PRESENTANDO IL SUO ETERONIMO

Fernando Pessoa

 

Il libro dell’inquietudine
di Bernardo Soares




(Fernando Pessoa presenta Bernardo Soares)

Esiste a Lisbona un piccolo numero di osterie o ristorantini ove, sopra uno spaccio da dignitosa mescita di vini, si erge un mezzanino dall’aspetto rustico e casalingo, sul tipo dei ristoranti di certe cittadine dove la ferrovia non arriva. In quei mezzanini in cui, esclusa la domenica, gli avventori sono rari, è frequente incontrare tipi curiosi, poveri diavoli, visi senza interesse, gente che vive a margine della vita.
Il desiderio di tranquillità e i prezzi convenienti mi portarono in un certo periodo della mia vita ad essere cliente assiduo di uno di quei mezzanini. Capitava che, quando vi cenavo verso le sette, incontrassi quasi sempre un tale il cui aspetto, che dapprincipio mi era parso indifferente, cominciò a poco a poco a suscitare il mio interesse.
Era un uomo dall’apparente età di trent’anni, magro, piuttosto alto, esageratamente curvo quando stava seduto ma un po’ meno quando era in piedi, vestito con una certa ma non totale trascuratezza. L’aria sofferente non conferiva maggior interesse al pallido volto dai tratti comuni; una sofferenza di difficile definizione che poteva indicare varie cause: privazioni, angosce, e quel patimento che nasce dall’indifferenza proveniente dall’aver sofferto molto.
Cenava sempre con parsimonia e alla fine del pasto si arrotolava una sigaretta con tabacco di cattiva qualità. Osservava acutamente i presenti, con aria attenta ma non sospettosa; il suo era uno sguardo censorio, ma un’attenzione che tuttavia non sembrava rivolta ai tratti e alle fisionomie della gente. Fu questo suo curioso atteggiamento che suscitò il mio primo impulso di interesse per lui. Cominciai a guardarlo attentamente. Mi accorsi che un’espressione di un’intelligenza discreta animava vagamente il suo viso. Ma l’aria depressa, la fredda angoscia stagnante fasciavano così perfettamente la sua fisionomia che era difficile penetrarla.
Seppi per caso da un cameriere che faceva il contabile in una ditta commerciale vicina.
Un giorno, per strada, proprio sotto le nostre finestre, ci fu un piccolo avvenimento: due passanti che si azzuffarono. Gli avventori del ristorante si precipitarono alle finestre; anch’io e anche la persona di cui parlo. Scambiai con lui una frase banale, ed egli mi rispose con una frase simile. La sua voce era opaca e tremula come quella delle persone che non sperano in niente perché conoscono la perfetta inutilità della speranza. Ma forse era assurdo dare tanta importanza al mio serale compagno di ristorante.
Non so perché, da quel giorno cominciammo a salutarci. Finché una volta, resi forse solidali dall’insolita coincidenza di cenare entrambi alle nove e mezzo, avviammo una conversazione di circostanza. Ad un certo momento egli mi chiese se io scrivessi. Gli risposi di si. Gli parlai della rivista “Orpheu” uscita di recente. Egli la elogiò con generosità, e allora io mi stupii sinceramente. Mi permisi di manifestargli il mio stupore, perché l’arte di coloro che scrivono su “Orpheu” suole essere riservata a pochi. Ma egli rispose che forse era uno di quei pochi; e poi aggiunse che una tale arte non gli diceva, in verità, alcunché di nuovo: e poi timidamente mi confidò che, non avendo molte cose da fare né dove andare, né amici cui poter far visita, né passione per la lettura, era solito passare le serate, nella sua stanza d’affitto, scrivendo anche lui.


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Ah, ho capito! Il signor Vasques è la Vita. La Vita, monotona e imprescindibile, legiferante e sconosciuta. Quest’uomo banale rappresenta la banalità della Vita. Egli, all’esterno, è tutto per me, perché la Vita per me è tutta all’esterno.
E se l’ufficio di Rua dos Douradores per me rappresenta la Vita, questo secondo piano dove alloggio, nella stessa Rua dos Douradores, rappresenta per me l’Arte. Si, l’Arte che alloggia nella stessa strada della Vita, però in un luogo diverso; l’Arte che allevia dalla Vita senza alleviare dal vivere, e che è tanto monotona quanto la vita, ma soltanto in un luogo diverso. Si, questa Rua dos Douradores abbraccia per me l’intero senso delle cose, la soluzione di tutti gli enigmi, posto che esistano enigmi; fatto, questo, che non può avere soluzione.

