A Venezia

Harold Brodkey

 

Sono sdraiato diagonalmente tra un groviglio di lenzuola di lino in un letto enorme dentro a una stanza con le persiane chiuse, sotto un gigantesco lampadario di cristallo che luccica in modo complicato. Sono in un appartamento vicino a San Tomà, con tende bianche e immobili che nascondono le finestre ermeticamente chiuse. Sento gli uccelli che trillano, tubano, sbattono le ali al di là delle persiane e il rumore dei lavori di restauro di Casa Goldoni. Grida di operai, bambini, un cane. Sento lo sciabordio attutito dell'acqua nel piccolo rio* ai piedi del muro della casa, il muro della mia stanza da letto. La stanza trema leggermente delle strane vibrazioni pervasive del traffico sul Canal Grande.
Siamo in aprile e all'inizio del mio secondo anno di paziente di AIDS. Sono a Venezia dietro invito di Michael Naumann, il mio editore tedesco, per festeggiare l'uscita, in Germania, del mio romanzo veneziano Amicizie profane. Sono a Venezia, ma ho l'impressione di svegliarmi dentro a una scatola piena di registrazioni consapevoli del mio respiro - senza entusiasmo e tuttavia con una sorta di comico sollievo per non essere morto, per non essermi svegliato con un urlo. Sono molto debole e fragile, e mi sembra tutto troppo strano. La malattia mi rende timido; essere malato assomiglia all'esperienza dell'essere nudi in pubblico nei sogni. Oltre all'AIDS, o di conseguenza, ho la bronchite per l'aria viziata sull'aereo che mi ha portato qui. A Venezia ha piovuto e ha fatto freddo, poi molto caldo; quando si esce, si sente tossire dappertutto. 10.15 a.m. Il gesto del mio amico Giovanni Alliata-Cini nella calle, dove ci siamo incontrati inaspettatamente: mi prende la mano tra le sue, la tiene stretta e la scalda. Un tocco di morte profondamente commuovente.
10.45 a.m. All'imbarcadero del traghetto, investito da una luce straordinaria, incontaminata, luminosa come se il cielo contenesse piccole particelle acuminate di vetro luccicante, una luminosa e trasparente polvere di vetro. In questa luce tagliente, i colori dei giardini, degli edifici e l'acqua del Canal Grande non scompaiono nel riverbero, né impallidiscono, ma assumono uno strano alone terreno come fossero vestiti a festa, spazzolati e lucidati - anche la lontananza immediata è tirata a lucido - ma non all'ombra. Lì l'acqua è opaca, sporca, di un cupo grigio verde, e le pietre rivelano ogni crepa. Queste qualità della visuale, quella vestita a festa e quella trasandata, osservate insieme creano un'atmosfera di intimità - forse bisognerebbe dire una realtà estremamente intima.
Fuori, sull'acqua mossa del canalazzo, tra i vaporetti e zattere e chiatte e gli aggraziati motoscafi, i ferry neri chiamati traghetti - che sembrano più che altro grasse gondole aperte senza sedili, con un barcaiolo a prua e uno al timone che governano la barca facendola procedere a zig zag e molto più rapidamente dei soliti gondolieri - trasportano i loro passeggeri in piedi e leggermente ondeggianti, accalcati gli uni sugli altri. In giacca e cravatta e armati di ventiquattr'ore e portfolio; o in jeans e carichi di libri di scuola; o in ordinate gonne e camicette, con sporte di verdura e fiori arrotolati nella carta; o in abiti da fatica, con le braccia cariche di attrezzi o scatoloni in equilibrio sulla testa - queste figure, ammassate in un silenzioso ed educato groviglio vengono trasportate da imbarcazioni affollate sull'acqua e sui suoi cangianti riflessi. È molto pittorico, ricorda un quadro di Caronte che con un aiutante trasporta un carico di anime appena trapassate all'inferno, un mistero della vita cittadina, quelle vite che oscillano nella barca scura sullo sfondo dei palazzi e del traffico sui canali.
Sei o sette francesi tra uomini e donne, di modesta origine - non giovani, non ben vestiti - imboccarono vivacemente la calle spingendo le carrozzelle di un gruppetto di persone abbastanza giovani e tutte contorte, due delle quali respiravano rumorosamente e avevano facce contratte in un'espressione arrabbiata e/o imbronciata. Un terzo, con una mano sollevata ad artiglio, aveva un'espressione omicida. Ma l'espressione era la percezione erronea che un osservatore esterno poteva avere del ritardo mentale e della deformità - di una cosa infantile e forse veramente innocente, sebbene in questo caso potesse esserci autentica rabbia. Sembravano tutti chiusi all'interno di una gabbia di virtù particolare, in una sofferenza tutta speciale, moralmente irresistibile. (Una volta, attraversando lo stato dell'Indiana in automobile, Ellen e io capitammo in una cittadina che aveva un'istituzione famosa nel circondario per accogliere gente che necessitava di cure speciali. Queste persone lavoravano in tutta la cittadina, in negozi e distributori, e tutti ci avevano fatto l'abitudine. Uno degli abitanti mi disse che un tempo la loro era stata una cittadina timorata di Dio, ma ormai non avevano più fiducia nella religione - per via del Vietnam, mi disse. A quanto pare, avevano rimpiazzato la religione votandosi alla bontà e alla sofferenza delle persone disturbate, malate dalla nascita, e ritardate. Tutti, in quella città, mi parvero irreversibilmente buoni.)





