Luglio-Agosto 1949


Georg H. Hodos



In un certo senso li aspettavo, quando vennero a prendermi a casa il 6 Luglio 1949 all'una di notte. Da settimane i miei amici sparivano uno dopo l'altro, a intervalli di due o tre giorni. L'intero "gruppo svizzero" sembrava essere coinvolto. In verità ero piú che altro sollevato: la tensione si sciolse, finalmente avrei saputo cosa stava accadendo.
Il 16 Giugno sul Szabad Nép, l'organo ufficiale del partito comunista, era apparsa una breve comunicazione dal titolo "Delibera del Comitato Centrale e della Commissione Centrale di Controllo del Partito dei Lavoratori Ungheresi" sullo smascheramento di un gruppo di spie trockiste: "Il Comitato Centrale ha espulso dalle file del partito Lászlo Rajk e Tibor Szönyi in quanto spie al soldo di potenze imperialiste e agenti trockisti". Tre giorni dopo sul medesimo foglio lessi una comunicazione dell'ufficio-stampa del Ministero agli Interni: "Il servizio di sicurezza ha tratto in arresto Lászlo Rajk, Tibor Szönyi, Pál Justus e altri diciassette complici, con l'accusa di spionaggio al servizio di potenze straniere. Tra gli arrestati non vi è alcun operaio o contadino".
Ci capivo sempre meno. Rajk non lo conoscevo di persona, però Szönyi, il responsabile dei quadri a cui mi legava un'amicizia risalente alla nostra emigrazione svizzera, oppure Földi, Kálmán, Vági, Demeter e sua moglie, tutti buoni compagni sulla cui fedeltà al partito avrei messo la mano nel fuoco. Non potevano assolutamente essere dei traditori.
E ora toccava a me. Mi erano venuti a prendere sicuramente per avere delle informazioni. Avevano bisogno del mio aiuto per chiarire l'equivoco. Non avevo paura. I buoni comunisti non hanno nulla da temere dalla ÁVH, il servizio di sicurezza era il pugno di ferro della democrazia popolare, ma colpiva solo i nemici. Arrivarono in quattro, mostrarono i documenti e mi ordinarono di vestirmi. Io ero molto tranquillo e sicuro di me. In soggiorno si trovava un vassoio pieno di ciliegie - "compagni, favorite pure intanto che mi preparo", ma essi mi guardarono in silenzio, meravigliati. Avrei dovuto prendere il maglione, sosteneva Marta, pallida come un cencio e tremante in tutto il corpo. Perché mai, risposi io, fa caldo e l'indomani sarei stato di nuovo a casa.
Presi settanta centesimi dal portafogli, il tanto che bastava per tornare a casa con il tram, baciai mia moglie e uscii accompagnato da due uomini dell'ÁVH. Gli altri due agenti in borghese restarono a casa, dove il tutto continuò in maniera meno pacifica. Abbassarono le gelosie, accesero tutte le luci e cominciarono la perquisizione. Lettere e documenti sparirono in una valigia che si erano portati dietro, i materassi vennero rivoltati e mia figlia di due anni venne strappata via dalla sua stanza. Perfino la mia stilografica Montblanc sarebbe sparita, se mia moglie non l'avesse strappata a uno degli agenti. Marta aveva sempre nutrito dei dubbi sulla probità morale del comunismo e sulla giustizia del suo pugno di ferro. Che fosse una piccolo-borghese mi avevano messo in guardia a suo tempo già i compagni in Svizzera.
Il "gruppo svizzero" era composto da giovani ungheresi che allo scoppio della guerra studiavano alle università di Zurigo e Ginevra, una dozzina di idealisti di primo pelo d'estrazione borghese. Il nostro mondo in bianco e nero era nitido e trasparente, grazie all'onnicomprensiva teoria del marxismo-leninismo. Non dubitavamo un secondo che dopo la sconfitta di Hitler sarebbe iniziata sulle macerie del regime di Horthy la paradisiaca epopea del socialismo. Stalin era per noi il buon padre di tutti gli uomini, che bacia i bambini e accarezza la testa dei dannati di questa terra.