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Invidio – ma non so se è invidia – coloro dei quali si può scrivere una biografia, o che possono scrivere la propria. In questi miei appunti sconnessi, e che non ambiscono ad avere un nesso, racconto con indifferenza la mia autobiografia priva di avvenimenti, la mia storia priva di vita. Sono le mie confessioni, e se in esse non dico niente è perché non ho niente da dire.
Che cosa c’è da confessare che valga la pena o che sia utile? Quello che è successo a noi, o è successo a tutti o esclusivamente a noi; nel primo caso non è una novità e nel secondo caso non è una cosa che si possa capire. Se scrivo ciò che sento è perché così facendo abbasso la febbre di sentire. Quello che confesso non ha importanza perché niente ha importanza. Con ciò che sento costruisco dei paesaggi. Fabbrico delle vacanze con le sensazioni. Mi è facile capire le ricamatrici che ricamano per pena e coloro che fanno la calza perché esiste la vita. La mia vecchia zia faceva dei solitari durante l’infinito delle sere di veglia. Queste confessioni del sentire sono i miei solitari. Non li interpreto come chi interroga le carte per conoscere il destino. Non le scruto perché nei solitari le carte non hanno un valore preciso. Mi srotolo come una matassa multicolore oppure invento con me stesso delle figure di spago come quelle che fra bambini si tessono con le dita aperte e si passano da un bambino all’altro. L’unica cosa che mi sta a cuore è che il pollice non sbagli il laccio che gli spetta. Poi giro la mano e l’immagine cambia. E io ricomincio.

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Una delle mie preoccupazioni costanti è capire com’è che esista altra gente, com’è che esistano anime che non sono la mia anima, coscienze estranee alla mia coscienza; la quale, proprio perché è coscienza, mi sembra essere l’unica possibile. Capisco che colui che sta di fronte a me e che mi parla con parole uguali alle mie, o fa dei gesti analoghi a quelli che io faccio o potrei fare, sia in qualche modo un mio simile. Eppure mi succede la stessa cosa con le figure delle illustrazioni che sogno, con i personaggi di romanzo che leggo, con le persone da dramma che si avvicendano sul palcoscenico attraverso gli attori che le interpretano.
Credo che nessuno ammetta davvero la reale esistenza di un’altra persona. Può ammettere che tale persona sia viva, che pensi e senta come lui: eppure ci sarà sempre un ineffabile elemento di differenza, uno scarto materializzato.
Ci sono figure di altri tempi, immagini-fantasmi di libri che sono per noi realtà maggiori di certe insignificanze incarnate che parlano con noi dal terrazzo o che ci guardano casualmente sul tram, o che ci sfiorano passando nel caos morto delle strade. Gli altri non sono per noi altro che paesaggio e, quasi sempre, il paesaggio invisibile di una strada nota.
Considero mie, con maggiore consanguineità e intimità, talune figure che sono scritte nei libri, certe immagini che ho conosciuto nelle illustrazioni, più di molte persone che sono considerate reali, che sono fatte di quell’inutilità metafisica chiamata carne ed ossa. E “carne ed ossa”, infatti, è una perfetta descrizione: sembrano cose fatte a pezzi ed esposte sul banco di marmo di una macelleria, morti che sanguinano come la vita, gambe e cotolette del Destino.

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Quando sono sdraiato nella mia poltrona e solo un tenue filo mi lega alla vita, con quale chiarezza descrivo nella mia riflessione, dettandoli all’inerzia, i paesaggi che non potrò mai narrare e le frasi che non scriverò mai! Scandisco periodi interi, perfetti in ogni loro parola; ascolto trame di drammi che esistono nella mia immaginazione; seguo verso per verso la scansione ritmica di interi poemi; e un grande […] come uno schiavo invisibile mi segue nella penombra. Ma se mi muovo dalla poltrona dove alimento queste sensazioni quasi perfette e mi siedo al tavolo per scriverle, le parole svaniscono, e i drammi si interrompono; e di quel nesso vitale che univa il mormorio del ritmo, resta soltanto una remota nostalgia, una traccia di sole su monti lontani, un vento che fa mulinellare le foglie su una soglia deserta, una parentela mai rivelata, i piaceri degli altri, la donna che speravamo ci avrebbe rivolto il suo sguardo e che invece non esiste.
Ho avuto tutti i progetti possibili. L’Iliade che ho composto possedeva la logica di un’ispirazione e una successione ferrea di episodi sconosciuti a Omero. Al confronto con la studiata perfezione dei miei versi inesistenti l’esattezza di Virgilio è povera e la forza di Milton è fiacca. Le mie allegorie satiriche sono superiori a Swift per precisione simbolica e per la perfezione dei dettagli. E quanti Orazi sono stato!
Ma ogni volta che mi alzo dalla poltrona dove queste cose ebbero un’esistenza che non è solo l’esistenza del sogno, provo la duplice tragedia di sapere che non esistono e che non sono state solo un sogno: che qualcosa di esse sopravvive sulla soglia astratta del mio averle pensate e del loro essere state.
Sono stato un genio in qualcosa di più che nel sogno e in qualcosa di meno che nella vita. La mia tragedia è questa: essere l’atleta che è caduto un attimo prima del filo di lana, mentre guidava la corsa.