Questa fermata del traghetto non è lontana dalla stazione ferroviaria. Spesso qui, appena sbarcata, la gente si mette a correre a perdifiato su per la calle stretta.
Il traghetto è efficiente e scivola leggero sull'acqua, ma non è stabile ed è la forma più economica di giro in gondola della città. Il vento tra gli alti palazzi crea mulinelli nella corrente e nelle onde agitate dal traffico e soffia sulla gente ammassata come su goffe vele. Un anemometro turbina in cima a una sbarra di metallo sul molo. Ho visto gente in sedia a rotelle sui traghetti ma solo uno alla volta e solo gente ordinaria, non quelli imprigionati nel loro male: ho visto gli uomini del traghetto prendere una carrozzella piegata e aprirla sul traghetto mentre un malato saliva zoppicando in barca al braccio della moglie e poi si sedeva sulla sua seggiola, con il vento che gli scompigliava i capelli mentre lui teneva il cappello in grembo.
Gli uomini del traghetto per lo più sono educati ma scostanti, eccetto che tra loro; si mostrano cordiali, solidali e divertiti solo l'uno con l'altro. Non sono cordiali e diretti come i gondolieri, quantomeno per quel che mi risulta. Preferiscono non rendersi utili. Ma talvolta lo fanno. Non ho mai visto uno di loro abbordare una donna sulla barca, ma li ho visti molto in azione nelle calli e nei bar. I loro diritti alla traversata in traghetto sono ereditari. Hanno la stessa aria indipendente di Caronte o dei proprietari terrieri nei western americani. Fanno pause frequenti, per cui lavorano solo in sette o otto alla volta, mantenendo in funzione due traghetti nel corso della giornata.
I francesi spinsero le carrozzelle creando un groviglio in mezzo alla gente che aspettava il traghetto e a quelli che stavano sbarcando - ovvero, erano sicuri di salire a bordo. Uno degli uomini più giovani dell'equipaggio li liquidò con un cenno della mano. Quegli uomini bevono dalla mattina alla sera; reggono bene l'alcol, ma nella loro costante ubriachezza non hanno più freni. Sono sferzati dal vento e colpiti dal sole, moderatamente stanchi, e più o meno ubriachi. L'uomo più vecchio del traghetto, probabilmente della mia età, tradiva la sua furtiva e controllata ubriachezza in misura maggior degli uomini più giovani. Si precipitò verso i francesi per farli sgombrare. Dubito che abbia detto qualcosa di preciso in questo senso: era allusivo, artificioso, accattivante, intimo. Uno degli accompagnatori, una donna, diede in uno strillo offeso, come un gabbiano umano, un grido di protesta, di rimprovero. I francesi, gli accompagnatori degli storpi angelici, erano irrigiditi dal biasimo per la sua crudeltà. L'uomo indicò loro un punto poco più in là sul canale, dove, a venticinque metri di distanza (anche se per arrivarci bisognava fare il giro dall'interno per poi sbucare di nuovo sul canale) c'era una fermata del vaporetto. (Queste fermate sono fornite di rampe, e ogni vaporetto ha una zona centrale aperta, dove si vede spesso della gente in carrozzella.) Nel corso di questo episodio, la mia debolezza fisica mi fece perdere i contorni delle cose costringendomi più volte a rimetterle a fuoco. E poi, c'era anche il vento, e lo spazio tra me e i francesi. I perpetui bambini in sedia a rotelle rimasero imprigionati in correnti di cosce e busti man mano che il traffico pedonale progrediva verso la barca o verso terra. I francesi stavano bloccando quasi tutto il passaggio. Gli italiani li sorpassavano contorcendosi abilmente, accettando la loro presenza insieme alle difficoltà che creava.
