono su queste montagne e che i ribelli usavano per arricchire le loro scarse razioni. Si ferma davanti ad alcune piante, ne schiaccia le foglie con le sue forti dita da contadino, le annusa e a volte me le fa perfino assaggiare: sono le erbe e gli arbusti che andavano a finire nelle farmacie portatili di campagna. Silver e Robinson arrestano la jeep tutte le volte che qualcosa attira la mia attenzione; attendono, senza fretta né interesse, che termini la spiegazione del ragazzo per riprendere il viaggio.
Una notte ci fermiamo in un accampamento militare circondato da piccole piantagioni di caffè. Il comandante ci riceve in un ufficio spartano: una foto di Fidel, un manifesto con uno slogan rivoluzionario, la pubblicità di un lubrificante con una ragazza seminuda, una scrivania, una sedia. Non ha mai sentito parlare del rivoluzionario in questione. Per questo ne seguo le tracce, perché nessuno lo conosce. Sebbene abbia acquistato una certa fama durante la Rivoluzione, è scomparso dalla storia ufficiale come le foto di Trotskij dall'iconografia sovietica. Nessuno dei suoi antichi compagni che hanno ancora un incarico nel partito o nell'esercito mi ha saputo dare notizie di lui, quando domandavo. Facevano la faccia di chi cerca di ricordare, poi scuotevano la testa un po' sconsolati, amico, non mi ricordo, eravamo tanti. Il colonnello responsabile degli archivi locali della Rivoluzione mi promise pure di cercare del materiale, e in effetti ne trovò; ma era lo stesso che avrei potuto trovare da solo senza ricorrere a lui: anno di nascita, breve curriculum, anno della morte. Grazie, mio colonnello.
Il viavai della truppa ci sveglia di buon'ora. Usciamo dalla tenda con le ossa doloranti – notte umida e brandina troppo stretta – e beviamo il caffè che ci viene offerto. Non sembro destare troppa curiosità nei soldati. Quando mi guardano danno l'impressione di domandarsi soltanto chi sarà questo, ma con una certa diffidenza, quasi con disprezzo. Beviamo grati il caffè che ci offrono. L'allusione di Silver, rivolta al comandante, riguardo all'effetto ravvivante che avrebbe un goccetto di rum, non provoca alcuna reazione.
– Sapevi che Raúl Castro emanò un editto con il quale vietava di bere ai soldati del Secondo Fronte? Per evitare tafferugli e non fare cattiva impressione nelle popolazioni che liberavano.
Di fronte a questa notizia, Silver si stringe nelle spalle, mentre il comandante mi guarda con una certa animosità.
– I rivoluzionari non erano ubriaconi.
– Ma il loro goccetto se lo facevano – interviene Silver – per combattere il freddo. O per darsi coraggio in battaglia.
– E io vi dico che i rivoluzionari non bevevano – insiste il comandante, accigliato.
Ringraziamo per l'ospitalità e lasciamo l'accampamento. Mentre partiamo un gallo nero ci si para davanti in mezzo alla strada. Silver propone di prenderlo e Robinson è già pronto a scendere dalla jeep quando vediamo il comandante salire su un'erta della collina e scrutarci da lontano.
– Gallo, il compagno comandante ti ha appena salvato la vita.