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Ho creato in me varie personalità. Creo costantemente personalità. Ogni mio sogno, appena lo comincio a sognare, è incarnato in un’altra persona che inizia a sognarlo, e non sono io.
Per creare, mi sono distrutto; mi sono così esteriorizzato dentro di me che dentro di me non esisto se non esteriormente. Sono la scena viva sulla quale passano svariati attori che recitano svariati drammi.

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La normalità è un focolare, la quotidianità è materna. Dopo una vasta incursione negli spazi della poesia, sulle vette dell’ispirazione sublime, sui picchi della trascendenza e dell’occulto, è confortante, e ha il sapore delle cose che nella vita danno calore, ritornare alla locanda dove felici ridono gli stolti, bere con essi, stolto anch’io, come Dio ci ha fatto, contento dell’universo che ci è stato dato, e lasciare il resto a coloro che scalano montagne per non fare niente sulla vetta.

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Quando riesco a concludere qualcosa provo sempre stupore. Stupore e afflizione. Il mio istinto di perfezionismo dovrebbe inibirmi dal concludere; dovrebbe inibirmi perfino di cominciare. Ma mi distraggo e lavoro. Ciò che ottengo è il prodotto non di un’applicazione della volontà, ma di un suo cedimento. Comincio perché non ho la forza per pensare; concludo perché non ho coraggio di fermarmi. Questo libro è la mia codardia.
Il motivo per cui tante volte interrompo un pensiero con un brano di paesaggio che in qualche modo si inserisce nello schema, reale o ipotetico, delle mie impressioni, è che quel paesaggio è una porta attraverso la quale sfuggo alla conoscenza della mia impotenza creatrice. Sento la necessità, fra le conversazioni con me stesso che formano le parole di questo libro, di parlare all’improvviso con qualcun altro, e mi rivolgo alla luce che, come in questo momento, si libra sui tetti delle case che sembrano bagnati perché sono illuminati obliquamente; allo stormire blando degli alberi alti sui colli della città, che sembrano vicini, in una possibilità di crollo muto; ai manifesti sovrapposti delle case ripide, con finestre come lettere dove il sole morto fa ingiallire la colla umida.
Perché scrivo, se non scrivo meglio? Ma cosa ne sarebbe di me se non scrivessi ciò che riesco a scrivere per quanto nello scrivere io sia inferiore a me stesso? Sono un plebeo dell’aspirazione perché cerco di realizzare; non oso il silenzio, come chi teme una stanza buia. Sono come coloro che apprezzano più la medaglia che la fatica, e assaporano la gloria attraverso la pelliccia di ermellino.
Per me scrivere è disprezzarmi; ma non posso smettere di scrivere. Scrivere è come una droga che odio e che prendo, il vizio che disprezzo e in cui vivo. Ci sono veleni necessari, e ce ne sono di sottilissimi composti di ingredienti dell’anima; erbe colte nei canti delle rovine dei sogni, papaveri neri trovati vicino alle tombe, lunghe foglie di alberi osceni che agitano i loro rami sulle rive sentite dei fiumi infernali dell’anima.
Si, scrivere significa perdermi, ma tutti si perdono, perché tutto è perdita. Però io mi perdo senza allegria, non come il fiume nella foce alla quale nacque ignaro, ma come la pozzanghera creata sulla spiaggia dall’alta marea, e la cui acqua, inghiottita dalla sabbia, non tornerà più al mare.

