Tra virilità rituale e realtà virtuale


Helmut Höge



Durante la Seconda Guerra Mondiale acquistò una certa importanza anche il "sottosuolo letterale" citato da Schmitt: furono le fogne di Varsavia, Vilnius e altre città che permisero alla guerriglia urbana ebrea di guadagnare i boschi dopo le sollevazioni nel Ghetto - verso i partigiani. E poi vi erano le catacombe di Odessa: sul reticolo di tunnel lungo piú di 1000 chilometri, a partire dai quali i partigiani combattevano i Tedeschi, esiste un libro di Valentin Katajev, "Nelle catacombe di Omessa". Nel 1969 una parte di quelle catacombe in periferia venne adibita a "Museo per la gloria dei partigiani di Odessa". Nel 1999 in Inghilterra e Germania è uscito un "Libro nero del KGB", basato sugli atti portati alla luce da un transfuga di nome Vasilij Mitrochin, in cui si afferma che l'eroica lotta dei partigiani nelle catacombe, a suo tempo guadagnatasi perfino il rispetto del comandante tedesco di Odessa, non avesse apportato il minimo contributo alla vittoria.
Invece secondo Mitrochin gli agenti del NKVD di Mosca si sarebbero scagliati addosso a quelli di Odessa, e quasi tutti finirono per ammazzarsi a vicenda. Gli autori del "Libro nero" si spingono però oltre: poiché secondo loro metà dei partigiani era membro del NKWD, la popolazione contadina li guardava con sospetto e timore, cosicché essi non potevano muoversi tra i civili come "pesci nell'acqua", e solo raramente sarebbero stati in grado di affrontare unità tedesche piú folte delle loro. Si tratta di sciocchezze cosí abnormi che perfino all'anticomunista piú sfegatato non resta altro che un sorriso amaro.
Solo in Bielorussia combatterono fino all'ultimo 250.000 partigiani. Per citare un esempio, la marcia di 10.000 chilometri, affrontata dagli uomini e dalle donne del comandante partigiano Kovpak per raggiungere i Carpazi, non ha nulla da invidiare alla Lunga Marcia di Mao Tse-Tung.
Mi vorrei a questo punto trattenere un po' piú estesamente sui partigiani sovietici, perché essi rappresentano il vero motivo per cui mi interesso all'argomento. Dietro a tutto vi è il crollo della DDR, a cui pochi anni dopo seguí un'inondazione dei suoi libri negli antiquariati del paese. Per un certo periodo ognuna di quelle meravigliose traduzioni dal russo costava non piú di trenta centesimi. In un primo momento acquistavo i libri solo per un senso di pietà, col tempo però sempre piú per autentico interesse alla materia, come si suol dire. Inoltre mi faceva rabbia il fatto che gli amici occidentali che lavoravano presso gli antiquariati ottenessero quei libri quasi in regalo - e stipassero interi furgoni di volumi per poi rivenderli a Friburgo o Hannover per venti o anche cinquanta marchi l'uno.
Lo scorso autunno inaugurammo nel Kaffee Burger una tavola rotonda settimanale, che Bert Papenfuss annunciò col titolo di "comitato illegale di zona". Mi venne alla mente di possedere da qualche parte un libro che portava quel titolo. E infatti trovai "Il comitato illegale di zona in azione" di Alexej Fëdorov. Non lo avevo mai letto perché pensavo si trattasse della noiosa cronaca di un apparacik. Niente di piú sbagliato. Quel Fedorov si rivelò un narratore di talento. Piú tardi presso un rigattiere curdo di Pankow scoprii perfino la continuazione del "resoconto di fatti vissuti", dal titolo "L'ultimo inverno".
Nel frattempo ero in grado di integrare i ricordi del militante di partito Fëdorov con altri testi - per esempio con le memorie del comandante Alexander Saburov, i cui "Sentieri partigiani" attraversavano i boschi di Brjansk. In quelle contrade combatté anche il regista cinematografico Pëtr Veršigora ("Nel bosco dei fantasmi"). Tra i "boschi neri" era ambientata anche la trama del "racconto documentario" di Sergej Cvigun "Facciamo ritorno". Nel distretto di Kuban agiva invece l'unità partigiana di Pëtr Ignatov, quasi interamente costituita da intellettuali cittadini specializzatisi nell'attentato esplosivo. A tempo perso costoro organizzarono perfino una sorta di scuola di formazione, che conferiva ai partecipanti un "diploma di partigiano". Gli "Appunti di un partigiano" di Ignatov, pubblicati nel 1945 a Londra e Melbourne, furono citati abbondantemente dal brigadiere Dixon e dallo storico tedesco-occidentale Heilbrunn per la lotta contro l'IRA nordirlandese nel loro "Communist Guerrilla Warfare", uscito a New York nel 1954 e nella Repubblica Federale due anni dopo. Ignatov aveva invece scritto i suoi "Appunti" in memoria dei figli Jevgenij e Genja, "eroi dell'URSS" caduti nella guerra partigiana.
