LA DONNA BARBARA
( – brano del romanzo Aspettando i barbari – )

 


J. M. Coetzee

(...) Sta inginocchiata all'ombra del muro di cinta della caserma, a pochi metri dal cancello, avvolta in un cappotto troppo grande; per terra davanti a lei, un cappuccio di montone rovesciato. Ha le sopracciglia nere e dritte, i capelli neri e lucidi dei barbari. Una donna barbara che chiede l'elemosina in città, che senso ha? Nel cappuccio solo pochi penny.
Le passo davanti altre due volte quel giorno. Ogni volta mi guarda in modo strano. Fissa dritto davanti a sé fino a che non le sono proprio vicino e poi, lentamente, gira la testa dall'altra parte. La seconda volta metto una moneta nel cappuccio. – È troppo freddo e troppo tardi per stare fuori, – le dico. Lei annuisce. Il sole tramonta dietro una striscia di nuvole nere; il vento del nord porta con sé un presagio di neve; la piazza è vuota; passo oltre.
Il giorno dopo non c'è più. Parlo alla sentinella di guardia al cancello della caserma. – Ieri per tutto il giorno c'è stata una donna seduta laggiù, chiedeva l'elemosina. Da dove viene? – Mi spiega che la donna è cieca e che è una delle barbare portate dal colonnello. L'hanno lasciata qui.
Qualche giorno dopo la vedo attraversare la piazza. Cammina lentamente, in modo strano, aiutandosi con due bastoni, e trascina il lungo cappotto di montone nella polvere. Do disposizioni. La portano nel mio appartamento, è lì in piedi davanti a me, appoggiata ai bastoni. – Togliti il cappuccio, – dico. Il soldato che l'ha accompagnata glielo tira giù. È proprio la stessa ragazza. Stessi capelli neri con la frangia sulla fronte, stessa bocca larga, stessi occhi neri che mi guardano e passano oltre.
– Dicono che sei cieca.
– Ci vedo, – dice. I suoi occhi si spostano dalla mia faccia e fissano un qualche punto dietro di me, sulla destra.
– Da dove vieni? – Senza riflettere mi volto a guardare quello che guarda. Non c'è niente, fissa la parete vuota. Il suo sguardo si è indurito. Già sapendo la risposta, ripeto la domanda. Non parla.
Mando via il soldato. Siamo soli.
– Lo so chi sei, – dico. – Siediti, per favore –. Le prendo i bastoni e l'aiuto a sedersi su uno sgabello. Sotto il cappotto porta grandi mutandoni di lino, infilati in un paio di stivali dalla suola spessa. Puzza di fumo, di abiti sporchi, di pesce. Ha le mani callose.
– Vivi chiedendo l'elemosina? – le domando. – Lo sai che non potresti stare in città? Potremmo espellerti in un qualunque momento e rimandarti dalla tua gente.
Se ne sta li seduta e guarda in quello strano modo davanti a sé.
– Guardami, – le dico.
– Sto guardando. È così che guardo.
Le agito una mano davanti agli occhi. Sbatte le palpebre. Mi avvicino, la guardo negli occhi. Distoglie lo sguardo dalla parete, lo sposta su di me. L'iride nera risalta sulla cornea bianco latte, chiara come quella di un bambino. Le sfioro la guancia, sussulta.
– Ti ho chiesto cosa fai per vivere.
Alza le spalle: – La lavandaia.
– Dove vivi?
– Vivo.
– Il vagabondaggio non è permesso in città. L'inverno è alle porte. Devi avere un posto dove stare, oppure te ne devi tornare dalla tua gente.
Resta impassibile, ostinata. So che sto menando il can per l'aia.
– Posso darti un lavoro. Ho bisogno di qualcuno che pulisca la casa, che si occupi della biancheria. La donna che ho ora non va bene.
Capisce perfettamente il senso della mia offerta e resta lì rigida, con le mani in grembo.
– Sei sola? Ti prego, rispondimi.
– Si, – dice con un filo di voce. – Si.
– Ti ho offerto di venire qui, a lavorare. Non puoi chiedere l'elemosina per le strade. Non posso permetterlo. E poi devi avere un posto dove abitare. Se lavori da me puoi stare nella stanza della cuoca.
– Non capisci. Non puoi volere una come me –. Si trascina per prendere i bastoni. So che non vede. – Io sono... – alza l'indice poi lo afferra, lo torce. Non ho idea del significato di quel gesto. – Posso andare? – Arriva da sola fino alle scale, poi mi aspetta, perché l'aiuti a scendere.
Passa un giorno. Guardo la piazza dove il vento alza nugoli di polvere. Due ragazzini giocano con un cerchio. Lo fanno rotolare nel vento. Avanza, rallenta, ondeggia, torna indietro, cade. I bambini, la testa inclinata all'indietro, lo rincorrono, il vento gli libera la fronte, scopre le sopracciglia.
Trovo la ragazza e mi fermo davanti a lei. È seduta, la schiena appoggiata al tronco di un grande albero di noce; difficile capire se è sveglia. – Vieni, – le dico, e le tocco la spalla. Lei scuote il capo. – Vieni, – dico, – sono tutti dentro –. Scrollo il cappuccio di pelliccia per liberarlo dalla polvere e glielo passo, l'aiuto a tirarsi su, e cammino lentamente vicino a lei. Attraversiamo la piazza; ora è vuota, a parte la sentinella che si ripara gli occhi con la mano per osservarci.
Il camino è acceso. Tiro le tende e accendo la lampada. Lei rifiuta lo sgabello ma lascia che prenda i bastoni e s'inginocchia al centro del tappeto.
– Non è come pensi, – le dico. Le parole escono dalla mia bocca con riluttanza. È mai possibile che stia per scusarmi? Ha la bocca chiusa, le labbra serrate, sicuramente anche le orecchie; non ne vuole sapere di vecchi piagnucolosi e dei loro sensi di colpa. Le giro intorno, parlando di ordinanze sul vagabondaggio, disgustato di me. La sua pelle comincia ad avvampare nell'aria calda della stanza chiusa. Apre il montone, espone la gola nuda al fuoco. La distanza tra me e i suoi aguzzini, mi rendo conto, è insignificante. Rabbrividisco.