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Alcuni dicono che senza speranza la vita è impossibile, altri dicono che con la speranza la vita è vuota. Per me, che oggi non spero e non dispero, essa è un semplice quadro esterno che include me e al quale assisto come a uno spettacolo privo di intreccio, fatto solo per intrattenere gli occhi: balletto senza nesso, un muoversi di foglie al vento, nuvole dove la luce del sole cambia colore, antiche aperture di vie, a casaccio, in opposti punti della città.
Sono, in gran parte, la prosa che scrivo. Mi snodo in periodi e paragrafi, mi trasformo in punteggiatura e, nella sfrenata disposizione delle immagini, come i bambini mi maschero da re con carta di giornale; oppure, ritmando una successione di parole, mi acconcio come i pazzi con fiori secchi che sono freschi solo nei miei sogni. E, soprattutto, sono tranquillo come un pupazzo di segatura che acquisendo consapevolezza di se stesso scuote ogni tanto la testa affinché il sonaglio in cima al berretto a punta (parte integrante della stessa testa) faccia suonare qualcosa: vita tintinnante del morto, minimo avviso al Destino.

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Nella mia anima ignobile e profonda registro, giorno per giorno, le impressioni che costituiscono la sostanza esterna della mia consapevolezza di me. Le traduco in parole vagabonde che mi disertano nel momento in cui le scrivo e che vagano, indipendenti da me, per pendii e prati di immagini, per viali di concetti, per sentieri di confusioni. E questo non mi serve a nulla, perché niente mi serve a nulla. Ma mi libero dalla preoccupazione scrivendo, come uno che respira meglio anche se la malattia non è passata.
Ci sono persone che distraendosi tracciano righe e nomi assurdi sulla carta assorbente dagli angoli arricciati. Queste pagine sono gli scarabocchi della mia inconsapevolezza intellettuale di me. Le traccio nel sopore del sentirmi, come un gatto al sole, e le rileggo a volte con un vago stupore tardo, come se mi fossi ricordato di qualcosa che avevo sempre dimenticato.
Quando scrivo mi visito solennemente. Ho delle sale speciali, ricordate da altri in interstizi della raffigurazione, dove mi diletto ad analizzare ciò che non sento e mi esamino come un quadro nell’ombra.

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(360) 15.5.1930
Una volta mi irritavano certe cose che oggi mi fanno sorridere. E una in specie, di cui quasi ogni giorno mi ricordo, è l’insistenza con la quale gli uomini comuni e dalla vita alacre sorridono dei poeti e degli artisti. Non lo fanno sempre, come credono certi filosofi di giornale, con un’aria di superiorità. Molte volte sorridono con bonomia. Ma sempre come chi vezzeggia un bambino, una creatura che ignora la concretezza e l’esattezza della vita.
Un tempo mi irritavo perché supponevo, da quel buon ingenuo che ero, che quel sorriso rivolto al rovello del sognare e dello scrivere fosse la manifestazione di un intimo senso di superiorità. Invece è soltanto il rumore di una diversità. E se una volta prendevo quel sorriso come un’offesa, perché presupponeva una superiorità, oggi mi appare come un dubbio inconsapevole; così come gli uomini adulti riconoscono nei bambini un’acutezza di spirito superiore alla loro, similmente riconoscono a noi che sognamo ed esprimiamo i sogni un qualcosa di diverso di cui essi diffidano perché lo sentono estraneo. Voglio credere che spesso i più intelligenti riconoscano in cuor loro la nostra superiorità; e così sorridono con superiorità, per nascondere che la riconoscono.
Ma la nostra superiorità non consiste in quello che tanti sognatori hanno considerato la loro superiorità. Il sognatore non è superiore all’uomo pratico perché il sogno è superiore alla realtà. La superiorità del sognatore consiste nel fatto che sognare è molto più pratico che vivere, e nel fatto che il sognatore trae dalla vita un piacere assai più ampio e più vario dell’uomo di azione. In parole più concrete e dirette: il vero uomo di azione è il sognatore.

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Il governo del mondo comincia in noi stessi. Non sono le persone sincere che governano il mondo, ma neppure le persone insincere. Sono coloro che fabbricano in se stessi una sincerità reale con mezzi artificiali e automatici; quella sincerità costituisce la loro forza ed essa brilla nei confronti della sincerità meno falsa degli altri. Saper illudersi bene è la prima qualità di uno statista. Solo ai poeti e ai filosofi compete la visione pratica del mondo, perché soltanto a costoro è concesso di non avere illusioni. Vedere con chiarezza è non agire.

