DENUNCIA DI MORTE

 

Heiner Müller



Quando rientrai a casa era morta. Giaceva in cucina sul pavimento di pietra, un po' a pancia in giú, un po' riversa da un lato, una gamba ripiegata come se dormisse, la testa nelle vicinanze della porta. Mi chinai, sollevai il suo viso dal profilo e dissi la parola con cui la chiamavo quando eravamo soli. Avevo l'impressione di recitare teatro. Mi vedevo appoggiato alla cornice della porta mentre osservavo, tra l'annoiato e il divertito, un uomo accovacciato alle tre del mattino sul pavimento di pietra della sua cucina, chino su sua moglie forse svenuta forse morta, mentre ne sollevava la testa con le mani e le parlava come a una bambola, per nessun altro pubblico al di fuori di me. Il suo viso era una smorfia, la fila dei denti superiori sbieca nella bocca spalancata, come se la mascella fosse slogata. Mentre la sollevavo udii qualcosa come un sospiro, sembrava provenire piú dalle sue interiora che dalla bocca, comunque da lontano. L'avevo già vista spesso giacere come morta quando rientravo a casa, e sollevata con la paura (speranza) che fosse morta, e il terribile rumore suonò tranquillizzante, una risposta. Piú tardi il medico mi spiegò: una specie di flato, provocato dal cambiamento di posizione, un avanzo di respiro, di gas pressato nei polmoni. O qualcosa di simile. La trasportai in camera da letto, era piú pesante del solito, nuda sotto la vestaglia. Quando poggiai il fardello sul letto le cadde una protesi dentaria dalla bocca. Doveva essersi allentata durante l'agonia. Compresi cosa avesse sfigurato il suo volto. Non avevo mai saputo che portasse una protesi. Tornai in cucina e chiusi il rubinetto del gas, poi, dopo uno sguardo al suo volto vuoto, andai al telefono, con la cornetta in mano pensai alla mia vita con la morta, ovvero alle diverse morti che per tredici anni aveva cercato e mancato, fino a quella notte coronata dal successo. Aveva provato con una lametta: quando aveva finito con un polso mi chiamò, mi mostrò il sangue. Con un cappio, dopo aver chiuso la porta ma, per speranza o distrazione, non la finestra, raggiungibile attraverso il tetto. Con il mercurio di un termometro rotto allo scopo. Con le pastiglie. Con il gas. Dalla finestra o dal balcone voleva gettarsi solo quando ero in casa. Chiamai un amico, non volevo ancora sapere che era morta, ormai una questione per le autorità, poi il pronto soccorso. È DIVENTATO MATTO SPENGA SUBITO LA SIGARETTA MORTA È SICURO SÍ DA ALMENO DUE ORE ALCOL IL CUORE NON HA NOTATO CHE SUA MOGLIE DOV'È LA LETTERA QUALE LETTERA NON HA LASCIATO NESSUNA LETTERA DOV'ERA LEI DA CHE ORA A CHE ORA DOMANI ALLE NOVE STANZA VENTITRE CONVOCAZIONE IL CADAVERE VERRÀ PRELEVATO AUTOPSIA NON SI PREOCCUPI NON SI VEDRÀ NIENTE. Aspettare il carro funebre, nella stanza accanto una donna morta. L'irreversibilità del tempo. Tempo dell'omicida: presente cancellato nella parentesi di passato e futuro. Andare nella stanza accanto (tre volte), osservare ANCORA UNA VOLTA la morta (tre volte), nuda sotto la coperta. Crescente indifferenza verso il cosolà, col quale i miei sentimenti (dolore lutto bramosia) non hanno piú niente a che fare. Tirare di nuovo la coperta sul corpo (tre volte), che domani verrà affettato, sul viso vuoto. Durante la terza volta le prime tracce d'avvelenamento: blu. Ritorno alla sala d'attesa (tre volte). Il primo pensiero alla mia morte (non ce ne sono altre): nella piccola casa in Sassonia, nella minuscola cameretta al terzo piano basso, avevo cinque o sei anni, da solo verso mezzanotte sull'inevitabile vaso da notte, luna alla finestra. QUELLO CHE TENEVA IL GATTO SOTTO IL COLTELLO DEI COMPAGNI ERO IO/ IO LANCIAI LA SETTIMA SASSATA CONTRO IL NIDO DELLE RONDINI E FU LA SETTIMA CHE ANDÒ A SEGNO/ SENTIVO