Afeng

- Brano tratto dal romanzo "Il maestro della notte" -

Bai Xianyong



Arrivato al centro dell'album, il signor Guo si fermò. La pagina era occupata quasi tutta da un'unica grande fotografia, sotto c'era scritto: " N. 50, Afeng, 1958 ".

La foto, già leggermente ingiallita, misurava quindici centimetri per venti, e ritraeva il busto di un giovane di circa diciotto anni dall'aspetto molto particolare. Portava una camicia nera alla quale mancavano tutti i bottoni. Gli angoli della camicia erano legati con un nodo all'altezza della pancia; il petto era scoperto e rivelava il tatuaggio di una fenice e di un liocorno, oltre a quello di un dragone unicorno che mostrava i denti e gli artigli, attorcigliato alla bocca dello stomaco. I capelli del ragazzo, ricci, neri e folti, formavano una criniera di leone che gli copriva la fronte. Le lunghe sopracciglia si riunivano al centro, il naso era dritto, le labbra sottili erano serrate. I grandi occhi luminosi sembravano essersi bruscamente incassati e, nascosti sotto le lunghe sopracciglia, pareva brillassero anche nella foto, il viso triangolare aveva il mento a punta lievemente sollevato.
Guo fissò a lungo la foto, mentre i suoi capelli d'argento scintillavano.
- Questi ragazzi, le loro vite sono le più strane, le più strazianti. . .
La voce vecchia e rauca di Guo si fece improvvisamente triste e cominciò a scorrere lentamente.