– Fammi vedere i piedi, – le dico con la nuova voce roca che ormai sembra essere diventata la mia. – Fammi vedere che cosa hanno fatto ai tuoi piedi.
Lei non mi aiuta, ma non mi ostacola. Armeggio coi ganci del montone, lo apro, le tolgo gli stivali. Sono stivali da uomo, troppo grandi per lei. Dentro, i piedi sono fasciati, informi.
– Fammi vedere, – dico.
Comincia a srotolare le fasce sporche. Esco dalla stanza, scendo in cucina, risalgo con un catino di acqua calda e una brocca. Lei mi aspetta seduta sul tappeto, coi piedi nudi. Sono larghi, con le dita tozze e le unghie incrostate di sporcizia.
Passa un dito sulla caviglia, all'esterno. – È rotto qui. Anche l'altro –. Si appoggia sulle mani e allunga le gambe.


– Fa male? – dico. Faccio scorrere il dito lungo quella linea, non sento niente.
– Non più. È guarito. Ma forse quando viene il freddo.


– Dovresti metterti seduta, – dico, e l'aiuto a liberarsi del montone. La faccio sedere sullo sgabello, verso l'acqua nel catino e comincio a lavarle i piedi. Per un po' sento le sue gambe rigide, poi si rilassano.
La lavo lentamente, facendo la schiuma, afferrando la carne soda dei polpacci, manipolando ossa e tendini dei piedi, passando le dita tra le dita dei suoi piedi. Cambio posizione in modo da stare in ginocchio di lato e non di fronte a lei, cosicché tenendo ferma una gamba tra gomito e fianco posso accarezzarle il piede con tutte e due le mani.
Mi perdo nel ritmo di quello che faccio. Quasi mi dimentico di lei. È come un lasso di tempo vuoto: forse non sono nemmeno presente. Quando ritorno in me le mie mani sono aperte, il piede è nel catino, la testa mi ciondola.
Asciugo il piede destro, passo dall'altra parte, spingo la gamba dei larghi mutandoni sopra il ginocchio e, lottando con la sonnolenza, comincio a lavare il piede sinistro. – A volte questa stanza si surriscalda, – dico. La pressione della sua gamba sul mio fianco non si allenta. Continuo. – Troverò delle fasce pulite per i tuoi piedi, – dico, – ma non ora –. Spingo di lato il catino e le asciugo il piede. Mi rendo conto che cerca a fatica di alzarsi, ma ora, mi dico, deve arrangiarsi da sola. Mi si chiudono gli occhi. Tenerli chiusi, assaporare quel torpore beato, mi procura un piacere intenso. Mi stendo sul tappeto e un secondo dopo dormo. In piena notte mi sveglio rigido e infreddolito. Il camino è spento, la ragazza se n'è andata.


