L'ululare dei lupi


Amor Dekhis



"… che in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si
deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare
testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di
salvare almeno lo scheletro, l'impalcatura, la forma della
civiltà
".
Primo Levi, Se questo è un uomo







Algeri, 2015
Sto lì di fronte a loro due, come parte di un trittico, la vista sfocata e il cervello fuori uso. Un'arsura mi prosciuga risucchiandomi in un pozzo di confusione. Non so se il mio sia un sogno illusorio o un momento reale colmo di felicità. A stento reggo un corpo che ha quasi la rigidità di un cadavere. Sono smarrito nel dubbio di non poter reggere tutto il peso di questa situazione.
Mi trascina fuori dalla realtà l'abbraccio fra Ilaria e la donna che avevamo ritrovato, e con lei il mio passato. Il passato di una società che aveva rotto i propri argini. La vedo affondare la testa dentro il petto di Ilaria, come se fossero legate da un'amicizia con radici fin nel profondo della loro più intatta infanzia, e non si fossero appena incontrate sui sentieri di un mondo che aveva sfiorato gli abissi.
Che lei fosse ancora in vita era stata la notizia più sbalorditiva che avessi mai sperimentato personalmente, e che mi era giunta comunque grazie alla canna della mia arma puntata sul faccione di quel tizio. Mentre sotto i miei piedi avvertivo una violenta vibrazione, come un terremoto, che mi aveva spinto a fare valigia e prenotazioni, e a partire nella furia di un'impazienza euforica e incalzante. Non ebbi nemmeno un attimo per godere del fatto che temevano la morte pure loro, gli ex signori del coltello, dopo una carriera nell'orrore del sangue, con la lama ben affilata e luccicante sulla gola di metà della popolazione, compresi i neonati. Appena concluse le pratiche dell'arresto, avevo piantato in asso l'ispettore Armando, il mio capo. Avevo un assoluto bisogno di conforto, di scambiare una parola con qualcun altro, al di fuori del mio lavoro, per porre un freno alla mia discesa nella follia. Nel chiaroscuro della mia mente, come in uno schermo, passavo in rassegna uno dopo l'altro i volti di Ilaria, don Carmelo e Ammar. Pensando ai tempi di Ammar, mi ero dato a una corsa incosciente ed ero finito in mezzo ai pittori, nel Piazzale degli Uffizi.
Così sedetti sulle lunghe scalinate appoggiando la schiena alla colonna che reggeva la statua del Machiavelli e gli avevo fatto un segno di saluto. Un tenero raggio di sole, che sfuggiva alle alte mura del museo, aveva messo un qualche ordine nello scompiglio della mia testa. Avrei voluto vedere don Carmelo, ma in quel poco tempo avevo fatto il diavolo a quattro invano per rintracciarlo.
Avevo comunque deciso per questo viaggio. Dovevo soltanto parlare, più tardi, rientrando a casa, con Ilaria, che ne sapeva abbastanza della mia storia e dei traumi passati, ma portavo addosso tutte le incertezze sulla sua reazione.
"Ho capito, non c'è tempo da perdere. Andiamo insieme" aveva invece tagliato corto lei.
Nelle sue parole perentorie, in quella reazione positiva e determinata di fronte a vicissitudini surreali, avevo scoperto la sua grande volontà di andare fino in fondo, a costo di rompere il guscio di una quotidianità rassicurante.
Detto fatto. Così Ilaria mi accompagnò. Mi accompagnò pure il rovello ancor fresco degli omicidi scoperti nei giorni precedenti, nel corso delle indagini che stavo svolgendo con la mia squadra. La fine tragica del povero Samir e del povero Bouneb si mescolavano con un mio dramma antico, la fine dei miei cari, che mi aveva tormentato lungo il cammino della mia vita errante e continua a tormentarmi tuttora, al ritorno nelle mie terre, dopo un'assenza ininterrotta di quasi vent'anni da quando avevo deciso di scomparire.