- Afeng era nato a Taibei, nel quartiere Wanhua, nella zona del tempio Longshan, un selvaggio senza padre né nome. La madre, muta dalla nascita, era anche un po' toccata e quando vedeva un uomo gli sorrideva con un'aria sciocca. In ogni caso, aveva qualcosa di attraente e il suo corpo rotondo, bianco come la neve, ricordava una palla di farina. Era soprannominata "Piccolo Zongzi", perché fin da bambina vendeva questi dolci di riso glutinoso nel banchetto del padre al mercato notturno di via Huaxi, davanti al tempio Longshan. Quando qualcuno passava, la muta lo tirava per l'orlo del vestito facendo un sacco di strani versi che divertivano l'avventore che finiva sempre per comprarle qualcosa. Diventata grande continuò a comportarsi allo stesso modo, senza farsi tanti scrupoli. A volte le capitava di errare fino al quartiere dei bordelli a Baodouli, libera e a suo agio con in mano un cartoccio di calamari arrostiti che mangiava oscillando sui suoi zoccoli che battevano il selciato. Faceva anche dei grandi sorrisi agli uomini che incontrava e che andavano lí in cerca di piacere. Alcuni furfantelli del vicinato, approfittando del fatto che era muta, la costrinsero a dormire con loro. Tornata a casa, cercò di comunicare l'avvenuto a gesti e grugniti al vecchio padre, il quale vedendola con i capelli arruffati e la gonna macchiata di sangue, si infuriò al punto da picchiarla selvaggiamente. Ogni volta che veniva picchiata, correva a piedi nudi fino al tempio, vi si sedeva davanti, sul ciglio della strada e si metteva a piangere. Vedendola in lacrime, i giovani venditori ambulanti si lanciavano uno sguardo d'intesa e ridendo commentavano: "La piccola Zongzi si è fatta di nuovo infilzare! "
- L'anno in cui compí diciotto anni, all'ora del crepuscolo stava per scatenarsi un tifone. Lei aveva sbaraccato e stava spingendo la carriola per rientrare a casa, quando a metà strada fu prelevata da una banda di cinque furfanti. Quella volta si difese con tutte le sue forze, tanto che i cinque la legarono e le ruppero anche un incisivo. Dopo la gettarono nel canale di scolo dietro al tempio, lei si arrampicò su e tornò a casa sotto la pioggia scatenata dal tifone. Quella notte la muta restò incinta. Il padre le fece prendere medicine tradizionali cinesi a base di erbe di tutti i tipi e poco mancò che non morisse intossicata: le provocarono vomito e diarrea, ma non la fecero abortire. Dopo nove mesi e un parto difficile che durò piú di due giorni, diede alla luce un bimbo forte e robusto che mandò un vagito potente. Il padre non volle che restasse un attimo di piú insieme alla figlia, la notte stessa chiuse in un sacco il neonato che piangeva e lo portò all'orfanotrofio Lingguang, Luce divina. Afeng è cresciuto nell'orfanotrofio cattolico di Zhonghe.
- Fin da piccolo, si dimostrò un bambino straordinariamente dotato, di un'intelligenza superiore alla media. Imparava qualsiasi cosa e quando i preti gli insegnarono il catechismo, gli bastò leggerlo una volta per ripeterlo per filo e per segno. Padre Sun, un vecchio prete originario dello Henan, aveva molto affetto per lui, gli insegnò a leggere e a scrivere e le storie della Bibbia. Ma Afeng aveva un carattere bizzarro, molto diverso dalla gente normale, a volte era gelido, altre prendeva fuoco come un cerino, un tipo instabile. Non amava la compagnia e girava per l'istituto sempre da solo. Se gli altri orfani lo importunavano, li cacciava via a calci e a pugni. Dopo aver offeso la maggioranza di loro, questi si coalizzarono per dargli una lezione. Lui non alzò nemmeno un dito per difendersi dai suoi aggressori, che gli gettarono in testa e sul viso fango e sabbia. Alla fine andò da solo a lavarsi al rubinetto. Padre Sun gli chiese come mai avesse il viso gonfio e livido, ma lui rimase a bocca chiusa e non proferì motto. Fin da piccolo soffriva di una strana malattia: gli capitava di mettersi a piangere senza motivo, e quando cominciava non si fermava prima di due ore, scosso per tutto il corpo dalle convulsioni. A volte, a mezzanotte si nascondeva nella cappella e singhiozzava appoggiato a un banco. Quando Padre Sun lo sorprendeva, gli chiedeva perché piangesse, ma lui rispondeva che gli doleva il cuore e che questo lo faceva stare meglio. Crescendo divenne sempre più imprevedibile. Una volta, la notte di Natale, quando il direttore dell'orfanotrofio portava i ragazzi nella cappella per seguire la messa, Afeng si rifiutò di fare la comunione. Il direttore lo rimproverò e lui esplose: si precipitò sull' altare, afferrò alcune statue di santi di ceramica e le scaraventò a terra mandandole in mille pezzi. Il direttore lo rinchiuse per una settimana, mentre Padre Sun gli fece recitare il rosario tutti i giorni. L'anno in cui compi quindici anni, scappò dall'orfanotrofio e non vi tornò mai più.
- Afeng fece irruzione nel parco come un puledro selvaggio che avesse rotto le redini, caricava a destra e a sinistra, si scagliava in avanti. Nessuno sapeva come domare quella forza scatenata, tranne me, mi ascoltava una volta su tre. Appena arrivato litigò con alcuni furfanti di Sanchong addetti alla registrazione e si beccò qualche coltellata. Lo riportai io a casa e lo curai. Steso sul letto, si accarezzò la ferita rossa e gonfia che aveva sul ventre e ridendo mi disse: "Nonno Guo, se avessero colpito un po' più a fondo, ti avrebbero risparmiato tutte queste seccature! "