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Se un giorno avrò la possibilità, grazie a una vita salda e sicura, di poter liberamente scrivere e pubblicare, so che avrò nostalgia di questa vita incerta in cui mi accontento di scrivere senza pubblicare. Avrò nostalgia, non soltanto perché quella vita logora sarà passata e non l’avrò mai più, ma perché qualsiasi tipo di vita ha una qualità specifica e un piacere peculiare, e quando si vive una vita diversa, anche se migliore, quel peculiare piacere è meno felice, quella specifica qualità è meno buona: cessano di esistere, e c’è una mancanza.

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Tutto mi evapora. L’intera mia vita, i miei ricordi, la mia immaginazione e ciò che essa contiene, la mia personalità: tutto mi si evapora. Continuamente sento che sono stato altro, che ho sentito altro, che ho pensato altro. Le cose alle quali assisto sono uno spettacolo con un altro scenario. E ciò a cui assisto sono io.
A volte trovo, fra la consueta confusione dei miei cassetti letterari, fogli che scrissi dieci anni o quindici anni fa, o forse da più tempo ancora. E molti di essi mi sembrano di un estraneo; non vi riconosco me stesso. Ci fu chi li scrisse, e sono stato io. Io lo sentii, ma come in un’altra vita dalla quale mi sia svegliato ora come dal sogno di un altro.
Spesso mi succede di trovare cose che scrissi nella prima giovinezza: quando avevo diciassette, venti anni. Alcune di queste carte hanno una capacità espressiva che non ricordo di aver avuto in quel momento della vita. In certe frasi, in molti momenti di cose scritte sulla soglia della mia adolescenza ci sono cose che sembrano un prodotto di colui che esattamente sono ora, educato dagli anni e dalle cose. Riconosco di essere lo stesso che ero. E, avendo sentito che oggi ho fatto un grande cambiamento rispetto a ciò che fui, mi domando dov’è il cambiamento, se io ero allora lo stesso di oggi.
In tutto questo c’è un mistero che mi avvilisce e mi opprime.

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Oggi, in un intervallo del sentire, ho meditato sulla forma di prosa che mi è propria. Insomma, come scrivo io? Ho avuto, come l’hanno avuto molti, il desiderio perverso di usare un sistema e una norma. Naturalmente ho scritto prima di avere una norma e un sistema; in ciò però non sono diverso dagli altri.
La sera, esaminando me stesso, mi accorgo che il mio sistema stilistico poggia su due principi; e subito, alla maniera dei classici, erigo quei due principi a fondamenta generali di ogni stile: dire ciò che si sente esattamente come lo si sente (in modo chiaro se è chiaro; in modo oscuro se è oscuro; in modo confuso se è confuso); capire che la grammatica è uno strumento e non una legge.

Obbedisca alla grammatica colui che non sa pensare ciò che sente. Se ne serva chi sa comandare le sue impressioni. Si racconta che Sigismondo, re di Roma, avendo commesso un errore di grammatica in un discorso pubblico, replicò in questi termini a chi glielo fece osservare: “Sono il re di Roma e sono superiore alla grammatica.” E la storia narra che egli diventò noto come Sigismondo “Super-grammaticam”. Meraviglioso simbolo! Ogni uomo che sa dire ciò che dice è, a suo modo, re di Roma. Non è male come titolo, e l’importante è esserlo.