I CANI ABBAIARE NEL VILLAGGIO QUANDO C'ERA LA LUNA/ BIANCA CONTRO LA FINESTRA DELLA CAMERETTA NEL SONNO/ ERO UN CACCIATORE CACCIATO DAI LUPI DA SOLO CON I LUPI/ PRIMA DI ADDORMENTARMI TALVOLTA UDIVO I CAVALLI URLARE NELLE STALLE. Il sentimento dell'universo durante la marcia notturna sul terrapieno della ferrovia in Mecklenburgo, dentro stivali troppo stretti e uniforme troppo larga: il vuoto rintronante. FACCIA DI GALLINA. Da qualche parte, in cammino nel dopoguerra, mi si era appiccicato addosso, una figura secca dentro a un ciondolante cappotto militare che strusciava per terra, un cappello militare troppo grande sulla testa d'uccello troppo piccola, il portapane all'altezza del ginocchio, un bambino in grigio-uniforme. Mi trotterellava accanto, muto, non ricordo che abbia mai detto una parola, solo quando acceleravo il passo, perfino correvo per lasciarmelo dietro, emetteva piccoli suoni lamentosi tra i sospiri ansimanti. Un paio di volte credetti di averlo definitivamente seminato, era solo un punto nella pianura alle mie spalle, infine nemmeno quello; ma col buio recuperava il terreno perduto, e al piú tardi al risveglio in una cascina o all'aria aperta mi giaceva nuovamente accanto, arrotolato nel suo cappotto pieno di fori, la testa d'uccello all'altezza delle mie ginocchia, e se mi riusciva di alzarmi e andar via prima che si svegliasse, udivo ben presto alle mie spalle il suo ansare lamentoso. Lo insultavo. Mi stava davanti, mi osservava riconoscente con quei suoi liquidi occhi da cane. Non so piú se gli sputai addosso. Non riuscivo a colpirlo: le galline non si picchiano. Non avevo mai avvertito un desiderio cosí intenso di uccidere una persona. Lo pugnalai con la baionetta che aveva estratto dai recessi del suo cappotto per aprire l'ultima scatoletta di carne che voleva dividere con me, avevo cominciato io per non dover mangiare la sua bava, conficcai la baionetta nelle sue scapole appuntite prima che mangiasse a sua volta, guardava senza rimpianti il suo sangue luccicare sull'erba. Accadde su un terrapieno della ferrovia, dopo che lo ebbi colpito affinché prendesse un'altra strada. Lo pugnalai con la sua baionetta appena finí di scavare un riparo contro il vento che spirava sulla pianura in cui avremmo dovuto passare la notte. Non si difese mentre gli strappai il punteruolo dalle mani; nemmeno quando vide arrivare la stoccata riuscí a cacciare un urlo. Doveva aspettarselo. Aveva solo sollevato le mani sopra la testa. Vidi con sollievo nell'oscurità calata rapidamente una maschera di sangue nero cancellare la sua testa di gallina. In un giorno soleggiato di maggio lo gettai da un ponte che era stato minato. Lo avevo mandato avanti, non si guardava intorno, bastò una spinta da dietro. Il cratere causato dall'esplosione era largo venti metri, il ponte abbastanza alto per una caduta mortale, di sotto l'asfalto. Osservai la traiettoria del suo volo, il cappotto gonfio come una vela, le vogate laterali del portapane vuoto, il mortale atterraggio. Quindi superai a mia volta il cratere: mi bastò semplicemente allargare le braccia, trasportato dall'aria come un angelo. Non ha piú spazio nei miei sogni da quando l'ho ucciso (tre volte). SOGNO Entro in una vecchia casa invasa da alberi, le pareti costrette e tenute in piedi dagli alberi, salgo una rampa di scale, sulla sommità un'enorme donna nuda dai seni poderosi, gambe e braccia aperte, appesa a un cappio (forse mantiene la posizione senza un attacco: galleggiando nell'aria). Sopra di me le cosce mostruose, spalancate come una forbice, in cui entro sempre di piú ad ogni gradino, la peluria pubica nera e selvatica, la ruvidità delle labbra vulviche.


(Traduzione di Antonello Piana)



Heiner Müller




         Successivo          Copertina