La neutralità della Svizzera e la sua isolatezza nel mezzo dell'Europa sanguinante e soggiogata da Hitler era uno dei motivi per cui potemmo conservare la nostra innocenza politica. Il Partito Comunista Svizzero venne sí proibito nel 1940 e la polizia per stranieri vietava ai profughi qualunque attività politica, ma sapevamo che nel caso fossimo stati scoperti non saremmo stati reimpatriati né avevamo da temere i campi di concentramento o gli squadroni della morte della Gestapo, bensí nel peggiore dei casi solo il confino in un campo di lavoro svizzero.

Cos'è il socialismo? Per noi non era lo studio della prassi nell'Unione Sovietica, quanto il titolo di un libricino del comunista austriaco Ernst Fischer. Il lavoro di partito non prescriveva la partecipazione al movimento clandestino a rischio della vita, quando un passo falso, una parola di troppo, un contatto scelto con leggerezza potevano significare la tortura o la morte, bensí si identificava con la bella teoria di Marx, Engels, Lenin e Stalin, che potevamo studiare in tutta tranquillità. Le nostre cospirazioni avevano il sapore di eccitanti giochi di indiani per bambini. La mancanza di contatti con il mondo esterno foderava i movimenti antifascisti in esilio in un'aura dottrinaria, astratta e irreale, che infondeva nei partecipanti un messianico senso di superorità della propria esistenza, insieme alla convinzione di poter superare indenni il bagno di sangue in quanto truppa di riserva dell'esercito mondiale.
Allo scoppio della guerra in Svizzera non esisteva alcun gruppo organizzato di Ungheresi. Nonostante ciò gli emigranti e gli studenti di sinistra si trovarono molto in fretta. Le notti venivano trascorse in infinite discussioni, i libri e gli opuscoli divorati voracemente, ogni segnale di vittoria della Wehrmacht, ogni espansione del terrore hiitleriano aveva l'effetto di stringerci insieme ancor piú strettamente.
Sempre piú urgente diventava anche la nostra voglia di fare qualcosa, di partecipare attivamente alla lotta contro Hitler. Come potevamo essere d'aiuto, a chi potevamo rivolgerci? Le persone che avevano bisogno di noi ci trovarono ben presto. Ferenc Vági si era avvicinato al movimento comunista già durante le scuole medie a Budapest. Dato che non venne ammesso all'università era emigrato in Svizzera, dove si era iscritto a chimica a Zurigo. Era entrato in un gruppo studentesco di sinistra e nel 1937 venne ammesso nel Partito Comunista Svizzero. Dopo la messa al bando del partito, partecipò alla rivista "Der Kämpfer" (Il combattente), che usciva illegalmente. Dopo solo quattro numeri la redazione venne scoperta e Vági espulso dall'università. Trascorse piú di un anno nel carcere di Witzwill. Ai nostri occhi era un martire del socialismo.
Con ancor maggiore ammirazione guardavamo ad András Kálmán, il quale era diventato comunista durante gli studi di medicina all'università di Budapest. Nel 1936 il giovane medico fece rotta verso la Spagna per combattere contro Franco nelle Brigate Internazionali. Dopo la caduta della Repubblica riuscí ad arrivare in Francia, venne internato in un campo insieme ad altri "spagnoli", ma riuscí a scappare e a raggiungere la Svizzera. La sua personalità calda e serena, il suo sorriso contagioso e giovanile erano il contraltare all'ascetico e freddo intellettuale Vági.
Tibor Szönyi era per noi un semidio, una leggenda dei tempi eroici della Repubblica dei Consigli ungherese del 1919. Durante l'emigrazione svizzera era stato dapprima uno dei massimi dirigenti dell'esilio austriaco. Nel 1942 il partito svizzero gli affidò il compito di organizzare un gruppo di esiliati ungheresi. Szönyi fece di noi un'organizzazione politicamente attiva secondo le regole della cospirazione, convertendo simpatizzanti e compagni di strada in comunisti appassionati.
Cominciammo un'opera di propaganda tra gli emigranti ungheresi per preparare una svolta democratica in Ungheria, pubblicavamo una rivista clandestina che informava sulle effettive condizioni nel nostro oppresso paese, infine costituivamo lo zoccolo duro di quel che noi stessi avevamo battezzato Fronte d'Indipendenza Nazionale, che fungeva da bacino di raccolta per tutti gli Ungheresi che erano contro la guerra e contro Hitler.