La osservo mentre mangia. Mangia come una cieca, guardando lontano, regolandosi col tatto. È di buon appetito, l'appetito di una giovane e robusta contadina.
– Non è vero che ci vedi – dico.
– Si, ci vedo. Quando guardo dritto davanti a me non c'è niente, c'è... – (Strofina l'aria davanti a sé come se stesso pulendo un vetro).
– Una macchia – dico io.
– C'è una macchia, ma ai lati vedo. L'occhio sinistro va meglio del destro. Come potrei andare in giro se non ci vedessi?
– Te l'hanno fatto loro?
– Si.
– Che cosa ti hanno fatto?
Alza le spalle e non risponde. Il suo piatto è vuoto. Le metto ancora un po' della minestra di fagioli che le piace tanto. Mangia troppo in fretta, poi rutta nelle mani a coppa e sorride. – I fagioli fanno scoreggiare – dice. La stanza è calda, in un angolo c'è il suo montone, con gli stivali sotto; addosso non ha che la camicia bianca e i mutandoni. Quando non mi guarda sono solo una forma grigia che si muove in modo imprevedibile alla periferia del suo campo visivo. Quando mi guarda sono una macchia, una voce, un odore, un centro di energia che un giorno si addormenta mentre le lava i piedi e il giorno dopo le dà una minestra di fagioli e il giorno dopo ancora – non lo sa.
La faccio sedere, riempio il catino, le arrotolo i mutandoni sopra le ginocchia. Ora che ha tutti e due i piedi nell'acqua vedo che il sinistro è più torto verso l'interno del destro, che quando si tira su è costretta a poggiare sul bordo esterno dei piedi. Le caviglie sono grosse, gonfie, informi, la pelle cicatrizzata è viola.
Comincio a lavarla. Lei tira su i piedi per me, uno dopo l'altro. Impasto e massaggio gli alluci molli tra la morbida schiuma lattiginosa. Ben presto mi si chiudono gli occhi, la testa mi ciondola. A suo modo è inebriante.
Dopo comincio a lavarle le gambe. Per fare questo deve stare in piedi sul catino e appoggiarsi alle mie spalle. Le mie mani le scorrono su e giù per le gambe, dalla caviglia al ginocchio, avanti e indietro, stringono, sfregano, impastano. Ha le gambe corte e tarchiate, i polpacci forti. Qualche volta le mie dita finiscono dietro le sue ginocchia, inseguendo i tendini, premendo le cavità. Leggere come piume risalgono dietro le cosce.
L'aiuto a salire sul letto e l'asciugo con un asciugamano caldo. Comincio a tagliarle e pulirle le unghie dei piedi, ma già mi sento arrivare addosso le ondate di sonnolenza. Mi accorgo che mi ciondola la testa, che il corpo si piega in avanti intorpidito. Metto da parte con cura le forbici. Poi, tutto vestito, mi sdraio sul letto accanto a lei, con la testa dalla parte dei suoi piedi. Le stringo le gambe fra le braccia, mi ci accuccio sopra con la testa e in un secondo mi addormento.
Mi sveglio che è buio. La lampada è spenta, c'è un odore di stoppino bruciato. Mi alzo e apro le tende.
La ragazza è raggomitolata, con le ginocchia piegate sul petto. Quando la tocco geme e si rannicchia di più. – Prendi freddo, – le dico, ma non sente niente. Le metto addosso una coperta, poi un'altra.


