Conseguenze e conclusioni


Georg H. Hodos

 


I processi pubblici incarnano il carattere oppressivo del "socialismo reale" in maniera particolarmente brutale. Stalin se ne serví per spazzare via coloro che ai suoi occhi rappresentavano potenziali avversari del suo dominio assoluto. Allo stesso tempo però con quei processi condannò all'estinzione generazioni di comunisti, negli anni Trenta in Unione Sovietica e nel dopoguerra negli stati satelliti dell'URSS, il caso che qui ci interessa. Coloro che caddero vittima dei processi pubblici nell'Europa Centrale e Orientale erano uomini di salde convinzioni. Il loro comunismo era una fede quasi religiosa in un mondo migliore, in una legge quasi scientifica per liberare l'umanità dall'oppressione, dalla miseria e dalla guerra. Essi credevano nel definitivo superamento di tutto quello che era venuto a galla con il crollo dell'ordine liberale e dei suoi valori, con l'ascesa del fascismo e la graduale capitolazione delle democrazie francesi e inglesi di fronte alla sua avanzata. Il capitalismo sembrava l'origine di ogni male. Nel pieno della sua crisi aveva partorito la dittatura nazista ed era responsabile della schiavitù di interi popoli e razze, di mattatoi nei campi di battaglia e in quelli di concentramento.
Coloro che erano stati in esilio in Unione Sovietica si mettevano un bavaglio e al comando del Comintern marciavano gioiosi e decisi verso il radioso futuro, ciechi e muti di fronte al terrore della collettivizzazione forzata e dell'impietoso sterminio di nemici immaginari. Se erano esiliati in Occidente rischiavano la vita nelle Brigate Internazionali contro l'esercito di Franco o nella resistenza contro l'invasore tedesco. Nei movimenti clandestini dei paesi annessi da Hitler erano i promotori della lotta di liberazione, ricercati dalla Gestapo e dai suoi accoliti indigeni. Questa specie di comunisti non esiste piú, essa venne liquidata nei processi pubblici, o comunque venne spezzata loro la spina dorsale e la tempra ideologica. Il "saggio Stalin", come doveva essere incensato dalle masse, fu in questo senso effettivamente saggio; le sue "categorie sospette" includevano interbrigatisti, emigranti occidentali e comunisti autoctoni. Per consolidare il suo assoluto dominio sulla sfera d'influenza conquistata in guerra, non aveva bisogno di idealisti e partigiani, intellettuali e guerriglieri clandestini, e nemmeno di ebrei, che per ragioni storiche erano particolarmente numerosi in queste categorie. Dopo la morte di Stalin essi vennero reintegrati nell'apparato, diventando gradualmente uomini di stato e funzionari di partito, dal gradino piú basso fino ai vertici assoluti. L'ideologia per loro divenne una materia obbligatoria da insegnarsi a scuola, ma non aveva piú niente a che fare con l'assolvimento delle loro funzioni. Essi non servivano piú l'umanità o un'idea, ma solo un sistema che non si poteva mettere in discussione. Tenendo strettamente separati pubblico e privato, vedevano la tessera del partito come uno strumento per migliorare le loro condizioni di vita e scalare piú rapidamente le carriere, curandosi solo di garantire alla meglio il funzionamento dello stato per affermare il loro potere e i loro privilegi. Questi comunisti non erano piú persone particolari, si trasformarono in una specie assolutamente volgare, come i maiali della "Fattoria degli animali" di Orwell che si ribellano contro gli uomini, ma poi cominciano gradualmente a camminare a due zampe e ad assumere una fisionomia umana. Anche nel romanzo il capo porta con sé una frusta.
Adduco qui solo qualche esempio: nell'Ungheria "destalinizzata" il processo di smantellamento del comunismo venne portato avanti a spada tratta. Il membro del Comitato Centrale Miklós Neméth, ultimo presidente della repubblica popolare, dopo la caduta del muro divenne senza rimorsi di coscienza direttore di un istituto finanziario internazionale con sede a Londra, che contribuisce a impiantare il capitalismo nei paesi ex-comunisti. Ha buone possibilità di diventare presidente dell'Ungheria nel 2001.
L'ex-membro del Comitato Centrale Gyula Horn, che in qualità di giovane attivista della Vigilanza Operaia dopo la rivoluzione del 1956 si dava da fare per chiudere la bocca ai "controrivoluzionari", trentacinque anni dopo contribuí a distruggere le strutture comuniste ancora esistenti con piú fervore dei suoi predecessori conservatori. Non c'è da meravigliarsi se ingegneri ed economisti, che in gioventú con la tessera del partito in tasca fecero rapida carriera nelle imprese statalizzate, oggi diventino ancor piú rapidamente dirigenti o addirittura proprietari delle imprese privatizzate, rappresentando quel dieci per cento della popolazione arricchitosi col cambio di regime. O come si potrebbe altrimenti spiegare che in Unione Sovietica il contadinotto Boris Jelcin, che deve tutta la sua carriera al partito, abbia scambiato senza pensarci due volte la sua poltrona nel Politburo con quella ben piú lucrosa di Presidente della nuova Russia capitalista. Oppure che il suo successore Vladimir Putin, che sin da bambino ammirava i cekisti e piú tardi serví fedelmente l'MGB, oggi con i miliardi del FMI aiuti a stabilizzare l'economia di mercato. Nei processi pubblici non sono stati annientati i nemici del comunismo, bensí i comunisti stessi. Con loro apparentemente morí - ma senza dubbio non per sempre - l'idealismo politico, la fede nella possibilità di creare un mondo migliore. In questo risiede la vera colpa dei comunisti sbaragliati dai processi: aver spianato la strada alla realizzazione di una falsa alternativa, che alla fine portò al loro stesso annientamento. Putin, un prodotto di quel processo di trasformazione, ha formulato in modo felice: "chi non ha nostalgia dei comunisti non ha cuore, chi li rivuole indietro non ha cervello". I comunisti non torneranno piú, perché sono tutti morti. Chissà quando e chissà dove nascerà un nuovo ideale che avrà imparato dal passato.


(Traduzione di Antonello Piana)
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