I francesi, preso atto di come stavano le cose, allinearono le sedie a rotelle vicino a una balaustra in quella piccola porzione della calle cum fondamenta. Questa manovra venne eseguita con grande destrezza. Poi rimasero piantati lì, formando un argine e ostruendo il passaggio per almeno dieci minuti, finché gli accompagnatori ripresero bruscamente la loro marcia in fila indiana, spingendo le sedie a rotelle, diretti verso l'interno come uno squadrone di cavalleria, allontanandosi il più rapidamente possibile da quell'angolo submetafisico della Venezia non universale.
11.10 a.m. Chiacchiere. Pettegolezzi. Conversazione. Sull'imbarcazione presa a nolo. Nel divismo che ci è stato accordato, al largo dell'ampio canale nella luce lievemente esplosiva, sperimentiamo la luminosità assoluta, ma è accecante e intima: la visione tende a ritirarsi. Gli occhi si ritraggono sotto le sopracciglia, dietro gli occhiali da sole, trasformandoti in un habitué del sole, in quel tipo di italiano. Ellen e io raccontiamo al nostro amico Naumann l'episodio dei francesi in sedia a rotelle. Siamo seduti a prua del motoscafo bianco, vicino al barcaiolo, che ha il pallore e la pelle sciupata di un veneziano della terra ferma che lavori solo part-time a Venezia, all'aperto. Entriamo nell'eccentrico, dispendioso labirinto d'acqua della città. Adesso siamo un punto d'attrazione, un elemento del quadro sub immortale. File di gente che salgono sul traghetto ci guardano e anche la gente su un vaporetto stracarico e quelli alle finestre dei palazzi, o sugli argini di pietra del canale. Noi chiacchieriamo e passiamo scoppiettando davanti all'irregolare guazzabuglio, bellissimo e logoro, di finestre decorative, di colonne e ornamenti di pietra e marmo - increspiamo il verde, inquieto specchio d'acqua. La pietra istriana della città luccica in questa luce. I disegni architettonici torreggiano intorno a noi nella splendida visibilità veneziana. Venezia sembra fatta solo della sua sopravvissuta bellezza, così com'è adesso, una costruzione di apparenze senza una realtà segreta... Naturalmente, ha ancora dei segreti, ma sono segreti minori. Non riesco a ricordare una conversazione a Venezia che non sia cominciata con l'argomento Venezia. O una, in questo viaggio, in cui l'osservazione successiva non sia caduta sulla mia malattia. Poi sulla salute di Ellen. E lo stato d'animo. Poi... Ma la conversazione moderna - anche quando è gridata al di sopra del rumore del motore sotto la luce brillante del sole, con il barcaiolo proprio lì - ha la curiosa caratteristica di avvenire come tra parentesi, che andranno perse all'interno del marchingegno di qualsiasi tentata biografia o riproduzione.
A Berlino, a Parigi, a New York, a Milano, il pettegolezzo e la trasmissione delle notizie avviene per telefono e fax ogni mattina - lo scambio delle storie vere su tutto. E alle cene. Ai pranzi. Nella conversazione privata, faccia a faccia, è solo una forma di intimità, di fiducia, e di rispetto. Ma, trasformate in dichiarazioni pubbliche, le osservazioni, le voci, diventano scabrose. Naumann, Ellen e io chiacchieriamo; ci scambiamo le nostre opinioni vere, le notizie più interessanti - storie vere su Venezia, New York, Berlino. Ma la storia vera della mia morte, la vera natura del rapporto mio e di Ellen, è privata, non è da storicizzare, non è da annotare. Non ancora.
