Désir d'exister

- gli scrittori migranti dai Balcani -


Barbara Ronca

 


Siamo abituati a perdere. Ogni giorno qualcuno intorno a noi si allontana o sparisce,
un'amicizia o un amore impallidisce o si estingue, la morte si porta via uno dei nostri.
Perdere fa parte del nostro destino. Però è raro perdere un paese.
A me è capitato. Non parlo di uno stato o di un regime,
ma proprio del paese dove sono nato, e che,
ancora ieri soltanto, era il mio. Non c 'é più1.

Predrag Matvejevic'








Gli anni Novanta del XX secolo si aprono e si chiudono sulle date di inizio e fine dell'ultima guerra balcanica, protrattasi appunto dal 1991 al 1999, a seguito della quale la Federazione jugoslava ha cessato di esistere.
Di fronte al riesplodere di tensioni nazionalistiche di cui il nostro continente aveva perduto memoria troppo velocemente, l'Europa è rimasta a lungo incredula, e si è trovata impreparata di fronte a un conflitto di cui era stato possibile prevedere l'odio, ma non il furore2.

Relegati i conflitti identitari al rango di barbarie che mai si sarebbero ripetute dopo il termine della seconda guerra mondiale, la "nostra" Europa ha preferito disinteressarsi dei Balcani, nonostante apparisse spaventosamente evidente che agli orrori bosniaci e alla pulizia etnica perpetrata in Kosovo ben poco si adattava la semplicistica etichetta di conflitto etnico, o guerra fratricida. Questa regione al di là dell'Adriatico, vittima di quella che Prévélakis definisce "tirannia della geografia"3, priva cioè di attrattive particolari ma posta in una posizione strategica che l'ha resa preda di bramosie di ogni genere, è stata abbandonata a se stessa come se non fosse l'Oriente del nostro mondo, ma un ricettacolo di orrori con cui la civile Europa, sempre più volta a occidente, non doveva confondersi.

Eppure, questo ex stato federale che per alcuni decenni aveva reso possibile il sogno di una compagine statale multietnica, tollerante e pacifica, meritava forse - lo dice anche Predrag Matvejevic' - un diverso destino4; prima che la devastazione della Bosnia avesse inizio, Ejup Ganic', quasi profeticamente, sosteneva che, nonostante le innegabili tensioni etnico nazionalistiche, nulla di male sarebbe successo nel suo paese finché si fosse continuato ad avere idee diverse, ma a discuterne serenamente "sorseggiando il caffè". "Quando non sarà più possibile - concludeva Ganic' - prendere il caffè insieme... non voglio pensare a questo"5. Il giorno temuto da Ganic' è arrivato, nell'estate del 1991, e la Jugoslavia, col suo sogno di uno stato plurinazionale in cui la convivenza pacifica fosse non solo possibile, ma addirittura necessaria, è miseramente crollata sotto i colpi delle ideologie nazionaliste.

Al di là dell'estrema complessità che caratterizza il conflitto jugoslavo (dal punto di vista politico, religioso, geografico, in qualche modo anche antropologico), nella sostanza esso ricalca ciò che tutte le guerre portano inevitabilmente come conseguenze: esse privano l'essere umano del suo presente, cancellano il suo passato e minacciano il suo futuro; chi le subisce comprende che nulla più gli appartiene, neanche il diritto alla propria vita, alla costruzione del proprio domani, al rispetto della propria umanità.

In special modo quando il conflitto assume i caratteri di guerra etnica - quando cioè può bastare un nome a determinare se si è dalla parte giusta della barricata - si acquista la dolorosa consapevolezza che, a volte, non è necessario andare altrove per sentirsi stranieri.
Andarsene, migrare, non è quindi - come nel caso di chi fugge dalla miseria alla ricerca di una nuova vita - scelta, per quanto dolorosa e sofferta: è una necessità. Si abbandona il proprio mondo in fiamme - o quel che ne resta - perché l'unica alternativa possibile, in patria, alla morte, è il silenzio, l'umiliazione, una non-vita in cui nulla di ciò che si era trova spazio.