Allo sguardo di oggi non è difficile riconoscere che le nostre attività di allora, che ci sembravano cosí esistenzialmente eroiche, non ottennero alcun risultato storico degno di questo appellativo. Il nostro maggiore contributo divenne pienamente visibile solo a guerra conclusa: assicurammo al Partito Comunista Ungherese e alla giovane Democrazia Popolare un pugno di quadri disciplinati, idealisti e ben istruiti. Quattro anni dopo il nostro ritorno, il riconoscente partito ci arrestò tutti e impiccò i nostri due capi Szönyi e Vági. Il terzo, Kólmán, si impiccò da solo in carcere, prima che venisse coinvolto nella variante ungherese del "processo ai camici" di Mosca.
A Zurigo entrai in contatto con gli studenti ungheresi di sinistra nel 1941. Ancora oggi molti mi domandano, soprattutto coloro che non hanno vissuto di persona l'ascesa dell'hitlerismo in Europa, come il rampollo di una benestante famiglia di uomini d'affari ebrei sia potuto diventare comunista. Senza dubbio ciò ha molto a che vedere con l'antisemitismo, che sotto l'influenza di Hitler assumeva durante la mia giovinezza forme sempre piú minacciose. Le umiliazioni, gli schiaffi e i calcioni dei fascisti a scuola o nel parco accelerarono la mia inclinazione verso il radicalismo di sinistra, tuttavia è probabile che sarei approdato alle idee socialiste anche senza quei pungoli. Un'inclinazione all'impegno politico e il desiderio romantico di sollevare l'umanità intera dalla miseria sembrano risiedere nel mio carattere e in quello della mia famiglia. Mio padre, un uomo sensibile e colto, appartenne in gioventú al circolo radicale di sinistra Galilei; da parte di madre, la famiglia Bródy ha dato la luce a due scrittori liberali, mentre uno zio scriveva durante la Rivoluzione del 1918 in un giornale socialista, prima di dover cercare scampo a Vienna al terrore bianco. A soli quattordici anni manifestavo già nel cosiddetto "Fronte di Marzo" degli scrittori contadini, per la riforma agraria e un'esistenza piú umana per i "tre milioni di mendicanti", il proletariato agricolo privo di terra. A quindici sognavo di combattere in Spagna nelle Brigate Internazionali. Un anno piú tardi entrai nella federazione giovanile del Partito Socialdemocratico, distribuivo opuscoli, divoravo la letteratura del partito ed ero orgoglioso di sfidare la reazione portando all'occhiello il simbolo della socialdemocrazia, l'operaio che solleva al cielo il martello. Dopo la maturità, per via delle nuove leggi antisemite, mi era praticamente impossibile avere accesso a un'università ungherese. Nel Luglio del 1939 decisi di partire per la Svizzera (con i "Fondamenti del marxismo" di Karl Kautsky ben nascosti nella valigia), dove mi iscrissi alla facoltà di filosofia dell'università di Zurigo. Dalla Svizzera scrivevo articoli per l'organo ufficiale del Partito Socialdemocratico Ungherese "Népszava". Per alcuni mesi vennero anche pubblicati, finché la redazione non mi comunicò che il mio tono era troppo radicale e non teneva conto della delicata situazione del partito ungherese. Ma io allora non volevo e non potevo assumere un tono piú moderato, per cui entrai nella Federazione Giovanile Socialdemocratica Svizzera, che era molto piú a sinistra dell'omonima ungherese. Lí incontrai tra gli altri Mira Munkh, una psicologa che era stata espulsa dal Partito Comunista Tedesco per "deviazionismo trockista". Nei suoi seminari cercavamo una terza via tra il riformismo socialdemocratico e il settarismo comunista. Poco piú tardi incontrai nella mensa dell'università Ferenc Vági, con cui strinsi subito amicizia. Discutevamo a nottate intere sul trockismo e sulla corretta interpretazione del marxismo. Vági era un brillante oratore e non gli ci volle molto per convertirmi al comunismo. Ricordo in modo particolarmente vivido una discussione sui processi trockisti in Unione Sovietica. Non contano tanto i singoli fatti, mi istruiva Vági con un esempio: il vecchio bolscevico Pjetakov aveva confessato durante il suo processo di essere volato da Berlino a Oslo il 12 Dicembre 1935 per incontrarsi con Trockij in un albergo. In quell'occasione i due avrebbero partorito il progetto di abbattere il sistema sovietico con l'appoggio dei nazisti. Venne fuori poi che quel giorno non vi fu alcun volo civile tra Berlino e Oslo e che né Trockij né Pjetakov avevano mai soggiornato in quell'albergo. Ma ciò non fa differenza, mi spiegò Vági, perché quel che conta è la verità storica, il ruolo dei trockisti che con la caduta di Stalin perseguivano obiettivamente il crollo dell'Unione Sovietica, facendo in tal modo il gioco dei fascisti. Alcuni dettagli saranno stati anche falsi, i processi in sé erano però assolutamente giustificati. Chissà cosa ne avrà pensato Vági nove anni piú tardi, quando si trovò a sua volta sul patibolo. (...)