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Mi piace dire. Dirò meglio: mi piace parolare. Le parole sono per me corpi toccabili, sirene visibili, sensualità incorporate. Forse perché la sensualità reale non ha per me interesse di nessuna specie – neppure mentale o di sogno, il desiderio mi si è trasferito in ciò che mi crea ritmi verbali o li ascolta da altri. Rabbrividisco se qualcuno parla bene. Una certa pagina di Fialho, una certa pagina di Chateaubriand fanno formicolare tutta la mia vita in tutte le mie vene, mi rendono furioso, con una nervosa quiete, di un piacere irraggiungibile che sto avendo. Di più: certe pagine di Vieira, nella loro fredda perfezione di ingegneria sintattica, mi fanno tremare come un ramo al vento in un delirio passivo di cosa mossa.
Come tutti i grandi amanti, amo la delizia della perdita di me stesso, nella quale si patisce interamente il godimento del darsi. E così, spesso scrivo senza voler pensare, in un vaneggiamento esterno, lasciando che le parole mi accarezzino, bambino piccolo in braccio a loro. Sono frasi senza senso che scorrono morbide, in una fluidità di acqua sentita, oblio di fiume ove le onde si misurano e si indefiniscono, diventando sempre altre, succedendo a se stesse. Così le idee, le immagini, tremule di espressione, sfilano davanti a me in sonori cortei di sete profumate, dove un chiardiluna di idea riluce, macchiato e confuso.
Non piango per nessuna cosa che la vita porti o rapisca. Invece ci sono pagine di prosa che mi hanno fatto piangere. Mi ricordo, come se lo vedessi, la sera in cui, da bambino, lessi per la prima volta in un’antologia il celebre passo di Vieira sopra re Salomone: “… Eresse un palazzo…” E lessi fino alla fine, tremante, confuso; poi scoppiai in lacrime felici, come nessuna felicità reale mi farà piangere, come nessuna tristezza della vita mi farà imitare. Quel movimento ieratico della nostra chiara lingua maestosa, quell’esprimersi delle idee in parole inevitabili – scorrere di acqua perché esiste declivio, quello stupore vocalico in cui i suoni sono colori ideali: tutto mi offuscò per istinto come una grande emozione politica. E, l’ho detto, piansi; oggi, ripensandoci, piango ancora. Non è, no, la nostalgia dell’infanzia, della quale non ho nostalgia; è la nostalgia dell’emozione di quel momento, il rimpianto di non poter più leggere per la prima volta quella grande certezza sinfonica.
Non ho alcun sentimento politico o sociale. Eppure ho, in un certo senso, un alto sentimento patriottico. La mia patria è la lingua portoghese. Non m’importerebbe niente se invadessero od occupassero il Portogallo, a condizione che non mi disturbassero personalmente. Ma odio, con un odio vero, con l’unico odio che sento, non chi scrive male il portoghese, non chi non sa la sintassi, non chi scrive con un’ortografia semplificata, ma la pagina scritta male, come se fosse una persona vera; la sintassi sbagliata come se fosse qualcuno da picchiare; l’ortografia senza ipsilon, come uno sputo diretto che mi fa schifo indipendentemente da chi sputa.
Si, perché anche l’ortografia è una persona. La parola è completa se vista e sentita. E la gala della traslitterazione greco-romana me la veste con suo vero manto regio, per il quale è signora e regina.

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Scrivere è dimenticare. La letteratura è il modo più piacevole di ignorare la vita. La musica culla, le arti visive animano, le arti vive (come la danza e il teatro) intrattengono. La prima, però, si allontana dalla vita perché fa di essa un sonno; le seconde, tuttavia, non si allontanano dalla vita: alcune perché utilizzano formule visibili e dunque vitali, altre perché vivono della stessa vita umana.
Non è questo il caso della letteratura. Essa simula la vita. Un romanzo è una storia di ciò che non è mai stato, e un dramma è un romanzo senza narrativa. Una poesia è l’espressione di idee o di sentimenti in un linguaggio che nessuno utilizza poiché nessuno parla in verso.

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Tutta la letteratura consiste in uno sforzo per rendere la vita reale. Come tutti sanno, anche quando agiscono senza sapere, la vita è assolutamente irreale nella sua realtà diretta; i campi, le città, le idee sono cose assolutamente fittizie, figlie della nostra complessa sensazione di noi stessi. Ogni impressione è intrasmissibile, se non la rendiamo letteraria. I bambini sono molto letterari perché dicono in che modo sentono e non in che modo deve sentire colui che sente secondo un’altra persona. Un bambino che ho sentito una volta, volendo dire che era sul punto di piangere, non ha detto “Ho voglia di piangere”, come direbbe un adulto, cioè uno stupido, ma “Ho voglia di lacrime”. E questa frase, assolutamente letteraria, al punto che sembrerebbe manierata se la dicesse un poeta celebre, riferisce risolutamente la presenza calda delle lacrime che cadono dalle palpebre coscienti dell’amarezza liquida. “Ho voglia di lacrime!” Quel bambino piccolo ha definito bene la sua spirale.
Dire! Saper dire! Saper esistere attraverso la voce scritta e l’immagine intellettuale! Tutto questo è quanto vale la vita: il resto sono uomini e donne, amori immaginari e vanità fittizie, sotterfugi della digestione e dell’oblio, persone che si dimenano come animaletti quando si alza una pietra, sotto il grande pietrone astratto del cielo azzurro senza senso.



Nota: il primo numero che precede ogni brano indica l’ordine scelto dai curatori dell’edizione italiana, mentre il numero tra parentesi indica l’ordine che tali brani hanno nell’edizione portoghese del Livro do Desassossego del 1982
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(Tratto da Il libro dell’inquietudine, Feltrinelli, 1986, traduzione di Maria José de Lancastre e Antonio Tabucchi.)



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