Il filoncino di pane


Manuel Rivas



Dopo il funerale, nel cimitero di San Amaro, eravamo andati al bar Huevito e poi al David per brindare all'anima defunta. Era morta la madre di Fontana. Lui era affranto, come se portasse ancora in spalla il peso della bara, e aveva quell'aria di dolore colpevole che hanno i figli quando gli viene a mancare la madre. Nel suo caso, la madre aveva avuto l'Alzheimer e confondeva il figlio con l'uomo delle informazioni meteorologiche della televisione.
Guarda com'è serio e ben vestito!, diceva lei. E gli mandava un bacio soffiando sul palmo della mano verso lo schermo.
Fontana interpretava quella smemoratezza come un segno di protesta, di accusa indiretta per le sue lunghe assenze. Era scapolo come tutti noi e gli piaceva andare in giro a divertirsi. Finì per provare un'astiosa antipatia per l'Uomo del Tempo. Finché un giorno O'Chanel gli disse: È che ti somiglia, Fontana. È uguale a te.
E Fontana si mise un doppiopetto come quello dell'Uomo del Tempo e le disse: Mamma, sono io.
Lo vedo che sei tu, gli rispose la madre sorridente. Ho pregato tanto perché ti lasciassero uscire dalle isobare.
Al bancone del bar c'era Corea. Era un bevitore solitario, che non si filava nessuno. Ma le poche volte che parlava, compreso quando voleva essere gentile, gli uscivano di bocca vere e proprie apocalissi, pronunciate con voce grave, come palate di terra. Per questo, quando si avvicinò a Fontana, ci mettemmo in guardia. Ma Corea gli mise una mano sulla spalla e gli fece delle condoglianze sorprendenti: I morti bisogna lasciarli andare. Non dobbiamo trattenerli quaggiù. Si toglie una tegola dal tetto, e che l'anima cerchi il suo posto.
Senza aggiungere altro, Corea tornò al bancone, bevve il sorso che gli restava, pagò il giro di bevute e infilò la porta senza salutare.
Per un po' restammo muti. È una bella orazione, disse alla fine O'Chanel.
La migliore, aggiunse Fontana pensieroso.
Ci vuole un brindisi alla salute dell'anima.
All'anima!
È vero, disse O'Chanel. È vero che ci sono cose che hanno l'anima. O, detto in un altro modo, ci sono luoghi dove le anime si posano come gli uccelli sui rami.
O'Chanel aveva sempre una storia di riserva per riempire i tempi morti. Aveva solo bisogno di un bicchierino per innaffiare la prosodia, come diceva lui. Era emigrato in Francia da giovane, in uno di quei treni che partivano stracarichi dalla Galizia. E gli era andata bene. Apri bene le orecchie! Io montavo parafanghi alla Renault!, diceva come un maresciallo vittorioso. Raccontava perfino che era stato seduto con un famoso filosofo ai tavolini di un caffè sulla riva della Senna e che il filosofo aveva preso nota di quello che lui gli diceva. Naturalmente, assicurava O'Chanel, prima mi aveva chiesto il permesso. Quello sì che è un paese con educazione e cultura! E che a volte gli veniva una nostalgia al contrario. Devo tornare ancora a Parigi! Lì sanno apprezzare un uomo dotato di prosodia.
Io una volta, disse in quell'occasione O'Chanel, una volta mi sono mangiato un'anima.
E ci guardò tutti, uno per uno, come a chiedere tempo prima di essere contraddetto.
Da bambino, quando pativamo la fame, mia madre mi spedì con la tessera del razionamento. Per vedere cosa distribuivano. Davano sempre poco, ma qualunque cosa entrasse in casa di un povero era un manicaretto. Noi vivevamo in campagna, ma non avevamo terreni. Mio padre, come sapete, era operaio. I contadini ancora se la cavavano. Arrivavano gli incaricati degli approvvigionamenti, facevano piazza pulita di tutto quello che potevano, ma restava sempre qualcosa da mettere in pentola. Nella nostra pentola, invece, il più delle volte, c'era solo un osso per dare sapore alla minestra di verze. Ed eravamo molti in famiglia, una covata di pulcini intorno alla madre. Se lo racconti ora ti ridono dietro, ma voi sapete che era vero.
Comunque, mia madre mi mandò con la tessera. Mi disse: Su, va' a vedere cosa danno.