Durante il viaggio niente poteva deviare la mia mente fissa sull'obbiettivo. Sul volo Roma-Algeri avevo mandato giù appena un boccone. Dal vassoio preconfezionato recuperai il curioso cartellino che riportava la comunicazione ai passeggeri, ripetuta in varie lingue: "Questo pasto non contiene carne di maiale". L'avevo letto più volte meccanicamente, senza chiedermi il senso di quell'avvertimento, né accorgermi della mano di Ilaria che di tanto in tanto mi accarezzava una guancia.
Al nostro arrivo alla sede dell'Association Femmes Libres, la vedo e faccio un inchino. Poi mi inginocchio a lungo davanti a lei, alla sua tragedia consumata nel corpo e nell'anima. Sul volto espone, con dignità, una solitudine protratta negli anni, tanti quanti la mia scomparsa, quasi un'eternità. Nella luce del suo sguardo però, senza ombra di dubbio, vengo colpito da un intenso e ammirevole raggio di vita appeso all'istinto della continuità. Nel momento in cui si volge a riconoscere il suo visitatore, la prendo fra le mie braccia. Non può avere nessun'idea di quel che è diventato il suo uomo, con il quale aveva concepito il progetto di vita poi fallito per volontà di altri; con il quale aveva condiviso gli anni giovanili, belli e difficili nei tempi maledetti, che avevano segnato tutti e due, tutta una generazione, tutta una nazione, e ne avevano fatto un impasto indelebile nella loro memoria.
Allora lei si piega e si lascia cadere sul pavimento, lo sguardo esausto e remissivo è fisso su di me. Scendono le sue lacrime silenziose e contenute a solcare, come la punta di un pugnale, il mio cuore. Non so ancora se siano espressione di gioia per avermi davanti a sé, o se non siano piuttosto provocate dal ricordo degli inferi di un passato disumano. Forse ha letto nel mio improvviso arrivo un ulteriore segno della sua sconfitta, giacché sono accompagnato da un'altra donna, Ilaria.
Prendo la sua testa fra le mani stringendomela al collo. Riconosco i riccioli annodati sulla candida nuca liscia. L'identico profumo di nipitella che, in un tempo remoto, accendeva le mie sconfinate bramosie, ora incalza il mio respiro. I nostri due petti battono senza tregua.
"Salè!" mi sussurra Ilaria.
Mi raggiungono le sue mani alle spalle. Teneramente mi sorreggono per tirarmi indietro. Mi separo dalla donna. Retrocedo verso la panca posta lungo la parete. Lascio cadere il mio peso di quarantacinquenne. Incapace di iniziativa, mi affido alla decisione del destino e delle due donne.
"Je m'appelle Ilaria" pur nella sua pronuncia esotica, Ilaria parla un francese impeccabile. Prende il mio posto di fronte alla donna piegata come una bandiera a mezz'asta verso il pavimento grigio e freddo della stagione umida: aveva certamente capito che la straniera era la donna del suo uomo, forse la grande perdente rimaneva solo lei. Ilaria la prende per le braccia esili e la tira leggermente verso di sé. La donna si lascia stringere e si rifugia nascondendo il viso nel petto prospero di Ilaria.
Sto lì come un sasso ad aspettare, se necessario all'infinito, il momento in cui si libereranno da quell'abbraccio di affetti. Ilaria la tiene come una fanciulla, apparentemente rattristata da una malinconia passeggera. Ma i motivi del suo dolore protratto, fin troppo documentati dai fatti di cronaca e ricostruiti per congettura nella mia mente, li conosce il mondo intero. Posso già indovinare quanto aveva subito e il cammino cieco che aveva percorso.