Molto belli sono i ricordi di Pëtr Andrejev sul comandante partigiano Sergej Antonov, dal titolo "Sul mio amico". Particolarmente care mi sono anche le memorie della coppia di operai bulgari Elena e Dobri Žurov, che combatterono come partigiani nei Balcani. Nel loro libro "Base operativa Murgaš" si alternano nella narrazione evitando di interrompersi e tapparsi la bocca a vicenda, come accade di solito alle coppie.
Il libro partigiano sovietico piú celebre mi venne regalato da un'amica della PDS: "La giovane guardia" di Alexander Fadejev racconta la storia di un gruppo di adolescenti che decide di aderire alla lotta contro i Tedeschi nella città mineraria ucraina di Krasnodon. Alla fine i 35 ragazzi e le 19 ragazze vengono torturati e trucidati. Con la liberazione di Krasnodon nel Febbraio del 1943 - quindi poco dopo la battaglia di Stalingrado, che risollevò repentinamente la fama dell'Armata Rossa in quasi tutta Europa -, una commissione indagò nel dettaglio le circostanze del fallimento della "Giovane Guardia", e il comitato centrale del komsomol' incaricò lo scrittore di rielaborare letterariamente la vicenda: "quel materiale avrebbe ammorbidito una pietra", ebbe a dire Fadejev piú tardi. Il suo libro "scritto col cuore in mano" era già pronto nel 1944, ma venne rimaneggiato dall'autore in seguito a numerosi commenti critici. La seconda stesura venne pubblicata nel 1951, ma nel frattempo era già uscita un'omonima trasposizione cinematografica di Sergej Gerasimov, che ottenne un successo internazionale. Se nella maggior parte dei film di guerra il singolo rappresenta una rotella di un gigantesco ingranaggio militare, nel film "La giovane guardia" l'uomo è al centro del sistema di coordinate, commentò il critico cinematografico sovietico Chanjutin. Tuttavia sedici anni piú tardi, nel 1964, il romanzo venne nuovamente trasposto dal medesimo regista. Nel frattempo Fadejev si era suicidato - perché avrebbe dovuto mettere in luce piú positivamente il ruolo dei comunisti nel movimento di resistenza, insinuò un recensore senza ritegno sul giornale di Springer Die Welt. Nella seconda versione, giustificata dalla scoperta di nuovi documenti storici, il personaggio di Tretjakevic da traditore diventa eroe, mentre quello di Pošepzov compie la traiettoria inversa. Nel 1988 il critico sovietico Šmyrov scrisse: "L'aderenza del film alla verità viene discussa ancora oggi - la questione è decisiva per il suo futuro e la sua gloria". Nel frattempo esiste ancora un altro film in proposito: "Sulle tracce degli eroi del film `La giovane guardia´". Gli attori discutono sul posto con i sopravvissuti e tutti si assicurano a vicenda che le cose sono andate come nel film - "affinché col pathos del pensiero critico ispirato dalla perestrojka non si perda l'orientamento", come si disse.
Esiste uno scrittore bielorusso che fino a oggi non si è occupato d'altro che di partigiani. Tra l'altro, in seguito ai disordini post-perestrojka in Bielorussia, Vasil Bykau vive attualmente in esilio a Berlino. Di recente in un'intervista a Russkij Berlin ha affermato: "Fino a poco tempo fa non era permesso dire tutta la verità sulla guerra. Ciò non aveva a che fare tanto con la censura o con i dogmi del realismo socialista, che pure opprimevano la letteratura, quanto piuttosto con le caratteristiche peculiari della coscienza sociale sovietica, che dopo la guerra aveva sviluppato una relazione quasi morbosa non tanto verso la verità storica, quanto verso i miti della guerra: gli eroi, gli aviatori, i partigiani. Questi miti positivi venivano accettati anche dai veterani, anche se erano in contraddizione con la loro esperienza. La verità sulla guerra era considerata inutile e perfino amorale. Il minimo avvicinamento alla verità storica veniva visto come un attentato a quel che esisteva di piú sacro - la lotta per la libertà e l'indipendenza della patria. Gli autori che scrivevano della guerra erano però coscienziosi e perfino disposti a fare dei sacrifici per poter raccontare nei loro libri la verità. Le loro opere avevano perciò spesso un destino travagliato (l'eufemismo russo per il pluriennale divieto di pubblicazione). Ciò è tanto piú comprensibile se si tiene conto che tale verità storica non andava conquistata solo sulle scrivanie, ma anche nei medesimi campi di battaglia. Ernest Hemingway ha affermato una volta: scrivere della guerra è molto pericoloso, ma lo è ancora di piú cercare la verità in guerra".