La migrazione dai Balcani assume i caratteri di un esilio; la fuga non prevede un ritorno, quanto piuttosto la necessità di costruire ex novo un'esistenza da innestare sulle macerie della vecchia, abitando un altrove e una nuova lingua.
Non sono "esiliati", almeno nella terminologia, i bosniaci, croati, serbi che vivono nei nostri paesi (esiliato, fa notare Matvejevic , è colui che fugge da un paese in cui vige un regime che impedisca di tornare), ma lo sono nella sostanza, perché un paese in cui tornare non l'hanno più.

La perdita è doppiamente straniante, quasi grottesca: ai tre abbandoni di cui parla Christiana de Caldas Brito analizzando la condizione esistenziale del migrante (cioè quelli delle tre madri: madre biologica, madre patria e madre lingua) se ne aggiunge un quarto: quello del paese di appartenenza, non tanto in termini di allontanamento, quanto in termini di scomparsa di un luogo verso cui proiettare i sogni riguardanti la "grande magia del ritorno"6: il migrante che abbandona la ex Jugoslavia sembra non aver diritto neanche alla nostalgia. Se è vero che questo "straniamento" (1'ostranenie di cui parlava Josif Brodskij) costituisce un terreno straordinariamente fertile per la creazione artistica, è vero anche che la condizione del migrante (lacerato tra un passato che "rimorde" in senso demartiniano e un futuro immerso nell'incertezza, allontanato dalle proprie radici, da tutto ciò che costituisce una solida definizione di sé) è sicuramente drammatica.

Migrare significa lottare per ricostruire un'identità perduta, sentirsi esclusi da una cultura che non appartiene e che ricorda in ogni momento che si è stranieri, indesiderati, perdersi in una società che chiude a chi arriva "le anime e le porte"7. Eppure, nonostante la tragicità di questa lacerazione, a ben guardare ciò che di irripetibile un migrante porta con sé è proprio la possibilità di vivere in equilibrio tra i mondi: tra il paese di partenza e quello di arrivo, tra la cultura abbandonata forzatamente e quella che si deve imparare a fare propria, tra la lingua dell'infanzia, che rimane da qualche parte nella memoria, e quella della nuova quotidianità; tra la nostalgia del mondo lasciato dietro di sé e la nuova identità, che si insinua tra le pieghe della nuova vita.
In particolare, lo scrittore migrante, dotato di uno sguardo caleidoscopico, di molteplici prospettive ed esperienze di vita, costituisce un ponte tra la cultura di origine e quella dell'arrivo, apportando a entrambe elementi di novità.
Secondo Predrag Matvejevic , egli parte "con un libro in valigia" e conserva la propria identità con la quale "feconda il paese di accoglienza"8; sospeso tra qui e altrove, acquisisce una polivalenza esistenziale che gli consente di porsi come elemento di raccordo tra realtà lontane ed eterogenee, modificandole, arricchendole entrambe.

Veri e propri detonatori d'innovazione, gli scrittori migranti che hanno scelto il nostro continente come destinazione della propria diaspora, propongono una nuova definizione dell'identità europea, che si costruisca certamente a partire da valori culturali, ma che non si rassegni alla massificazione e al dominio dell'altro; piuttosto, che trovi il suo fondamento nel riconoscimento del potere salvifico rappresentato dalle nuove realtà che pacificamente "invadono" e "colonizzano" il nostro continente.