Il secondo giorno passa esattamente come il primo; percorrendo strade sterrate – che diventano pozze di fango quando piove – inzuppati sotto l'olona del Willy insufficiente a ripararci, mentre Silver e Robinson si scolano una bottiglia di rum che sono riusciti a comprare in una bettola dopo un'ora di ricerche durante la quale non hanno parlato d'altro: tutte le loro speranze, tutta la felicità delle loro vite sembravano dipendere dal trovare un goccio di rum da qualche parte, mentre l'apprendista guardia forestale snocciola brevi commenti o mantiene un silenzio amichevole e io prendo appunti e fotografo il terreno, affascinato dagli odori e dai rumori di quel mondo estraneo e bellissimo. Al tramonto decidiamo di tornare a M. Ho visto abbastanza. Riaccompagniamo il forestale a casa e lì mi offrono una champola, ovvero una bibita a base di guanáhana. Il ragazzo rifiuta categoricamente di essere pagato per il suo aiuto. Prendo il padre da parte e gli chiedo di convincerlo ad accettare un po' di denaro – vivono in una capanna, se non misera, di certo estremamente modesta – ma anche il padre rifiuta; non serve a nulla dirgli che non è una mancia né un'elemosina, bensì il compenso per il lavoro svolto. Non se ne parla. Se gli togliamo pure l'ospitalità, cos'altro gli resta? Agli amici non si fanno pagare i favori, e il compagno è un amico. Ci stringiamo la mano, e nel salutarci rimango un istante in silenzio, con una strana sensazione di fragilità nel petto.
Discendiamo i pendii della Sierra sobbalzando; Robinson ha sempre più difficoltà a controllare il veicolo. In un paio di occasioni rischiamo di cadere giù da un terrapieno. Robinson se la ride, beve un sorso e mi passa la bottiglia; lo mando a fare in culo.
– Tieni il volante con tutt'e due le mani, cazzo.
Dallo specchietto retrovisore vedo i suoi denti ingialliti, uno dei quali spezzato a metà.
– Non resistono molto gli spagnoli – e non so se si riferisce all'alcol o alle asperità del terreno.
Giunti al fiume, che è piuttosto ingrossato, si lancia ad attraversarlo come se il letto fosse asfaltato. Le ruote della jeep sbattono contro le pietre con cui è stato riempito fin quasi al livello del sentiero per consentire di guadare meglio; io e Silver ci dobbiamo aggrappare all'intelaiatura per non essere sbalzati fuori. Abbiamo i piedi nell'acqua. Quando sembra che non ci muoveremo più dal centro del fiume, Robinson dà un'accelerata, la jeep gira nel senso della corrente, poi un'altra accelerata, due sterzate e finalmente, recuperata la direzione iniziale, riusciamo a raggiungere l'altra sponda. Silver e Robinson festeggiano con una bella bevuta.
Arriviamo a M. quando è già buio. Ci fermiamo a un distributore di benzina, ma solo perché ho detto che muoio dalla voglia di una birra ghiacciata. In realtà, cerco di evitare di bere altro rum a stomaco semivuoto, però mi imbarazza dire sempre di no alle loro offerte. La stazione di servizio è l'unico posto nel raggio di chilometri dove sia possibile trovare birra. Ne compriamo sei lattine e ci mettiamo a berle nella jeep. È una notte assai tranquilla, calda, stellata. Silver diventa malinconico.
– Ho una fidanzata in questo villaggio.
Aveva detto la stessa identica cosa in altri due villaggi incontrati durante il viaggio. Il che non toglie che sia sposato e abbia tre figlie.
– Potremmo andare a prenderla e berci le birre con lei – propone. Probabilmente la mia faccia esprime disinteresse, poiché si affretta a tranquillizzarmi.
– Troverebbe di sicuro un paio di amiche anche per voi. È tanto che non la vedo – aggiunge in tono rammaricato.
Le birre gelate mi stanno facendo venire mal di stomaco. Non ho molta voglia di tirare in lungo la notte, ma neppure di fare sempre il guastafeste.
– Be', se insisti.
Silverio lancia la lattina in mezzo ai cespugli. Ne apre un'altra.
– Ma a te non piacciono le donne?
Confesso che l'osservazione mi ferisce.
– Alcune molto – rispondo.
Silver si volta verso Robinson.
– Il compagno è esigente. Io so però di una che gli piace. La camerierina.
Rido.
– Be', non era niente male.
– Attento, le mulatte ti spremono lo sperma pure dal cervello. Ti spiace comprare altre birre?