- Afeng... era un vero figlio del parco, la fenice selvatica del nostro giardino. Andava e veniva sulla piattaforma attorno al Lago dei loti, portando in giro la sua capigliatura leonina, a testa alta e gonfiando il petto, come se nessuno fosse degno della sua attenzione. Molti furono i vecchi che ne subirono il fascino! Uno di questi fu il signor Sheng, della società di produzione Wannianqing. Pensando di adottarlo, l'aveva portato al suo studio in via Bade per rivestirlo da capo a piedi. Gli aveva fatto fare un completo all'occidentale di flanella grigia da un sarto di Shanghai che lavorava a Ximenting e gli aveva anche comprato da Huntley un Rolex con la cassa d'argento. Cosí, vestito come un signorino di ricca famiglia, l'aveva portato a mangiare al Lido. Sheng voleva garantirgli un'istruzione, farlo studiare e trasformarlo in una stella del cinema. Ma la fenice selvaggia rimase con il signor Sheng solo una settimana, poi volò nuovamente nel parco. Impegnati abito e orologio per migliaia di dollari, invitò la banda dei selvaggi del parco al locale dell'istruttore Yang, il Taoyuanchu, dove riservò due tavoli per mangiare e bere con i ragazzi. Quando furono tutti ubriachi, montò su un tavolo e si mise a cantare Fiori nella notte di pioggia. L'allegria era al massimo e tutti battevano le mani, quando lui saltò giú dal tavolo e senza nemmeno girarsi se ne andò.
- Siccome era di umore mutevole, la gente che frequentava il parco non se ne fidava e non osava troppo provocarlo. Quando compi diciotto anni suonò l'ora del suo destino, incontrò la sua cattiva stella. Era il figlio di un alto funzionario, ed era figlio unico; poiché era nato sotto il segno del Drago, lo chiamavano Dragone. Era bello, di famiglia illustre, laureato all'università e impiegato in un'impresa straniera. Tutto faceva supporre che si dovesse recare all'estero per proseguire gli studi e intraprendere una brillante carriera. Chi poteva immaginare che il primo incontro tra il Dragone e la Fenice sarebbe stato come se un fulmine celeste avesse provocato sulla terra un incendio impossibile da spegnere? Dragone affittò un appartamento alla fine di via Songjiang e vi costruí un nido dentro al quale nascose Afeng. All'epoca, la strada finiva in una risaia e il loro appartamento vi si affacciava, bastava aprire la finestra per contemplare la distesa di verdi germogli lucenti. I due correvano nei campi a torso e piedi nudi, andavano a cercar lumache, poi, coperti di fango, si sedevano ai bordi della risaia per dividersi un melone che mangiavano a turno, un boccone per uno. Attraversarono un periodo felice. Ma poteva la Fenice selvaggia starsene buona buona a guardia del nido? Talvolta a notte fonda volava al parco, si metteva a cavalcioni della ringhiera di pietra e contava le stelle. Dragone veniva a cercarlo per riportarlo a casa, ma lui rispondeva: "Questa è la mia casa, dove dovrei tornare?" Ma anche Dragone aveva un temperamento esplosivo e il loro disaccordo si trasformava in un una lotta corpo a corpo con conseguente strappo dei vestiti. Dopo le botte, si sedevano sulla pedana e scoppiavano a piangere uno fra le braccia dell'altro. Tutti li prendevano in giro, dicevano che erano pazzi d'amore. In quel periodo, spesso Dragone prendeva un taxi a notte fonda e si metteva a cercarlo per tutta Taibei, chiedendo in giro: "Avete visto Afeng?" La gente del parco, per gelosia o perché si divertiva delle disgrazie altrui, gli inventava un sacco di storie: "Afeng è andato al Xinnanyang". "È andato con un tizio per uno snack al Taoyuanchu". "Afeng? Non se l'è portato via il signor Sheng?"
Dragone, prendendo sul serio le loro parole, andava a cercarlo in tutti quei posti. A volte ritornava al parco a giorno fatto, solo e disperato, e si metteva a camminare su e giú attorno al lago, roso dall'ansia.
- Una sera Afeng si rifugiò qui da me, era livido, gli occhi brillavano come volessero saltar fuori dalle orbite. "Nonno Guo", la sua voce era addolorata, "bisogna che lo lasci, altrimenti mi ridurrà in cenere. "Gli ho chiesto: "Ma tu che vuoi da me?" E lui mi ha risposto: "Voglio il tuo cuore". Gli ho risposto che ero nato senza quella cosa. E lui: "Se non lo hai, ti dono il mio". Ho veramente paura che un giorno possa strapparsi il cuore e ficcarlo a forza nel mio petto. Nonno Guo, tu lo sai, ho imparato a fuggire fin da quando ero piccolo, sono fuggito dall'orfanotrofio per venire a vagabondare nel parco. Niente è piú gradevole dell'appartamentino che ha affittato per me in via Songjiang. Ci ha trasferito di nascosto un mucchio di cose di casa sua: un ventilatore elettrico, una pentola elettrica, un divano, persino il televisore così da non farmi sentir noia la sera. Eppure - eppure, non so perché, ma non posso restare là, non penso che a scappare nel parco. Ti ricordi, nonno Guo? Avevo quindici anni quando vi ho fatto la mia apparizione, e la prima volta che ho dormito con qualcuno, mi sono preso una brutta malattia; sei stato tu a portarmi all'ospedale municipale per farmi fare un'iniezione di penicillina. Il mio corpo è infetto, gli ho detto, che vuoi farci con questo corpo disgustoso? Ti guarirò leccando ogni centimetro del tuo corpo, lavandolo con le mie lacrime. Non sono follie? Per questa vita non è piú possibile, gli ho risposto, ma quando rinascerò in una buona famiglia ti ripagherò. Nonno Guo, devo scappare, volatilizzarmi, fuggire! "
- Afeng sparí per due mesi, Dragone lo cercò per tutta Taibei, finché gli si arrossarono gli occhi e divenne pazzo. Una notte, la vigilia di Capodanno, Dragone fini per ritrovare la Fenice nel parco, attorno al Lago dei loti. Stava appoggiato alla balaustra di pietra e, benché la notte fosse gelata, portava solo una camicia e tremava, stava discutendo il prezzo con un vecchio grasso e brutto e che puzzava di vino. L'ubriaco tirò fuori cinquanta dollari e Afeng stava per seguirlo, quando Dragone gli si mise dietro, li superò e li bloccò, supplicandolo di tornare da lui. Ma Afeng scuoteva ininterrottamente la testa, guardando Dragone con un'espressione di impotenza. Dragone gli prese le mani: "Rendimi il mio cuore, allora!" Indicandosi il petto Afeng rispose: "È qui, prenditelo!" Dragone tirò fuori un coltello e lo immerse nel petto della Fenice. Afeng cadde al centro della pedana, fiotti di sangue coprirono il terreno...
La voce di Guo si interruppe bruscamente , le palpebre si chiusero lentamente, e il suo viso rugoso parve coprirsi di una tela di ragno.
- E poi? - chiesi ansimante dopo un minuto di. silenzio.
- Poi, - la voce roca di Guo tremava leggermente, - Dragone si sedette nella pozza di sangue, prese Afeng fra le braccia, e impazzì.