La letteratura della migrazione si pone quindi, secondo Khaled Fouad Allam, non come "una letteratura marginale, o una letteratura etnica, ma come letteratura tout court, perché innova il dire, innova le rappresentazioni di mondi possibili. (...) Essa costruisce, se pure a livello dell'immaginario, mondi possibili, sentimenti negati; è una letteratura dell'esistente, che rivendica il suo diritto all'esistenza. E nel dur désir de durer - come nei versi di Apollinaire - essa esprime il dur désir d'exister".
Nei testi degli scrittori migranti dai Balcani sono presenti tutte le tematiche tipiche della letteratura della migrazione (questione identitaria e difesa della diversità come valore culturale, testimonianza della macrostoria e frattura esistenziale in cui siano ben distinti un "prima" e un "dopo", ridefinizione culturale che si basi sul dialogo e non sulla sopraffazione), ma vi è in essi anche un valore aggiunto.
Claudio Magris, nel suo romanzo-saggio intitolato Danubio, scrive: "Quando una realtà sta venendo cancellata con violenza, pensarla diventa un atto di fede"10: è operando quest'atto di fede che gli autori balcanici scelgono la letteratura come forma di dissidenza, e in qualche modo di resistenza.
All'irrazionale logica del conflitto, all'impavida gioia dei distruttori, i narratori oppongono le parole, il racconto, la memoria; perché sono consapevoli che "il paese che brucia i propri ricordi è un paese che vuole morire"11.
Portando con sé nella precipitosa fuga, tra le poche cose care o indispensabili, la loro denuncia, essi salvano se stessi dall'oblio, e insieme preservano ciò che è rimasto della propria patria perduta; con le loro opere - in cui è sempre presente una forte componente autobiografica - si oppongono non solo alla violenza, ma anche al suicidio di una cultura che si priva, man mano che esaspera particolarismi e nazionalismi, del proprio potenziale per il futuro.
Nel ribellarsi al non dire, al non scegliere, gli intellettuali possono addirittura (seguendo il corso etimologico della loro ribellione: da re-bellurn) opporsi alla guerra.
Privati di tutto ciò che costituiva il loro passato - quindi anche una promessa per il futuro - gli scrittori balcanici della migrazione si appropriano della nostra lingua, la abitano, la rinnovano, e attraverso di essa intraprendono quel cammino di difesa dell'umano e della pluralità dell'umano contro i totalitarismi, che abbiamo visto essere il fardello più prezioso che il migrante porta con sé.
Il rapporto con la lingua è uno degli aspetti più complessi e interessanti della produzione letteraria della migrazione; lo scrittore migrante utilizza, nelle sue opere, la lingua del paese d'arrivo: e in questa scelta, audace e "fisiologica" a un tempo, si rispecchia l'elemento fondamentale della scrittura migrante, ovvero, secondo una definizione di Julio Monteiro Martins, "una deterritorializzazione interiore ed esteriore"12, fortemente creativa.
Chi è costretto ad abitare due culture, due lingue, non può che riconoscere, nella propria identità multipla e stratificata, uno scacco contro chi erige barriere, alza muri, difende particolarismi.
In un testo intitolato significativamente I ponti, Vesna Stanic', scrittrice croata residente in Italia da venticinque anni, parla dello sradicamento vissuto da ogni migrante; e spiega che esso si configura come "una sensazione di non appartenenza a nessun luogo. Ci si allontana dalla propria cultura e lingua e si sente una nostalgia immensa, ci si avvicina ad un'altra e non si diventa mai veramente suoi figli".
Si vive "come su un ponte: né di qua, né di là"13. Ben coscienti che ogni ponte unisce solo se lo si attraversa, gli scrittori migranti operano una costante oscillazione linguistica: perché l'utilizzo di una lingua diversa da quella madre può essere sia uno strumento di collegamento tra sé e la nuova realtà culturale in cui si desidera integrarsi, sia il filtro necessario attraverso cui guardare con distacco un passato troppo doloroso.
E se l'italiano, la più ricca e stratificata tra le lingue europee, da quest'incontro esce modificato e in qualche modo "tradito", è un tradimento fecondo quello che subisce. Perché attraverso di esso diviene veicolo di messaggi che non possiamo più ignorare; e, soprattutto, perché quest'italiano che si piega alle esigenze narrative di chi non l'ha imparato da bambino, si modella, si rinnova, risultando sicuramente più interessante di quello stanco e un po' televisivo di certi scrittori alla moda.
La lingua rimossa dell'infanzia ritorna, a inquinare e rinsanguare un italiano che non è più solo il nostro, in una mescolanza inedita che rende la parola di questi autori sperimentale, essenziale e ricca di sfumature allo stesso tempo.