La storia è uno scandalo, come lo sono la vita e la morte.
Io sto morendo... Venezia sta morendo... Il secolo sta morendo... Le certezze imbecilli degli ultimi tre quarti di secolo stanno morendo. Il giornalismo migliore degli ultimi cinquant'anni è stato di sinistra; il che significa che la natura umana è stata ritratta come innocente, come decorosa dall'inizio alla fine di ogni storia. Una fantasmagoria, un atto di misericordia, quell'idea - una rinuncia alla realtà, un'infinita condiscendenza verso tutto ciò che non era il potere assoluto. Similmente, i romanzi sono stati fantastici - come navi spaziali che hanno indiscutibilmente lasciato questo mondo. Il reale era proibito.
Naumann dice che io sono un mostro sacro, ma non sono così famoso. Mi rendo conto della mostruosità della mia volontà e della volontà individuale di chiunque. Imprigionate la gente e la loro vita diventerà mostruosa. Liberatela, e loro diventeranno dei mostri. Bisogna che cambiamo le nostre idee.
Il nostro barcaiolo sulle prime non riusciva a ricordare San Sebastiano, la chiesetta del Veronese, ma accettò la mia descrizione, espressa in un affannato italiano approssimativo. Allora gli parve di ricordarsela. Per quindici anni, il Veronese dipinse in quella piccola chiesa. Si fece le ossa, per così dire, divenne esperto - un'attempata mescolanza di gelo e di calore. Lasciammo la luce brillante e l'acqua inquieta del Canal Grande per girare nell'ombra di un canale più piccolo che porta alla Giudecca. Mi sento poco bene in modo inquieto, rancoroso. Appena prima che imbocchiamo l'ampia Giudecca, alzo gli occhi e vedo le persone sulle fondamenta, più alte di quanto non siano in realtà e di scorcio, come figure di un affresco a soffitto. Un gruppo di giovanotti, tutti di taglia extralarge, in modo informe - non da body-building, ma forti, spettinati e chiassosi, con indumenti attillati - si facevano strada tra la gente a spallate e gomitate, bevendo mentre avanzavano baldanzosi, e riprendendosi a vicenda con una videocamera. Gente di Fini, disse il barcaiolo, fascisti.
Ci allontanammo lungo il canale della Giudecca, e quelli rimpicciolirono in lontananza. Gli attuali fascisti italiani non sono esattamente dei neofascisti come affermano; sono costretti dalla legge italiana a negare qualsiasi legame con le dottrine e i metodi mussoliniani, ma la nipote di Mussolini è una dei leader del loro partito. Non lo fanno qui fuori nelle calli, ma allo stadio durante le partite di calcio, in quella privacy nazionale, gridano slogan e sventolano striscioni antisemiti. A quanto pare, è possibile assistere a una partita con una certa sicurezza solo se si ha un posto nei settori più costosi dello stadio - come in Inghilterra. La violenza è il volere del popolo.

* Le parole rio, traghetto, vaporetto, motoscafo, gondoliere, palazzo, calle, fondamenta sono in italiano nel testo.


(Brano tratto dal romanzo autobiografico Questo buio feroce (Storia della mia morte), Rizzoli, Milano, 1999. Traduzione di Delfina Vezzoli.)


Harold Brodkey (1930-1996) è un'importante scrittore statunitense contemporaneo. Ha scelto di pubblicare pochissimo: volumi di racconti (Primo amore e altri affanni e Storie in modo quasi classico) e due romanzi, The Runaway Soul, monumentale opera autobiografica uscita nel 1991, e Amicizie profane (1994). Brodkey è stato per decenni una delle colonne del "New Yorker".



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