Nella solitudine della cella d'isolamento del carcere preventivo, i miei pensieri erano assolutamente paralizzati. In via Márkos, Vietoris e Reismann avevano insinuato i primi germi del dubbio nella mia fede cieca nel partito, ma non l'avevano scossa definitivamente. Restavo attaccato alla mia fede come un naufrago al salvagente. Nel carcere di Vás tuttavia non vi era piú alcun salvagente. Sapevo ora di essere stato ingannato e usato. Durante le conversazioni sussurrate con i compagni di prigionia nel braccio d'isolamento - parlavamo tedesco svizzero nel caso qualcuno origliasse - cercavo per la prima volta di analizzare lucidamente quel che ci stava accadendo. Intendevo "svelare l'abominevole congiura", non quella inventata, bensí quella del partito che sacrificava deliberatamente i suoi figli a una menzogna. Chiamavamo il nostro reparto d'isolamento la "fossa di Attila", la tomba del re degli Unni che non venne mai ritrovata perché i seppellitori vennero trucidati al fine di serbare il segreto. Il nostro destino fino a quel momento inafferabile cominciò ad assumere contorni definiti, il significato di verità e menzogna, di bene e male, iniziò a prendere forma. Nonostante ciò ci assalivano continuamente dei dubbi: l'abnormità era di dimensioni tali che non poteva essere accettata appieno. Doveva esserci certo qualcosa di vero: noi eravamo sí pesci piccoli caduti per sbaglio nella rete, ma Rajk e Szönyi, membri del Politburo e del Comitato Centrale, non potevano essere stati certo impiccati senza alcun motivo!
Solo nel collettivo della cella n. 69 si dipanarono anche gli ultimi dubbi. Eravamo rappresentanti scelti della "purga": "occidentali" dell'emigrazione svizzera, francese e inglese; "Iugoslavi" che avevano combattuto con i partigiani di Tito; interbrigatisti che dopo la caduta della repubblica spagnola avevano trovato scampo in Unione Sovietica; testimoni dell'accusa nei processi pubblici con la funzione di dimostrare la colpevolezza degli imputati principali. Ora le conclusioni diventavano inevitabili: la totalità delle deposizioni era un mucchio di falsità estorte con la tortura. Non gli impiccati e i carcerati erano i criminali, bensí gli ispiratori dei processi pubblici, ovvero Stalin e i suoi accoliti ungheresi. La "purga" non era un errore, e nemmeno un abuso di potere da parte di agenti dell'ÁVH troppo zelanti, bensí - né piú né meno - politica comunista.
Il processo scoprí come un intervento chirurgico le interiora del sistema, il nocciolo rivestito dalla sottile pellicola di un'ideologia falsa e malleabile. La nostra fede fanatica aveva resistito alla tortura - ora però crollava sotto la prova collettiva della nostra innocenza. Nell'inferno della prigionia riconquistammo la libertà di pensiero. La cella n. 69 fu la mia università politica. Sepolti vivi nella "fossa di Attila" sapevamo dello stalinismo piú di chiunque altro prima di noi, essendone a un tempo i discepoli e le vittime. Perfino in carcere utilizzavamo la terminologia marxista per analizzarlo, anche perché era l'unico sistema di pensiero che ci era familiare. Cantavamo marce proletarie a bassa voce, affinché i nostri proletari secondini non ci udissero, perché erano le uniche canzoni che conoscevamo. Tuttavia in noi tutti l'antica fede era irrimediabilmente perduta. Dopo che piú tardi i processi pubblici stalinisti vennero dichiarati nulli e noi tutti fummo riabilitati da ogni accusa, alcuni di noi fecero marcia indietro e assunsero nuovamente alte funzioni nel partito e nell'apparato statale, rimuovendo l'esperienza dell'intervento chirurgico all'interno del sistema. Il post-stalinismo utilizzava il bisturi solo in caso di estrema emergenza, preferendo per il resto prescrivere antidolorofici e narcotici. Quel sistema cronicamente malato che ingannevolmente si faceva chiamare socialismo, se anche non riuscí a restituire ai malcapitati la fede ormai definitivamente perduta, dispensò loro privilegi