Se poi l'idioma lasciato dietro di sé è quel serbo-croato sfinito da anni di strumentalizzazioni e sistematici tradimenti, la scelta di quella che per Bozidar Stanisic si configura come la lingua dell'essenziale, e per Vera Slaven come una barriera necessaria, equivale ad acquistare un nuovo centro di gravità culturale senza perdere se stessi e la propria complessità.
Gli scrittori della diaspora balcanica non rappresentano quindi solo un'esotica appendice della nostra letteratura nazionale: essi ci mostrano il volto di un'Europa che dobbiamo imparare a ri-conoscere come parte integrante del nostro bagaglio culturale; e se lo fanno nella nostra lingua, e abitando la nostra terra, è perché siamo noi, ormai, gli interlocutori del loro dolore.

Nel 1992, una giovane giornalista di Sarajevo, Jadranka Hodzic', da qualche anno residente in Italia, "nella Rimini di Fellini", si toglie la vita sulla riva dell'Adriatico, al di là del quale aveva abbandonato la propria città in fiamme.
Cosciente dell'impossibilità di un ritorno, poco prima di morire aveva scritto queste righe, appunto nella nostra língua, nelle quali sembrano condensarsi la dolente malinconia e il doloroso stupore dì chi sente di appartenere "solo a qualche pezzo di carta ufficiale" 14:

Quando fuggi dalla Bosnia, e dalla guerra, sei convinto che un giorno da qualche parte ti fermerai.
Ti sistemi temporaneamente e pensi di esserci riuscito, perché
l'importante era sfuggire alla disgrazia da cui ti separa solo il mare; tutto d'un
tratto capisci che in realtà non appartieni pii/ a nessuno, nemmeno a te stesso, la
tua vita è uscita dal binario, sei colpevole senza avere delle colpe, ti senti come Kafka: lo sguardo degli occhi è spento guardando il mare, immagini
com dall'altra parte dell'Adriatico, sulla costa che una volta ti faceva sentire te
stesso e dove ora non puoi appoggiare il piede senza un permesso speciale.
Ti fai una passeggiata, e il pensiero ti risuona nella mente:
È facile tornare se sai dove15.


Jadranka era una dei migliaia di profughi che hanno abbandonato la Jugoslavia dal 1991 al 1999, e una degli scrittori migranti che dai molti luoghi della loro diaspora hanno testimoniato l'orrore vissuto da questo paese "ex" situato nel cuore dell'Europa.

La giornalista non ha retto al crollo dei suoi ideali; ma, a dieci anni dalla fine della guerra in Bosnia e a cinque dalla discutibile soluzione della faccenda kosovara, molti altri scrittori balcanici hanno alzato la propria voce sopra i rumori della guerra, e popolano ora il nostro panorama letterario: la diaspora balcanica trova nelle opere di Bozidar Stanisic', Spale Miro Stevanovic', Vera Slaven, Stevka Smitran, Vesna Stanic' la sua più attenta e trascinante rappresentazione. Attenta e trascinante, perché questi autori oscillano tra una minuta e accurata descrizione della realtà che li circonda e una resa del proprio intimo sentire intensa e dolente; "piccolo fiore di nostalgia"16, definisce Paolo Rumiz la raccolta di racconti di Bozidar Stanisic' I buchi neri di Sarajevo, e così ci appaiono le opere di tutti questi autori, che si infilano nelle pieghe della storia restituendoci, con stordente forza poetica, vite perdute, amori infranti, quotidianità dissolte.