Sempre impietrito, dalla panchina osservo la scena e subisco un fremito in tutta la colonna vertebrale. Dentro di me pullulano fatti remoti, che mi spingono quasi a sputare l'anima con l'ultimo respiro. Ma a un tratto, come risvegliato, porto la mano al fianco sinistro, sotto la giacca, dove tengo l'arma di ordinanza quando sono in servizio. Mi stupisco del gesto, che di solito non faccio nemmeno durante il mio lavoro. Forse è la rabbia, forse sono gli occhi umidi di lei a suscitare in me un sentimento strano, più che di giustizia, di vendetta. Sotto la giacca non c'è né cintura né pistola. Ero stato costretto a lasciarle a casa. Non lo potevo portare, in visita privata in un altro paese. Il mio paese!
Lascio le due donne e mi affaccio alla finestra. La sede dell'associazione, benché situata in un quartiere piuttosto squallido, offre alla vista un ampio panorama. Nella grande metropoli, abbiamo l'impressione di avere sempre un panorama incantevole che riempie gli occhi nostalgici, dovunque si presenti il punto di vista. Per distrarla, con la mente mi avventuro fuori della palazzina, dove eravamo passati poc'anzi, nella via gremita di gioventù che si intrecciavano nei due sensi. Uno scorcio aveva attirato la mia sete di scoprire il posto, mi aveva spinto a proseguire un tratto, Ilaria al mi fianco tutta zitta. Avevo scorto un negozietto simile a una cartoleria o a un giornalaio, il ragazzo che ci lavorava sonnecchiava sul banco.
Poco in là, un topo grosso quanto una lepre, con l'aria ostile verso gli uomini, ci aveva tagliato la strada con dispetto ed era sparito nella scarpata alberata, seguito da tutta una schiera di suoi simili. Ci eravamo fermati lì, e saltando su marciapiede, ci aveva accolto un rumore meccanico incessante, misto alla segatura che usciva da tutti i buchi di un piccolo stabilimento. Eravamo costretti a battere in ritirata, rimanendo però a lungo all'imbocco della strada, appollaiati sulla città bianca, una lunga contemplazione della baia che ospita nel suo grembo il grande porto.
Caccio via questa distrazione e la mia mente torna all'interna della stanza
. Ilaria e lei sono sempre abbracciate. Noto nel movimento delle labbra una lenta conversazione. Ilaria con brevi domande, lei con ancora più brevi risposte, nei gesti del capo, che annuisce.
Non ci sono più egoismi. Le gelosie si infrangono. La forza della vita e la solidarietà prendono il sopravvento. Le due donne si fondono in un'unica esistenza.
In stato confusionale, non so da dove sono tornato, se sia mai vissuto. La scena che occupa la mia vista e la mia anima mi travolge. Comincio a vedere tutto un percorso del mio errare, nella metamorfosi che ha coinvolto me e il mio nome. Da Salah a Salè.
Con le chiappe attaccate alla seggiolan sprofondo fino alle luci di quell'aurora, ora nitida nei miei ricordi. E io so com'è andata fin qui, ma non come andrà a finire la mia tormentata storia.

(da L'ululare dei lupi, Napoli, L'Ancora del Mediterraneo 2006)




Amor Dekhis è nato nella provincia di Sétif (Algeria) e vive e lavora a Firenze. Dopo aver concluso gli studi all'Ècole Nationale des Beaux-Arts di Algeri, ha frequentato l'Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Firenze specializzansi nel 1988 nel campo dell'Industrial Design. Ha pubblicato racconti sulle riviste letterarie "Caffè", "Narrasud", "Sagaranaonline" e in numerose antologie. È stato selezionato più volte nel premio letterario Eks&Tra, vincitore del 4° premio dell'edizione 2000 e del 3° di quella del 2003. Fra i vincitori del premio Matricina Cuscus, finalista nel concorso letterario del Comune di Cadeo "Il Racconto Italiano", col romanzo L'ululare dei lupi (L'Ancora del Mediterraneo 2006), da cui è tratto il brano pubblicato, è stato finalista del Premio Italo Calvino, edizione 2003.



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