Fidel Castro, che si incontrò con Hemingway durante una battuta di pesca, gli rivelò che il suo romanzo partigiano "Per chi suona la campana" era stato "uno dei libri che mi aiutarono a sviluppare la tattica contro l'esercito di Batista". Delle storie partigiane di Bykau, tutte tradotte in tedesco, ma dopo la caduta del muro irreperebili sia a ovest che a est, si può affermare che rincorrano la verità "morale" della guerra. Molte di esse sono state trasposte per il cinema.
Se il già citato Rolf Schoers, muovendo dalla "résistance", elabora nel suo saggio sui partigiani un esistenzialismo intellettuale orientato su Sartre, Vasil Bykau con le sue storie di partigiani bielorussi produce qualcosa come un esistenzialismo socialista. In una direzione simile si muovono anche le opere del suo collega bielorusso Ales Adamovic, il quale al contrario dell'artigliere Bykau durante la guerra combatté effettivamente come partigiano. Ultimamente Adamovic ha editato anche alcuni libri di Svetlana Alexjevic, nei quali la scrittrice nata nel dopoguerra intervista ex-partigiani.
Con la menzione del suo "La guerra non ha un volto femminile", uscito in tedesco poco prima della caduta del muro, arriviamo quindi all'attuale congiuntura del partigiano, che nel frattempo mobilita sia gli amici che i nemici.
Tra gli ultimi, gli eserciti - non escluso naturalmente quello tedesco - sono in procinto oggi di ridursi a una sorta di truppa anti-guerriglia, che da noi ha preso il nome di KSK (forze speciali di crisi). Secondo i giornali Frankfurter Allgemeine Zeitung e BILD, il pericolo futuro è rappresentato infatti da "una guerra perfida condotta con strumenti relativamente rudimentali da terroristi, guerriglieri e partigiani".
Simili esperienze sono state fatte dall'esercito tedesco soprattutto in Kosovo. Il nuovo fronte mi è stato descritto con queste parole da un maggiore a Bonn: "esso non è rivolto piú verso la Russia. I soldati russi hanno raggiunto nel frattempo lo stesso approccio verso la guerra che abbiamo noi: non hanno voglia di morire! Inoltre lo stazionamento di armamenti nucleari in Polonia e Ungheria può ben dirsi cosa sicura, la questione è solo il prezzo da pagare. Ben diversi sono invece gli arabi, l'Islam. Perciò la nuova linea di difesa - rapidamente tirò fuori una nuova cartina - corre qui: tra il Marocco e l'Afghanistan".
Accanto ai gruppi islamisti militanti di quei paesi, compresa la Cecenia e la Iugoslavia, esiste al mondo però anche ogni genere di altri focolai partigiani, per esempio in India, Pakistan, Indonesia, Birmania e Filippine. In alcune regioni dell'Africa la guerrilla ha ormai rilevato il ruolo degli stati nazionali, e anche in Colombia esercita nei territori liberati la funzione di governo. Sembra proprio che dopo la corsa agli armamenti nucleari e il crollo dell'Unione Sovietica, la guerra partigiana rappresenti, contro ogni pronostico degli esperti, l'unica forma possibile di conflitto armato. A ciò si aggiunge il fatto che la "nuova economia" ha "liberato" masse di lavoratori costretti ad arrangiarsi per conto proprio o a riunirsi in bande criminali. In Bielorussia, Lituania o Polonia le bande di trafficanti usano gli stessi sentieri e vie di fuga nei boschi utilizzati un tempo dai partigiani. L'ufficiale della marina e scrittore moscovita Anatolij Asolskij aveva previsto nel suo romanzo "La cella" la conversione degli antichi partigiani in bande armate sovietiche. In un racconto di Viktor Pelevin, le gang di trafficanti bielorussi si trasformano addirittura in licantropi, conservando a un tempo la vecchia abitudine partigiana di nominare comandanti e commissari, con tanto di vice. Anche alcuni romanzi polizieschi russi hanno tematizzato queste trasformazioni economiche della politica. Ancora ad Auschwitz, lo scrittore sopravvissuto Primo Levi ha descritto l'economia sommersa, e piú tardi, nel suo romanzo "Se non ora quando?", il sistema di finanziamento di un piccolo gruppo di partigiani, che dai boschi di Brjansk si sposta fino al Nord-Italia percorrendo 2.000 chilometri.