Rimasi tre giorni a casa di Guo a sentirlo raccontare le vicende della ricca storia del parco. Mi insegnò anche le regole da osservare lì dentro: quali persone avvicinare, da quali tenersi alla larga, quando allontanarsi e quando mettersi al riparo. Guo aveva fatto venire un fotografo nel suo studio per servire i clienti ordinari al piano di sotto. Il mio ritratto, però, lo fece lui stesso al piano di sopra, e fu sempre lui a entrare nella camera oscura per svilupparlo. Ne scattò una decina e alla fine ne scelse una a mezzo busto che inserì nell'album. Ero il numero 87 e, mi disse, ero un giovane astore. Prima di separarci, cercò un vecchio abito perché mi cambiassi, l'aveva lasciato Tie Niu, che portava all'incirca la mia taglia. Mi infilò in tasca cento dollari, e posandomi le mani sulle spalle, si raccomandò con molta serietà fissandomi negli occhi:
- Vai, Aqing, bisogna che anche tu cominci a volare. Ce l'avete nel sangue, voi ragazzi selvatici nati su quest'isola, ce l'avete nel sangue questa forza bruta che somiglia ai tifoni e ai terremoti che la scuotono. Siete come uccellini caduti dal nido. E come le rondini marine che attraversano i mari e gli oceani e non sanno fare altro che andare avanti, per finire chissà dove, cosi neppure voi lo sapete...




(Brano tratto da Il maestro della notte, ed. orig. 1983, Einaudi, Torino, 2005. Traduzione dal cinese di Maria Rita Masci.)


Bai Xianyong (Kenneth Pai), nato in Cina nel 1937, si è traferito a Taiwan nel 1952 seguendo il padre, generale del Guomindang. Vive a lungo negli Stati Uniti insegnando il cinese all'Università di Santa Barbara in California, da cui si ritira nel 1994. Il maestro della notte, alla sua uscita nel 1983, ebbe controversa accoglienza a Taiwan e fu proibito in Cina. Ora il romanzo si trova in libreria in entrambi i paesi, dove l'autore è considerato uno dei più importanti narratori in lingua cinese.


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