e posizioni di potere a cui molti non seppero resistere. Un esempio a questo punto merita di venire illustrato: M. aveva lasciato l'esilio belga per combattere in Spagna nelle Brigate Internazionali. L'Unione Sovietica lo salvò dall'internamento in un campo francese, in Russia si arruolò nell'Armata Rossa, con cui ritornò in Ungheria per ricoprire un incarico di colonnello nella polizia politica del Ministero degli Interni. Nella cella n. 69 le sue testimonianze dirette sul terrore stalinista in Unione Sovietica, sulla povertà e l'arretratezza del paradiso socialista, sull'abisso che correva tra la propaganda e la realtà, furono per me una fonte traumatica di nuove consapevolezze. Dopo la nostra scarcerazione, la vittima diventò carnefice. M. entrò nella polizia segreta e fu responsabile a livello decisionale degli arresti e interrogatori degli scrittori comunisti che si esposero durante le rivolte antistaliniste del 1956. Esistono molti altri e ben piú autorevoli esempi di questo genere di metamorfosi, come Kádár in Ungheria, Gomulka in Polonia, Husák in Cecoslovacchia. Le loro biografie sarebbero degne di uno studio a parte.
Un altro mio maestro in sovietologia fu Lajos Cséby. Già in gioventú aveva partecipato alla Repubblica dei Consigli del 1919, che era però fallita. Suo padre venne ammazzato dai controrivoluzionari, a lui invece riuscí di rifugiare in Iugoslavia, dove si impegnò nella sezione ungherese del Partito Comunista Iugoslavo. Nel 1932 venne inviato all'accademia militare di Mosca. Nel 1936 le autorità sovietiche lo spedirano in Spagna in qualità di commissario politico, per poi richiamarlo indietro due anni dopo. Combatté nelle file dell'Armata Rossa e collaborò alle trasmissioni propagandistiche in ungherese di Radio Mosca, fu responsabile dell'indottrinamento politico dei prigionieri di guerra ungheresi e organizzò gruppi di partigiani per rafforzare la resistenza clandestina antifascista in Ungheria. Dopo la guerra Cséby diventò Presidente dell'Associazione dei Partigiani, col rango di generale maggiore. Il suo passato iugoslavo gli costò piú tardi l'arresto in quanto "titoista". Allo stesso tempo sua sorella veniva arrestata in Iugoslavia in quanto "stalinista". Cséby incarnava l'ideale tanto propagandato, quanto in realtà pressoché inesistente, del rivoluzionario comunista - un combattente duro e generoso, il cui movente non era tanto la teoria quanto l'amore per gli uomini. Nella cella n. 69 Cséby mi raccontò delle sanguinose epurazioni moscovite, dell'esecuzione di Béla Kun e di altri dirigenti comunisti ungheresi, nonché della completa eliminazione della sezione polacca del Comintern - "restarono solo le poltrone vuote", disse.
Dopo il rilascio Cséby riottenne il rango e la posizione di un tempo. Quando alla fine del 1956 decisi di abbandonare l'Ungheria, mi recai dapprima da M. per ottenere un passaporto per me e la mia famiglia, giustificandomi dicendo che non potevo vivere oltre in quel clima della menzogna. M. mi respinse. Di seguito andai quindi da Cséby e una settimana dopo mi vennero rilasciati i passaporti. "Hai ragione", disse "anch'io se potessi me ne andrei. Però sono vecchio, per tutta la vita sono stato rivoluzionario di professione, non so fare altro. Sono costretto a restare e a tenere chiuso il becco".
Nella cella n. 69 venni a conoscenza di torture che non erano nemmeno lontanamente paragonabili al mio inferno in via Andrássy. Nell'intimità comunitaria della nostra cella cercavamo da una parte di preservarci dal ricordo delle atrocità subite, ma era inevitabile che di quando in quando sfuggissero commenti e considerazioni, dai quali si poteva ricostruire a poco a poco un quadro terrificante. Perfino oggi, dopo tanti anni, non sono nemmeno in grado di raccontare anche solo qualche particolare del mio inferno relativamente leggero . (...)


(Traduzione di Antonello Piana)





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