Solo "la solidarietà della banda garantisce l'intoccabile dignità del singolo, che non è mai messa in pericolo dalla morte, quanto piú spesso dalla brama di vivere", commenta Ralf Schoers, per il quale la "resistenza rappresenta l'ultimo bastione di dignità dell'esistenza", sebbene solo in forma intellettuale e individuale. Dove e come qui da noi ciò si possa realizzare non riesco ancora a riconoscerlo, se non nelle bande di skinheads, che sono sí politicizzate ma ben poco intellettuali. Cosí come d'altra parte non riesco a vedere dove e come le forze anti-guerriglia degli eserciti possano offrire soluzioni piú intelligenti di quelle offerte dai kommando speciali nazisti. Essi sono e rimangono tecnocrati, l'opposto dei partigiani che colpiscono e poi si ritirano nel popolo, e non nei quartier-generali. Non riescono o non vogliono capire che la guerriglia del FLN è identica al popolo algerino?, si meravigliava già nel 1957 Frantz Fanon.
Nel 1962 lo Spiegel dedicava il titolo di copertina a una nuova unità americana anti-vietkong, definita "i partigiani di Kennedy". Si trattava delle "special forces" dai berretti verdi, composte per un quarto da partigiani di destra che erano già stati attivi contro i sovietici. Per quanto si sa, Kennedy aveva studiato a fondo "La lotta partigiana" di Che Guevara. Alla fine però lo Spiegel non citava il Che sconfitto dai contadini boliviani refrattari agli stranieri, bensí Mao Tse-Tung: "La guerra partigiana è condannata alla sconfitta se i suoi obiettivi politici non si coniugano con le speranze del popolo". Questa è la croce di tutte le special forces: esse possono massacrare milioni e milioni di persone - come in Malaysia, Corea, Vietnam e Indonesia -, alla fine ciò porta solo acqua al mulino dei partigiani. Finora l'assassinio di ostaggi per rappresaglia contro le azioni partigiane è sempre stato l'inizio della fine di ogni occupazione. I tedeschi hanno adottato questa pratica - in misura di 1 a 100 - fin dalla guerra franco-tedesca del 1870-71, sempre senza successo. Piú tardi sul fronte orientale aprirono veri e propri lager punitivi, al fine di avere sempre a disposizione abbastanza ostaggi da fucilare.
La congiuntuta partigiana non è però solo dovuta alla nuova inclinazione degli eserciti verso piccoli ma effettivi squadroni della morte anti-partigiani. Al momento non passa mese senza l'uscita di un nuovo libro che incensa gli antichi combattenti. Anche in questi casi si tratta di una tendenza all'individualizzazione. In gran parte i protagonisti sono ebrei o donne della resistenza antifascista, siano essi veterani che stendono le loro memorie oppure scrittori che intervistano gli ultimi sopravvissuti. Siano menzionati solo "The partisans of Vilna", "Wenigstens eine Fußnote in der Geschichte - Judischer Widerstand in Krakau", "Der Zug des Lebens" e "Der Marschall". Quel che accomuna queste opere è piú o meno la censura dei partigiani sovietici nonché del comunismo. La "ricerca sull'olocausto", che oggi gode di un forte "trend" nelle università americane, si propone infatti di sminuire, lentamente ma inesorabilmente, il contributo dell'Armata Rossa alla vittoria sui Tedeschi. Per questo motivo la letteratura sovietica sul tema, e di riflesso quella della DDR, non viene minimamente presa in considerazione. La congiuntura del partigiano vuole anche che la vecchia storia della ribellione araba sia continuamente rispolverata: "Le sette colonne della saggezza" di T. E. Lawrence (d'Arabia), in assoluto il piú celebre comandante partigiano (omosessuale). Un passo recita: "A Um Kes - tra Haifa e Dera - si trova la vecchia Gadara, la culla del Menippo e del Meleagro, dell'immortale Siriano greco, i cui scritti rappresentano l'apice della scuola filosofica siriana. Il luogo si trova proprio sopra il ponte di Jarmuk, un capolavoro d'acciaio la cui distruzione inciderà il mio nome memorando accanto a quello della scuola di Gadara". A dirla tutta non capisco bene cosa voglia dire, ma questa commistione di esplosivo e filosofia mi ha naturalmente impressionato.
Tra l'altro esiste nel frattempo anche una rivista tedesco-turco-curda sul tema, il Bolschevik Partizan. Nel numero 42 si afferma che le seguenti "forze" rivoluzionarie si sono date una piattaforma comune: PKK, TKP(ML), TDP, DHP, DS, TKP-P, BP/KK-T, DSIH, B.Y.D.Ö e MLKP. Le ultime però tengono a precisare che sono contrarie alla partecipazione del circolo denominato DS. La redazione del Bolschevik Partizan per conto suo sottolinea che nella piattaforma non dovrebbe esserci posto per il TKP(ML). Non sono in grado di giudicare se queste due ultime dichiarazioni contribuiscano alla decollettivizzazione generale del partigiano, né se nel caso concreto esse siano costruttive o meno.

(2000)



(Traduzione di Antonello Piana)




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