Compro altre sei lattine; quando torno al Willy, Robinson ha già messo in moto. Salgo, apriamo tre birre e Robinson gira la jeep in direzione del villaggio. Non faccio domande. Sento un misto di eccitazione e di vergogna. Arrivati all'albergo, sono tentato di salutarli e andarmene a dormire. Non lo faccio. Entriamo tutti e tre nel ristorante. Rimango accanto alla porta insieme a Robinson, mentre Silver va a parlare con le cameriere. Dai gesti che fa, capisco che Sabina quella sera non lavora. Le cameriere mi guardano con sarcasmo. Io cerco di non guardarle.
– Non c'è – annuncia Silver. Rimontiamo sulla jeep e lasciamo l'albergo. Le strade sono prive di illuminazione. Fino ad allora non avevo fatto attenzione al villaggio. Non sembra ci sia molto da vedere. Casette basse, la maggior parte in mattoni, ma qualcuna anche in legno. Piccoli orti sgraziati, vie sterrate e un paio di viali deserti. Silver e Robinson siedono sui sedili anteriori e architettano piani che non riesco né voglio sentire. Continuo a sforzarmi di apparire innocente a me stesso, ma la tensione sta diventando insopportabile.
– Sapete di cosa ho voglia?
I due ridono come matti.
– Ma no, non parlo di quello. Ho voglia di cagare.
È vero. Le birre mi hanno scombussolato lo stomaco. E un po' che sopporto questi crampi preannunciati da gorgoglii paludosi, come se il mio stomaco rigonfio fosse abitato da invisibili esseri anfibi che premono per salire in superficie.
– Compagno, lei è un genio – è la sorprendente risposta di Silver. Adesso davvero non capisco. Mi slaccio la cinta e mi sdraio sul sedile posteriore, più preoccupato per le violente esplosioni di gas che sembrano aver luogo nel mio stomaco che per i suoi indovinelli; all'improvviso, senza che ci azzecchi nulla, mi tornano in mente le due prostitute dell'Avana e la mia penosa performance con loro. In questo paese, se non ti scopi la prima che capita, fai la figura dell'imbecille.
Nonostante il dolore di pancia, mi apro un'altra birra. Sta di fatto che non mi dispiacerebbe farmi una scopata senza implicazioni. Chiudo gli occhi e penso a Sabina. Aveva occhi così ingenui da farti credere di essere il primo uomo a godere del suo corpo, il primo a insegnarle la passione, il primo a respirare il suo respiro e a ricevere i suoi abbracci riconoscenti, di donna ormai. Un peccato che non sia di turno stasera. Che ci vuoi fare. Anche se forse è meglio così; dopo me ne sarei pentito, soprattutto perché avrei avuto la sensazione di comportarmi come quei puttanieri che vanno in Tailandia, a Cuba o in Madagascar per approfittare della miseria delle donne del luogo. Non solo viviamo alle spalle dei paesi poveri, ma ci scopiamo pure le loro donne in cambio di pochi spiccioli. No, amico, cerco di tranquillizzarmi, tu non l'avevi programmato; sarebbe stata una qualunque conquista occasionale, una cosa che succede all'improvviso senza che nessuno l'abbia deciso in anticipo. L'avresti invitata a bere qualcosa, avresti fatto il tenero e sondato il terreno. E poi nessuno l'avrebbe obbligata, in fin dei conti un lavoro ce l'ha.
Sono un autentico gesuita.
Sto per addormentarmi insieme al noioso borbottio della mia coscienza, quando la jeep si ferma. Ci troviamo alla periferia del villaggio, di fronte a una costruzione a due piani.
— Che ci facciamo qui?