Prima di tutto c'è il rituale del lavaggio, per il quale adesso è nuda. Le lavo i piedi, come sempre, le gambe, il sedere. La mia mano insaponata risale tra le sue cosce ma, scopro, senza curiosità. Tira su le braccia quando le lavo le ascelle. Le lavo la pancia, il petto. Scanso i capelli per lavarle il collo, la gola. È paziente. La sciacquo e l'asciugo.
Si sdraia sul letto e io le strofino il corpo con olio di mandorle. Chiudo gli occhi e mi perdo nel ritmo di questo strofinare mentre nel camino, pieno di ciocchi, il fuoco scoppietta dietro la grata.
Non sento il desiderio di penetrare in questo corpo piccolo e tarchiato che adesso risplende illuminato dalle fiamme. È da una settimana che non ci diciamo una parola. La nutro, le do un tetto, uso il suo corpo – se è ciò che faccio – in questo modo strano. Ci sono stati momenti in cui si irrigidiva di fronte a certe intimità; ma adesso il suo corpo si abbandona quando le strofino la faccia sulla pancia o le stringo i piedi tra le cosce. Si abbandona a tutto. Qualche volta scivola nel sonno prima che io abbia finito. Dorme profondamente, come una bambina.
Quanto a me, sotto il suo sguardo vuoto, nel chiuso calore della stanza, mi spoglio senza imbarazzo, scopro le gambe magre, i genitali stanchi, la pancia, il torace flaccido da vecchio, la pelle da tacchino del collo. Mi sorprendo ad aggirarmi nudo senza pensarci, a volte rimango a godermi il fuoco nel camino dopo che lei si è addormentata, oppure mi siedo a leggere in poltrona.
Ma il più delle volte, proprio mentre l'accarezzo, sono sopraffatto dal sonno, come tramortito, sprofondo nell'oblio scompostamente, steso sul suo corpo, e mi sveglio un'ora o due dopo, intontito, confuso, assetato.
Questi accessi di sonno senza sogni sono come la morte per me, o un incantesimo, un vuoto, fuori del tempo.
Una sera, mentre le strofino la testa con l'olio, le massaggio le tempie e la fronte, noto nell'angolo di un occhio una ruga grigiastra, come se sotto la palpebra fosse annidato un millepiedi, a pascolare.
– Che cos'è questo? – le chiedo sfiorando il millepiedi con l'unghia.
– È dove mi hanno toccato, – dice, e scansa la mia mano.
– Ti fa male?
Lei scuote la testa.
– Fammi vedere.
Mi è sempre più chiaro che fino a che non avrò decifrato e capito i segni sul corpo di questa ragazza non potrò lasciarla. Non posso lasciarla. Le divarico le palpebre tra pollice e indice. Il millepiedi finisce, decapitato, nell'angolo interno rosato della palpebra. Non ci sono altri segni, l'occhio è sano.
Lo guardo bene. Devo credere che quando a sua volta mi guarda non vede niente – forse il mio piede, o qualche parte della stanza, un cerchio di luce indistinta, ma al centro, dove sto io, solo una macchia, un vuoto? Le passo lentamente la mano davanti al viso, fisso le sue pupille. Mi sembra che non si muovano. Non sbatte le palpebre, ma sorride: – Perché lo fai? Pensi che non ci vedo? – Ha gli occhi marroni, così marroni da essere quasi neri.
Le sfioro la fronte con le labbra. – Che cosa ti hanno fatto? – mormoro. Ho la lingua impastata, vacillo sulle gambe per la stanchezza. – Perché non me lo vuoi dire?
Scuote il capo. Sto per precipitare nell'oblio quando mi ricordo che le mie dita, scorrendo sul suo sedere, hanno sentito un immaginario intrecciarsi di solchi sotto la pelle. – Niente è peggio di quello che possiamo immaginare, – mormoro. Non dà segno di avermi ascoltato. Scivolo sulla poltrona, tirandola giù con me, sbadigliando. “Dimmelo, – le vorrei dire, – non me lo nascondere, il dolore è dolore, nient'altro”, ma le parole mi sfuggono. Me la stringo contro, con le labbra sull'orecchio, cerco faticosamente di parlare; poi mi piomba addosso la notte. (...)


(Brano tratto dal romanzo Aspettando i barbari, Einaudi, Torino, 2000. Traduzione di Maria Baiocchi)


J. M. Coetzee , vincitore nel 2003 del Premio Nobel, è uno dei più importanti scrittori sudafricani.


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