Uscii la mattina presto. Dovevo camminare cinque chilometri fino a Cambre. Mi lasciai dietro la casa, buia e piena di fumo, perché le disgrazie non vengono mai sole e il fuoco brucia male e diventa pigro quando non ha niente da cuocere. Mi lasciai dietro i miei fratelli, una solfa corale di pianto e tosse. E il giorno, fuori, era come la casa dentro. Con una nebbia appiccicaticcia, una rogna fredda e malinconica che avvolgeva ogni cosa e ti entrava in testa. C'erano degli uccelli sui rami e gli steccati, ma sembravano tutti in lutto, assorti e con il cappuccio funebre. Il sentiero era coperto di fanghiglia e io cercavo appoggi di pietra per non infradiciare gli zoccoli, ma a volte scivolavo, fino a quando il fango mi arrivò alle caviglie e allora smisi di preoccuparmi ed entravo apposta nelle pozzanghere, come un animale acquatico. La gente, nei luoghi in cui passavo, sembrava non vedermi. Io dicevo buongiorno, mi guardavano in tralice, ma non rispondevano al saluto. Ero un bambino invisibile.
Così fu il mio viaggio verso il filoncino di pane. Perché quando mostrai la tessera del razionamento tutto ciò che mi diedero fu una pagnotta.
E tornai abbracciato al filoncino. Per me quel pane aveva il colore dell'oro. Al ritorno camminavo con molta prudenza, deviando qua e là per trovare un buon passaggio. Per niente al mondo potevo scivolare e sciuparlo. Fu allora che la fame si svegliò. Io l'avevo distratta e assopita, ma dev'essersi rianimata sentendo il pane così vicino. E senza pensarci, ne presi un pezzettino. E lo lasciai ammorbidire in bocca, tenendolo lì senza masticare. Per me aveva tutti i sapori del mondo. Di dolce, di caramella, di meraviglia. E subito mi accorsi che il giorno si stava schiarendo e che la nebbia si alzava, sfilacciandosi sugli alberi.
E le mie dita seguitarono a bucherellare la pagnotta, a fare palline di mollica. Si muovevano per conto proprio, senza il mio intervento, e portavano la mollica alla bocca come se fosse un altro a darmela. Era davvero una bella giornata. Non avevo mai notato i colori che assume l'inverno in Galizia. Con le violette al bordo del sentiero, le ginestre che indorano i monti, i fiori dei campi di rape simili a immensi tappeti palatini.
Un altro boccone e gli uccelli si mettono a cantare. Il merlo, il pettirosso, la monachella, il passero, la cinciarella, lo scricciolo. il fringuello, l'allodola in alto nei cielo. Allegri parenti che non emigrano.
Un altro pezzo di pane nel palato e le campane di Sigrás si mettono a rintoccare. Non un suono lugubre, come era usuale in quel periodo. Era un rintocco festivo, che percorreva i campi come un'alborada.*
Il muggito delle mucche e il canto dei galli sembravano inni d'abbondanza e di vita. Un vecchio ammucchiava letame sul carro, riempiendo il mattino di un caldo aroma che odorava di raccolti futuri, di patate bollite e pane di granturco, e persino di sardine di mare.
Buongiorno, ragazzo! disse Vulto, l'anziano vicino che non diceva mai una parola. Buon Natale!
Quel saluto affettuoso ebbe l'effetto di un ceffone. Vulto era muto e Natale era passato da un mese.
Guardai in basso. Del filoncino restava solo una polvere di farina sul cappotto. Davanti a casa, la scossi via come chi si libera di un peccato. Aprii la porta e una dozzina di occhi, in quella tana affumicata, mi guardarono scintillando d'ansia.
Cosa ti hanno dato?, chiese mia madre.
Una pagnotta, risposi. Un filoncino di pane.
Per non rimandare ulteriormente la penitenza, aggiunsi subito: Me lo sono mangiato tutto per strada. E lasciai cadere le braccia, avvicinandomi a lei avvilito, sperando che me le desse di santa ragione.
Mia madre mi guardò dritto in faccia, come a chiedersi dov'è che si inceppa il disegno divino. Ma poi mi avvicinò al suo grembo e mi asciugò il viso con quel grembiule che aveva, stampato a fiori di camomilla.
E disse: Hai fatto bene, figliolo, hai fatto bene!




Nota

* Brano musicale suonato dalle cornamuse all'alba dei giorni di festa (N. d. T.)



(Tratto da La lingua delle farfalle, Feltrinelli, Milano, 2005, traduzione di Danilo Manera.)


Manuel Rivas


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