Il loro volto esprime una pazienza infinita, ma non rispondono. Così non mi è difficile indovinare la risposta. Mi lascio portare. Non li trattengo né li incoraggio, proprio come se non volessi responsabilità alcuna. Ispezionano i campanelli e, dopo qualche tentennamento, Silver ne sceglie uno. Un ragazzo giovane, con indosso soltanto un paio di pantaloncini, si affaccia al balcone. Il fatto che chiami Silver per nome mi lascia sorpreso. Dice che viene subito ad aprirci.
– È il fratello – ci rivela Silver sottovoce. — Anni fa sono stato il suo insegnante di geografia. Per un po' ho lavorato nella scuola di qui.
Il ragazzo apre la porta, ci salutiamo e poi Silver ci presenta.
– Sai, ci siamo bevuti un po' di birre e a lui gli hanno fatto male, ci serve un bagno. E visto che passavamo da queste parti e non era molto tardi... ti dispiace? Tieni, ce ne sono avanzate un po'.
Il cerbero si accontenta di una piccola offerta. Prende la lattina e mi saluta con un cenno del capo, senza nessuna espressione in viso. – Si, certo, salite.
Ho sempre più voglia di cagare, ma non so se dipende solo dalla birra. Saliamo al secondo piano. Il ragazzo spinge una porta, dietro alla quale c'è Sabina, con indosso una camicia da notte ingrigita dai vari lavaggi. Così, con indosso quel camicione di tela grezza ampio e senza alcuna decorazione, sembra una bimba, un'alunna di un collegio per poveri. Ci saluta e nel suo sguardo, che distoglie immediatamente, si legge la sorpresa, un po' di timore e forse un pizzico di eccitazione.
– Entrate, non restate sulla porta. – Ma interrompe i suoi modi adulti facendo una rapida giravolta sui talloni e allontanandosi. Percorriamo un corridoio brevissimo che ci immette in un saloncino. Sul divano è seduta una donna molto magra che probabilmente dimostra più anni di quelli che ha. Data la somiglianza, immagino sia la madre. Sabina è rimasta in piedi, sembra non sapere dove mettersi, come muoversi, quale età scegliere per riceverci.
Ci invitano a sederci. La donna si scusa del fatto che non ha nulla da offrire. Silver le dà una delle nostre birre, che lei accetta senza convenevoli; poi si mette a parlare con il ragazzo e scambiano una serie di frasi banali sul lavoro, su un conoscente comune e sul viaggio che abbiamo fatto in questi due giorni. Credo che ora in Sabina stia prevalendo il timore. Sa perché siamo andati a casa sua a un'ora così tarda; si avvicina un po' a sua madre, che non la respinge, ma neppure la attira a sé per proteggerla. Io cerco in lei la donna, un po' di civetteria, le forme adulte coperte dalla camicia da notte, un gesto, e allora mi rendo conto che mi sorride, ma appena rispondo sembra spaventarsi di nuovo, e stringersi ancora di più a sua madre, che intanto beve la birra a grandi sorsi direttamente dalla latrina. Non so come sbloccare la situazione, il mio essere lì impacciato, indeciso, fuori luogo. Silver comincia a spiegare alla donna chi sono e i presunti motivi per cui ci siamo fermati a casa sua.
– Prego, perché non lo avete detto prima. Sabina, mostra il bagno al signore.
Lei si alza subito, mi passa accanto senza guardarmi e io la seguo. Apre una porta.
– È qua.