Fuggiti in fretta dal "sanguinoso imbroglio jugoslavo"17, essi si pongono come necessario e fecondo punto di raccordo tra un "noi" e un "loro" i cui rapporti è necessario tornare ad indagare. Ancora Paolo Rumiz, che dell'Oriente dell'Europa (Oriente dalla "grande anima", e non Est, come tiene a precisare, poiché quest'ultima è una sigla che etichetta "le periferie della politica e della mente"18 ha fatto l'oggetto di numerosi studi - o il soggetto di un colloquio appassionato - si chiede a chi possa interessare, ormai, occuparsi dei Balcani, per rispondere immediatamente che una tale analisi dovrebbe interessare l'Europa tutta.
Perché questo "brandello esausto d'Europa"19 altro non è se non "lo specchio delle nostre divisioni e l'ultima isola della nostra complessità perduta".
Affrontare questa riscoperta dal punto di vista della letteratura, e rimanendo consapevolmente dalla parte di chi fa letteratura, ci insegna che riconoscere la propria unicità, rifiutare la massificazione, specie per coloro che il destino ha voluto divisi tra più patrie, tra più vite, significa anche intraprendere il cammino verso la libertà.
Ci ricorda che il nuovo, il "diverso", altro non è se non un "potente anticorpo contro l'omologazione"20.
Ci rinnova la consapevolezza che la letteratura sia "una grande maestra di finesse umana, la più grande di tutte, sicuramente migliore di qualsiasi dottrina"21.



Note

1 Predrag Matvejevic' , Mondo "ex": Confessioni, Identità, ideologie, nazioni dell'una e dell'altra Europa, Garzanti, 1996, p. 95.
2 Pedrag Matvejevic', Mondo "ex" Confessioni, Identità, ideologie, nazioni dell'una e dell'altra Europa, Garzanti, 1996, p. 42.
3 Georges Prévélakis, I Balcani, II Mulino, 1994, p.18.
4 Predrag Matvejevic', Ex Jugoslavia, diario di una guerra, Magma edizioni, 1995, p. 17.

5 Joze Pirjevec', Le guerre jugoslave, 1991 - 1999, Einaudi tascabili storia, 2001, p. 124.
6 Milan Kundera, L' ignoranza, Adelphi, 2000, p. 1 1.
7 Gladys Basagotia, Altra lingua, da Parole oltre i confini, Fara Editore, 1999.
8 Predrag Matvejevic', Quaderno balcanico 11, Loggia de' Lanzi editore, 2000.
9 Khaled Fouad Allam, in Mosaici d'inchiostro, Fara editore, 1996.
10 Claudio Magris, Danubio, Garzanti, 1990, p. 63.
11 Agata Keran, L'andata senza il ritorno da Anime in viaggio, la nuova mappa dei popoli, Fara Editore, 1998.
12 Julio Monteiro Martins, da "Sagarana", atti del quarto seminario degli scrittori migranti, 2004.
13 Vesna Stanic, da "Sagarana", atti del quarto seminario degli scrittori migranti, 2004.
14 Gabriella Parati, in Mosaici d'inchiostro, Fara editore, 1996.
15 Jadranka Hodzic', L'altra parte dell'Adriatico da Mosaici di inchiostro, Fara Editore, 1996.
16 Paolo Rumiz, Prefazione di I buchi neri di Sarajevo, MGS Press editrice, 1993, p. 7.
17 Paolo Rumiz, Introduzione di Bon voyage, due racconti in fuga, Nuova dimensione edizioni, 2003.
18 Paolo Rumiz, È Oriente, Feltrinelli, 2003.
19 Paolo Rumiz, Introduzione di Bon voyage, due racconti in fuga, Nuova dimensione edizioni, 2003.
20 Jarmila Ockajova, in Da qui verso casa, a cura di Davide Bregola, Edizioni Interculturali, 2002.
21 Josif Brodskij, Dall'esilio, Adelphi, 1998.


(Tratto dalla rivista Pagina Zero, quadrimestrale di letteratura, arte e culture, numero 6, di marzo 2005)

 


        
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