La ringrazio e cerco il suo sguardo senza trovarlo; approfitto della strettezza del corridoio per sfiorarle i seni con l'avambraccio. Trasale, ma non si ritira. Il contatto non dura neanche due secondi, quanto basta perché possa sembrare casuale e per dare l'impressione che non lo sia necessariamente. Entro in un locale minuscolo, con un lavandino e un gabinetto. Chiudo la porta e mi abbasso velocemente i pantaloni. Ho una vera e propria cacarella. Cerco, tuttavia, di fare il minimo rumore possibile: una porta rotta, con fessure fra i giunti del legno, è l'unica barriera che mi separa dagli altri. Salire è stato uno sbaglio, dico a me stesso, ma ho ancora sulla pelle la sensazione dei suoi capezzoli e, nonostante i crampi, ho un'erezione che quasi mi impedisce di urinare. Mi sta venendo una voglia feroce di fare l'amore con la mulatta. Portare l'impresa a compimento, liberarmi di quella sensazione di essere uno stronzo. Scoparla fino a svuotarmi di tutta l'ansia e farle uscire gli occhi dalle orbite; ma nella scena che immagino sono particolarmente tenero e per nulla volgare né violento. Lei, un po' spaventata all'inizio, mi permette di toglierle la camicia da notte, anche se tiene gli occhi chiusi, riceve le mie carezze un po' tesa, come se fosse intirizzita, ma pian piano inizia a godersi il contatto della nostra pelle, le sfugge un sorriso, mi circonda il collo con le braccia e, infine, sussurra il mio nome.
Ho finito di cagare. Non ho fatto molto rumore anche se, a giudicare dalla chiarezza con cui mi arrivano le voci degli altri, sono quasi certo che la mia attività non sia passata inosservata. Spero che almeno Sabina non abbia sentito. Magari è andata in cucina a farci un caffè. Manca la carta igienica, ma ci sono dei vecchi giornali umidi. Quando mi alzo, cerco la catena; non la trovo. Solo allora mi accorgo che non c'è lo sciacquone. Ovviamente non è neppure incassato nel muro. Apro l'armadietto che sta sorto al lavandino per vedere se trovo un secchio o un recipiente sufficientemente grande. Niente. Rimango nel bugigattolo per qualche minuto senza sapere cosa fare. Mi pesa decidere di uscire, ma immagino che ormai avranno già cominciato a stupirsi del mio ritardo. Finalmente esco; affacciato sulla porta, cercando però di aprirla il meno possibile per contenere la fuga di cattivi odori, chiedo, senza rivolgermi a nessuno in particolare, come si tira la catena, sebbene non sia quella la domanda che avevo in mente. Spero che Silver si alzi e venga in mio aiuto, ma è impegnato in un'animata conversazione con Robinson e il ragazzo. La madre spinge lievemente Sabina.
– Va' a prendere dell'acqua, piccola.
– Non si preoccupi, mi dica dov'è che ci penso io.
– Non se ne parla neppure, lei resti seduto.
– No, no, davvero, faccio io.
Sabina si è alzata senza attendere la fine della nostra discussione ed è sparita in cucina.
Rimango in piedi a dispetto dell'invito e cerco disperatamente un modo per evitare che Sabina entri nel gabinetto. Mi metto di guardia al corridoio, nonostante le ripetute richieste della madre di andare a sedere con loro. Quando Sabina ritorna con il secchio d'acqua in mano, tento di sottrarglielo, evitando di essere brusco ma sua madre, che si è alzata per non so quale motivo, si mette in mezzo e torna alla carica per farmi sedere.
– No, signora, faccio io – ripeto ancora una volta debolmente, sperando che Silver finalmente reagisca. Tendo la mano verso il secchio con un impeto che lei probabilmente scambia per un eccesso di cortesia. Sabina prosegue il suo cammino senza che io riesca a strapparglielo.
— Su, non si preoccupi, non mi costa nulla — sussurra quando mi passa accanto. Quando spinge la porta del gabinetto, ne fuoriescono effluvi pestilenziali, ma lei non tentenna neppure un istante. Dal punto in cui mi sono fermato, la vedo entrare lentamente nel tugurio puzzolente, deporre il secchio a terra, sollevare il coperchio del water, guardare dentro e poi, senza alzare lo sguardo, né fare smorfie di disgusto, versarvi dentro l'acqua del secchio.


(Tratto dalla raccolta Come sono strani gli uomini, Voland editrice, Roma, 2003, traduzione di Federica Frasca)


José Ovejero

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